Dicembre 2003

Mafia in sicilia - 1943

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Gli americani sbarcarono senza l’aiuto dei boss
Ada Provenzano - Michele Orefice - Saverio Dalmezzo
 
 

 

 

Ma davvero
è pensabile che
un’armata così
imponente
si affidasse alle
indicazioni e alle strategie paesane
di portaordini che si muovevano a dorso di mulo?

 

 

 

Coll.:
D. Manti
F. Gerosi
B. De Nicola

 

Lo sbarco degli Alleati in Sicilia del luglio 1943 venne pianificato con l’apporto fondamentale della mafia isolana? In quella gigantesca operazione militare, che precedette le operazioni analoghe di Salerno e di Anzio, ebbero un ruolo di primo piano i capibastone delle cosche siciliane? Da decenni una versione del genere viene proposta e ribadita come verità di senso comune: libri, saggi, documentari, complesse inchieste giornalistiche hanno dato per scontato il coinvolgimento determinante di Cosa Nostra siciliana in questa vicenda operativa che consentì agli americani di metter piede in terra italiana, giungendo ad offrire suggestivi particolari, come addirittura quello degli uomini di rispetto che, muniti di bandierine multicolori, indicavano all’esercito alleato le aree strategiche nelle quali far sbarcare con relativa facilità le truppe alleate.
“Verità” come queste non sono messe in dubbio, ma risolutamente negate da uno dei maggiori studiosi della storia della Sicilia, Francesco Renda, intellettuale di estrazione marxista, autore di numerosi saggi sulle vicenda dell’isola. Per lui, dunque, non “verità”, ma vera e propria “favola”, che ha il sapore del mito, quella che è stata accreditata fino ai nostri giorni, e contro la quale inutilmente alcuni storici di livello hanno prodotto le loro documentate puntualizzazioni.

E’ d’obbligo, pertanto, un ulteriore tentativo di raddrizzare questa stortura, di ricacciare questa “banalità” circolata troppo a lungo tra le memorie degli italiani. Non soltanto: secondo lo studioso, che inserisce questa critica tra quella più generale riservata ai canoni di rigore storico necessari per la ricerca dei “fatti accertati” e, di conseguenza, del “buon giornalismo”, sarebbe falso anche l’accostamento (che è possibile ritrovare persino nelle carte della Commissione Antimafia) tra lo sbarco alleato e la ripresa mafiosa, come se non ci sarebbe stata la “folgorante” ripresa della mafia senza la troppo rapida occupazione militare alleata dell’isola. A leggende di questo genere, Renda oppone documenti ufficiali riportati in massima parte dagli archivi di Londra e di Washington, le carte del Foreign Office sulle attività delle truppe alleate in Sicilia, i lavori portati a termine da numerosissimi altri storici, e più di una riflessione contenuta in un suo volumetto dedicato al bandito Salvatore Giuliano e più in generale al banditismo siciliano. «Ma davvero – si chiede lo storico – alla caduta del fascismo in Italia concorse la mafia, considerato che lo sbarco in Sicilia ne fu l’elemento determinante? Non credo che si possa dar credito ad una così grossolana eresia».

Per Renda e per un nutrito gruppo di storici, i cui saggi tuttavia hanno avuto scarsi echi a livello divulgativo, gli Alleati non potevano non vincere, non fosse altro che a giudicare dalle forze in campo. E fra l’altro, la mafia, che era stata massacrata dal prefetto Mori e dal regime fascista, in quel frangente non era sicuramente all’apice della sua potenza. Il che porta lo storico a chiedersi e a chiedere: ma davvero è pensabile che un’armata così imponente, una spedizione così accuratamente predisposta e potentemente condotta si affidasse poi, come abbiamo ascoltato dal racconto di Michele Pantaleone, alle indicazioni e ai consigli e alle strategie paesane di portaordini (don Calogero Vizzini e Genco Russo, capimafia contemporanei) che si muovevano a dorso di mulo?

