Settembre 2002

MUSICA E INDUSTRIA

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Dalle corti ai salotti
Sergio Bello
 
 

 

 

Mentre
la diffusione del grammofono
cresceva nel corso degli anni
molto lentamente,
la diffusione della radio fu impetuosa.

 

La musica è una delle più antiche forme di espressione umana: quasi tutte le società della Terra possiedono strumenti musicali di vario tipo, a percussione (i più semplici e diffusi), a fiato, ad arco e a tastiera (i più complessi). Quasi dappertutto, però, l’ascolto della musica era una volta confinato solo ad alcuni momenti particolari: feste religiose e profane, spettacoli, fiere.
L’abitudine di ascoltare musica con regolarità è fenomeno recente, nato inizialmente come privilegio della società di corte europea sei-settecentesca. E’ infatti nelle corti reali, e comunque nobiliari dell’età moderna, che si è cominciato a diffondere l’uso di reclutare orchestre dette “da camera”, proprio perché si esibivano in ambienti chiusi, e musicisti, con il compito di allietare anche con composizioni appositamente concepite i diversi momenti della giornata. Nel corso dell’800, l’uso di suonare nei salotti si diffuse, come molte altre abitudini di origine aristocratica, anche nelle abitazioni della borghesia. Ciò fu reso possibile da uno strumento di recente invenzione, il pianoforte, introdotto sul mercato attorno al 1770.

Il piano permette a una sola persona di produrre suoni abbastanza vari da animare un ambiente per un’intera serata, e si presta perfettamente ad accompagnare la voce di un cantante o dello stesso pianista. E’ con esso, in effetti, che nacque l’industria musicale moderna. Per tutto il corso dell’800 il mercato dei pianoforti continuò a crescere: all’inizio del secolo lo strumento era ancora legato alle corti, nell’età della Restaurazione cominciò a diffondersi nelle abitazioni della buona borghesia e nei settori più prosperi della classe operaia.
Ma la vendita di strumenti era solo un aspetto del mercato musicale. C’era anche un altro mercato, quello della stampa musicale. Gli editori di musica, principalmente tedeschi, ma anche di altri Paesi (in Italia la maggiore casa editrice fu e resta la Ricordi, la prima a importare le nuove tecniche di stampa della musica sperimentate all’inizio dell’800 in Germania), che in precedenza avevano pubblicato partiture per i diversi strumenti, trovarono un nuovo e redditizio mercato nelle famiglie borghesi che acquistavano, soprattutto per le loro figlie, spartiti di romanze, o arie d’opera, o ancora trascrizioni per piano di brani scritti originariamente per orchestra o per altri strumenti.

E’ in quest’ambito che nacque quella che sarebbe stata chiamata poi “musica leggera”. Le romanze, le arie d’opera, i lieder (canti della tradizione tedesca) si prestavano ad essere eseguiti nei salotti, ma richiedevano voci allenate, educate da lunghi studi: un bene raro.
Dalla tradizione del canto popolare era possibile trarre ispirazione per composizioni di altro tipo, semplici e soprattutto facili da eseguire anche per voci non particolarmente coltivate; composizioni che presentavano un altro importante vantaggio, poiché erano spesso ballabili. Nascevano così le “royalty song”, le canzoni per le quali gli editori pagavano ai compositori un diritto d’autore, analogo a quello che i compositori di musica “seria” riscuotevano sulle loro opere, ma fondato su un mercato più di massa.
Negli ultimi decenni dell’800 questo mercato si espanse in maniera rapida e notevole: in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, si diffuse l’abitudine di presentare le nuove canzoni in alcuni momenti particolari dell’anno, allo stesso modo in cui le grandi firme della moda presentano in momenti topici le novità della stagione. Nascevano così quelli che sarebbero poi diventati i “festival musicali”.

Il testo e la musica della canzone potevano risultare interessanti, d’altra parte, non solo per le case dotate di pianoforte. Bastava una rudimentale educazione musicale per apprendere il tema principale della maggior parte delle composizioni, e bastava appena saper leggere e scrivere per mandare a memoria il testo. Accanto all’editoria musicale si sviluppò così un’editoria minore, o popolare, che diffondeva a basso prezzo dei volantini (“music sheets”) contenenti testo e musica delle canzoni più in voga, e ne affidava la vendita spesso ad ambulanti dotati di uno strumento sonoro di facile uso, l’organo di Barberia, o organetto.
Era uno strumento meccanico, che consentiva di suonare una canzone preincisa girando una manovella. La canzone era “registrata” su un rullo, che muovendosi animava la tastiera dell’organino. Uno strumento analogo era la pianola, un pianoforte meccanico a rullo che pure conobbe una grande popolarità alla fine dell’800. Questi strumenti presentavano due importanti vantaggi sul normale pianoforte: non c’era bisogno di studiare musica per suonarli, e la qualità della loro esecuzione era indipendente dalla bravura di chi suonava.