Il riferimento a Michele Pantaleone è necessario, dal momento che si deve a questo scrittore, siciliano di Villalba, la rivelazione sui presunti retroscena dello sbarco alleato, e del patto scellerato dei servizi segreti statunitensi con Cosa Nostra siciliana, in modo particolare con Lucky Luciano, allora boss dei boss di Cosa Nostra americana. Solo che negli archivi storici statunitensi non c’è traccia di collegamenti del genere, né mai Luciano, che in seguito sarebbe stato espulso dagli Stati Uniti come “persona non grata”, ne fece alcun cenno. Fra l’altro, avrebbe potuto utilizzare, ai fini di una sua permanenza negli Stati Uniti, trascorsi “patriottici” del genere, se in qualche modo avessero avuto un minimo di riscontro nella realtà.
Renda utilizza questi argomenti, che sorprenderanno non poco parecchi storici e mafiologi dei nostri giorni, ma anche del recente passato, per contestualizzare la storia di Salvatore Giuliano, inquadrandola in uno scenario nel quale – questa volta – non è tenero con le classi dirigenti siciliane e con lo Stato italiano.
Ma prima di addentrarsi nell’analisi – che consegna la strage di Portella della Ginestra alle responsabilità (se non giudiziarie, certamente storiche, politiche e morali) di un sodalizio di potere partitico-mafioso volto a sorreggere la vocazione decisamente anticomunista dei servizi segreti americani – Renda si preoccupa di sgomberare il campo da quella che, nel suo saggio, non esita a definire un’altra «analoga deformazione della verità».
Il riferimento polemico è riservato al «presunto appoggio alleato al separatismo siciliano». I fatti al riguardo, sostiene lo storico, «i fatti, e non le supposizioni o i sospetti, declinano tutti, nessuno escluso, in senso contrario». In altre parole, «gli Alleati neppure fecero finta di sostenere il separatismo». E ciò perché il loro scopo non era quello di separare la Sicilia dall’Italia, ma di indurre l’Italia a separarsi dall’alleanza con la Germania. E infatti, gli americani non accolsero la richiesta dei capi separatisti di nominare un governo siciliano provvisorio. Ribadisce lo storico: «La sola vera colpa degli Alleati (ammesso che si trattasse di una colpa, e non invece di un merito) fu quella di non aver voluto e di avere impedito che nei riguardi dei separatisti, da parte delle autorità italiane, si usasse la mano militare della repressione a norma del codice di guerra; e, a tal fine, in vista della restituzione dell’isola all’Italia e al suo governo, escogitarono, proposero, e in un certo senso imposero a Badoglio, che recalcitrava, l’istituto dell’Alto Commissario, garantendo alla Sicilia il ritorno alla madre patria italiana salvaguardia dello scudo autonomistico, concesso in anticipo sulla stesura della Costituzione.
L’Alto Commissariato per la Sicilia fu invenzione e merito degli Alleati – conferma il saggista – e fu grazie a quella invenzione che la Sicilia poté affrontare e vincere la crisi separatista. Parole, queste, che Renda ha supportato già con altri documenti, presenti nella sua Storia della Sicilia, ma che non mancheranno di agitare le certezze delle tante «verità di senso comune» che hanno costellato e sono tuttora presenti nella liturgia dell’antimafia.