Ma la novità autenticamente rivoluzionaria fu rappresentata da un’altra invenzione. Nel 1877 Thomas A. Edison brevettava il fonografo. A differenza della pianola, che azionava meccanicamente uno strumento, col fonografo si potevano registrare i suoni direttamente nell’ambiente: questo consentiva quindi di conservare direttamente le esecuzioni di cantanti e musicisti, e di riascoltarle a distanza di tempo. Sebbene Edison non avesse pensato in origine alla possibilità di fare del fonografo uno strumento di ascolto della musica, ben presto questo divenne il principale uso della tecnologia da lui inventata, specie dopo che, nel 1887, Emil Berliner la perfezionò con il suo grammofono.
Mentre il fonografo si serviva di cilindri di cera, registrabili direttamente ma difficili da riprodurre, il grammofono si serviva di dischi che potevano essere stampati in migliaia di esemplari. Era la macchina «che parla, ride, canta, suona e riproduce tutti i suoni», come scriveva nel 1896 una pubblicità della Columbia, la progenitrice dell’attuale Cbs Records. Nasceva così un nuovo tipo di editoria, che vendeva non solo le musiche, ma anche le esecuzioni, le voci celebri, e poteva sfruttare il divismo musicale all’epoca assai sentito: basti pensare alla popolarità mondiale del tenore Enrico Caruso, le cui esecuzioni d’opera furono tra i best seller della neonata industria discografica.

In un primo tempo, a produrre i dischi furono generalmente le stesse case che fabbricavano i fonografi, nei pochissimi stabilimenti di incisione e stampa esistenti prima del conflitto mondiale: infatti quasi tutti i dischi prodotti in Europa fino al 1914 furono fabbricati in un unico impianto in Germania, e solo a causa della guerra l’industria inglese, francese e italiana decisero di dotarsi di stabilimenti propri. I motivi per cui la produzione di grammofoni e di dischi, prima di vetro verniciato e poi di vinile, era unificata sono facili da intuire. Prima di tutto, la tecnologia discografica era ai primi passi, ed era monopolio di poche aziende; in secondo luogo, il mercato più consistente era quello dei grammofoni, e le aziende che lo producevano cercavano di concentrare nelle proprie mani anche la produzione dei dischi, per spingere i propri grammofoni a svantaggio di quelli della concorrenza.

Attorno alla prima guerra mondiale, l’industria del disco aveva ormai caratteri abbastanza stabili: produceva soprattutto canzoni e arie d’opera su dischi fatti per girare, ed essere ascoltati, a 78 giri al minuto. La durata del 78 giri del diametro di 25 centimetri era di circa 3-4 minuti, e questa diventò la durata standard di una canzone, o “canzonetta”, come si chiamò da allora. Si cominciò anche a parlare di musica leggera (popular o pop), per distinguerla da quella delle opere e delle sale da concerto.
Negli anni Venti, un nuovo fenomeno contribuì ad allargare notevolmente il mercato della musica leggera: lo sviluppo della radio. Mentre la diffusione del grammofono cresceva nel corso degli anni molto lentamente, la diffusione della radio fu impetuosa. Alla fine degli anni Trenta, in tutti i Paesi europei e negli Stati Uniti c’erano molti più apparecchi radiofonici che grammofoni.
Dopo la seconda guerra mondiale si impose un’innovazione tecnologica: il microsolco, ovvero una nuova tecnica di incisione che consentiva di registrare una quantità di gran lunga superiore di musica su una superficie più ridotta, e con una qualità di suono molto più elevata. In origine, a dire il vero, si diffusero due standard diversi, anzi in feroce competizione fra loro: il 45 giri, un disco più piccolo di quello tradizionale (circa 17 centimetri di diametro), sul quale erano incise due canzoni di 3-4 minuti, e il 33 giri, un disco unico che durava circa tre quarti d’ora.
Nell’immediato, grazie al prezzo più basso, si impose il 45 giri, che poteva essere suonato anche su giradischi (il nuovo nome del grammofono) portatili e conteneva su ogni facciata una canzone della lunghezza abituale, mentre il 33 giri restava confinato alla musica classica, spesso sotto forma di un album che comprendeva più dischi.
Col microsolco, il mercato musicale subì un cambiamento radicale: prima di tutto, la quantità di dischi venduti cominciò a crescere con straordinaria rapidità; di conseguenza, l’industria che produceva dischi si rese finalmente autonoma da quella dei giradischi e si ebbe una moltiplicazione di etichette, comprese quelle “autoprodotte”: a metà anni Cinquanta bastavano poche decine di dollari per produrre un 45 giri da far circolare tra gli amici.
Il successo proprio in quegli anni del rock’n roll, ballabile destinato soprattutto agli adolescenti, non può essere spiegato se non tenendo conto dei grandi cambiamenti culturali del periodo, e dell’emergere di una cultura giovanile nuova; ma è certo che furono i 45 giri a permettere la diffusione della nuova moda musicale da alcuni centri minori del Sud degli Stati Uniti a tutta l’America e poi a tutto il pianeta. Tra il 1956 (anno-boom di Elvis Presley) e il 1960, la musica adolescente conquistò un mercato vastissimo. Successivamente, con i Beatles, cominciò il declino dei 45 in favore dei 33 giri, che consentivano di uscire dai vincoli stretti della canzonetta e di elaborare discorsi musicali più articolati.
A questo punto, l’industria discografica era diventata, con il cinema, la più multinazionale delle industrie della cultura, in quanto i suoi prodotti si rivolgevano in larga parte a un mercato planetario, come globale è il linguaggio stesso della musica.
Per tutti gli anni Settanta e Ottanta i redditi di quell’industria sarebbero rimasti nettamente superiori a quelli dell’industria editoriale e analoghi a quelli del cinema. Una situazione che le diverse innovazioni tecnologiche, le audiocassette a metà anni Sessanta, il “CD” un quindicennio dopo, le tecniche di registrazione audio digitale nei primi anni Novanta, non avrebbero modificato in modo sostanziale. Fino a che sono intervenuti i giorni di Internet. I nostri giorni di crisi, in attesa di sapere se crisi significhi passaggio o buio profondo per l’industria discografica.

   
   
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