Avevano proprio bisogno dei boss mafiosi, gli Alleati, per portare avanti la loro “campagna di Sicilia”, poi quella salernitana, che precedette lo sbarco ad Anzio? A dar loro una mano, è stato sostenuto, c’erano gli oriundi, dai quali trassero notizie, ebbero consigli, e grazie ai quali disposero di uno strumento di comunicazione (la lingua, e meglio ancora il dialetto locale) eccellente. Due secoli fa, i nostri connazionali avevano attraversato l’Atlantico in condizioni da esodo biblico. Arrivati all’ “isola maledetta”, Ellis Island, prima di poter toccare la “terra promessa” venivano ammassati in una grande sala per essere schedati e sottoposti ad un’imbarazzante visita medica: malati cronici, storpi e omosessuali venivano reimbarcati e rispediti ai paesi d’origine. Oggi, quell’edificio ospita il Museo dell’Emigrazione: alle pareti, decine di gigantografie ritraggono volti di contadini bruciati dal sole, lo sguardo smarrito. Fra il 1889 e il 1910, su due milioni e trecentomila emigrati negli Stati Uniti, poco meno di due milioni erano arrivati dalle regioni meridionali. Due milioni di morti di fame più morti di fame di tutti: braccianti generici, disoccupati cronici, vite espulse dal contesto produttivo del Paese, ai margini o fuori dai circuiti civili e sociali, prolifici analfabeti, materiali grezzi dissipati tradizionalmente dalle risacche della nostra storia. Da questi “cafoni” discendono oggi Premi Nobel, dirigenti di agenzie governative e di stazioni radiotelevisive, capi di fabbriche, direttori di riviste di prestigio, titolari di marchi di fashion, governatori, ministri e sindaci di città importanti, magnati della finanza, altissimi dirigenti di banca, esponenti del mondo accademico e dell’arte, imprenditori e proprietari di catene alimentari, cuochi e gourmet di fama, costruttori di grattacieli, con in primo piano numerose donne. Oggi, ovviamente. Perché sempre da costoro ieri discesero, per germinazione spontanea alimentata dalla violenza, figlia della necessità, e dalla lotta per la sopravvivenza, i Patriarca, i Gambino, i Genovese, i Lucchese, i Bonanno, e tutti i capi delle grandi e sanguinarie famiglie mafiose che lucravano sul proibizionismo, sui traffici illegali, sul pizzo, sul gioco d’azzardo, sullo sfruttamento della prostituzione...
Gli americani, dunque, disponevano già, in casa, di materiale brigantesco, e non sentivano certo il bisogno di entrare in contatto con quello, terragno, arretrato, sopravvissuto in Sicilia. Ed erano a conoscenza del tipo di rapporto che esisteva tra i boss italo-americani e la stragrande maggioranza dei meridionali immigrati, che si erano espressi per bocca di un poliziotto leggendario, Ralph Salerno, il quale, alle richieste di “solidarietà” da parte di un capobastone di New York, aveva risposto: «Io non sono della vostra razza e voi non siete della mia. La sola cosa che abbiamo in comune è che ambedue siamo di origine e civiltà italiana, e voi siete i traditori di questa eredità e di questa cultura delle quali io sono orgoglioso».
C’è infine da chiedersi come mai gli Alleati si sarebbero serviti di Cosa Nostra siciliana, e non anche della camorra, a proposito dello sbarco salernitano, sebbene negli Stati Uniti fossero presenti da diversi decenni “paranze” campane, vale a dire gruppi criminali organizzati provenienti dalle province campane, con contaminazioni calabresi e foggiane. Eppure, proprio a nord di quest’area gli americani avrebbero trovato la prima linea di difesa tedesca: infiltrazioni camorristiche avrebbero con tutta probabilità informato più dettagliatamente l’esercito dei liberatori, impedendo così i bombardamenti che avrebbero distrutto, fra l’altro, l’abbazia di Montecassino. L’avanzata da sud a nord fu piuttosto veloce. Alle spalle gli Alleati non si lasciarono nemici in divisa armati. Si lasciarono tanti, troppi detriti umani, che, come ci ha insegnato Eduardo De Filippo, la risacca della storia avrebbe riportato alla ribalta, a Napoli, in questo caso, ma anche a Palermo e a Reggio.

D’altronde, quella siciliana al tempo dello sbarco alleato era ancora una mafia residua, che incombeva quasi esclusivamente sulla campagna. Ruspante e disarticolata, provinciale, che si sarebbe potuto assorbire nei gangli della legalità, cancellandola definitivamente, se la classe dirigente post-bellica avesse opposto un baluardo etico rigoroso e imprescindibile al momento della ricostruzione. Così non fu. Una borghesia corrotta e rampante trasformò gli aiuti per la rinascita dell’isola e di altre aree del Mezzogiorno in strumenti per l’arricchimento veloce, facendo ricorso alla violenza per il predominio e al saccheggio per l’accaparramento dei fondi di ricostruzione. La mafia invase prepotentemente il campo dell’edilizia, mise le mani sulle città, rastrellò fondi e contributi, impose tangenti, distribuì lavoro nero e stragi mirate, decretò supremazie gerarchiche, strinse alleanze politiche e affaristiche, e dilagando ricrebbe consolidando i condizionamenti della società.
La morte della mafia terricola era stata decretata da una lapide nel cimitero di Villalba, nella quale era inciso: “Comm. Calogero Vizzini / precorse ed attuò la riforma agraria / sollevò le sorti di tutte le ingiustizie / fu difensore del diritto dei deboli / raggiungendo altezze mai toccate”. Questa sublime figura di difensore del diritto dei deboli fu imputata, in vita, quale mandante di omicidi e di un lungo rosario di reati, dalla rapina all’abigeato, dalla truffa aggravata all’estorsione, dalla corruzione di pubblici funzionari alla bancarotta fraudolenta. Ma fu considerato “uomo d’onore”, e un magistrato ne tessé l’elogio funebre in un commosso articolo.

Nell’immediato dopoguerra, parallela al ritorno in forze dei cartelli del crimine, cominciò a tramontare l’illusione dell’Italia come “alma parens frugum”. Disvelata dalla ripresa di una massiccia e drammatica emigrazione, la povertà agricola del Sud assurse a dato incontrastato di giudizio. Povertà naturale, aggravata persino dagli ordinamenti economici e sociali, quasi sempre inadeguati, a volte addirittura arcaici: dapprima latifondo e coltivazioni estensive in zone demograficamente intense; subito dopo, il fallimento della riforma agraria; prima e dopo, agricoltura di rapina, imprese contadine ancorate al principio della sussistenza domestica, degrado del paesaggio agrario, scarsa produttività. E quasi dappertutto miseria, bracciantato allo sbando, ignoranza tecnica, immaturità civile, rurali affamati di pane e agitati da un confuso desiderio di giustizia, e per di più taglieggiati dalle formazioni criminali. Sicché, ancora una volta, come scrisse Croce, il Sud si mostrava «nella storia, nelle cronache, nei documenti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e prepotenze baronali, povero, con agricoltura primitiva, con scarsissima ricchezza mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia, e, insomma, in condizioni tutt’altro che prospere, eque e benigne».
Le grandi terre della mafia tornarono ad essere quelle in cui, dal 1868, si erano verificati i più tremendi terremoti. Erano le zone della Sicilia occidentale che avevano itinerari precisi: Mazzarino, Agrigento, Raffadali, Mussomeli, Menfi, Corleone, Castelvetrano, Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Villalba, Termini Imerese, Montelepre, Misilmeri…La mafia dell’edilizia si innestò sulle radici di quella che era stata rurale, e seppe rifiorire, incontrastata. Ci sarebbero voluti almeno quattro decenni perché Cosa Nostra americana venisse cancellata. Non è stato sufficiente un tempo altrettanto lungo, anzi più lungo, per radere al suolo Cosa Nostra siciliana, insieme con le altre organizzazioni, comprese quelle germinate in altre regioni del Sud, le nuove mafie, più delle prime feroci, prive di pensiero che non sia quello della ricchezza illecita e della supremazia territoriale. Male endogeno, dunque. Non rigenerato dalle vicende dello sbarco alleato, né alimentato da collegamenti durante il secondo conflitto mondiale, come hanno sostenuto in tanti, sulla scorta degli scritti non documentati di Pantaleone e, in qualche misura, anche di Dolci. Quello sul ritorno della mafia e delle sue evoluzioni è lavoro di scandaglio che va fatto con altri strumenti di ricerca, rigorosamente scientifici, non semplicemente ideologici. Altrimenti la nostra storia resterà sempre impantanata in una fumosa e indistinta zona grigia, nella quale possono impunemente confluire realtà e mito, dati di fatto e strumentalizzazioni di parte.

   
   
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