Giugno 2004

Otranto 1480 nella cronaca di Ibn Kemal

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E le vele coprirono
la volta del cielo
Gino Pisanò  
 
 

 

Otranto è simbolo di tutti gli assedi, di tutti i medioevi, di tutte le età nelle quali il sonno della ragione, della
tolleranza, del
diritto dei popoli ha generato
e genera mostri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Desidero, in limine a questa commemorazione, rinverdire con animo commosso il ricordo struggente di miei Maestri e amici che non sono più fra noi, ma che hanno dato a questa città e alla sua storia un inenarrabile contributo di studi, di passione filologica, di amore. Essi sono: Oreste Macrì, “signore delle pinete idruntine” in quel di Calamuri, ispanista insigne e interprete del Novecento letterario europeo; Maria Corti, impareggiabile “sirena” di questa città, per averne “cantato” con cifra ammaliatrice l’anima tragica, sollevandola dai gorghi della storia nelle serenatrici e universali plaghe del mito; Aldo Vallone, insigne dantista e storico della letteratura che tracciò un esemplare profilo di Otranto nella tradizione letteraria; Donato Moro, il più grande e autorevole studioso degli eventi che dettero vita all’epos idruntino, filologo e poeta; Wanni Scheiwiller, editore di aristocratica misura, che elesse Otranto a categoria esistenziale, ed infine Carmelo Bene, il solo di questa pleiade che non ebbi la ventura di frequentare, ma che pure appartiene alla mia esperienza intellettuale. Dedico loro questo contributo che ho scritto per invito del Sindaco di Otranto, invito che mi lusinga e che mi onora e del quale ringrazio con profonda e sincera emozione.
Ebbene, fonderò la mia relazione su un testo redatto da un testimone oculare dell’eccidio, un testo ancora malnoto e mai collazionato con la tradizione storiografica delle fonti in nostro possesso alle quali, invece, ampiamente hanno attinto gli storici della guerra idruntina.

Si tratta della Cronaca del turco Ibn Kemal, (nato a Edirne e morto a Istanbul nel 1534), intrinseca alle Storie della Casa di Osman, vergate su commissione del sultano Bayezid II. Questa fonte ottomana è stata tradotta, pochi anni or sono, da Asim Tanis per sollecitazione di Maria Corti e dalla stessa Corti pubblicata nel 1990 presso Scheiwiller a Milano in un volumetto, oggi ormai irreperibile dato l’esiguo numero di copie, dal titolo Otranto allo specchio. Diffuso fra pochissimi amici e altrettanto pochi, fortunati lettori, il documento non è stato mai utilizzato, per quanto mi risulti, come termine di confronto, come controprova in ordine alla morte degli ottocento otrantini e alla natura del loro martirio, voglio dire a supporto o a decremento della tesi inerente a quella santità che noi oggi celebriamo.
Entrando in medias res, osserviamone alcuni passaggi. Il primo capitolo si apre con questa epigrafe:

Qui si parla dell’andata del famoso comandante Ghedik Ahmed Pascià in Puglia a capo della flotta e della conquista, nel luogo suddetto, della famosa fortezza chiamata Otranto.

Il cronista ottomano, il quale, verosimilmente, era imbarcato come “reporter” sulla turca nave ammiraglia perché registrasse diaristicamente le imprese del condottiero e ne esaltasse il valore, in ossequio a finalità encomiastiche, dopo aver enunciato in premessa le ragioni dell’impresa espresse dall’imperatore Maometto II ad Ahmed Pascià (ossia, annettere all’Islam la Puglia «scacciandone gli infedeli») così si esprime sui luoghi che furono teatro della battaglia:

la Puglia è un paese […] bagnato dal mare; è nota […] per la sua estensione e per il maggior numero di soldati infedeli. Poiché il Mediterraneo costituisce la maggior parte delle sue frontiere, i nemici [ossia i pugliesi] sono riusciti a darle buon sviluppo e perciò questa regione è prospera ed i suoi prodotti sono abbondanti.

Da questo passo si intuisce una buona conoscenza, in Kemal, delle peculiarità geoantropiche della Puglia medievale: 1° l’economia del mare; 2° la tradizione marinara di alcune sue città strategiche (Bari, Taranto, Brindisi, Otranto, Gallipoli, Trani): 3° i commerci e la conseguente ricchezza da cui derivava il “buon sviluppo” della regione.
Osservazioni oggettivamente fondate e poi fuse con una enfatica terzina di versi che così suona nella traduzione fattane da Asim Tanis: «La sua campagna pare in primavera / un giardino dell’Eden, / dal mare la sua riva è un tesoro che scorre». Sequenza, questa, da cui trasuda il carattere iperbolico e mitizzante del racconto, che, inarcandosi in poesia, tende a ingigantire agli occhi dei destinatari la realtà, fino a farne un miraggio, e con essa il successo dell’armata ottomana nonché del suo comandante.
Medesima tecnica nella descrizione della flotta:

Navi grandissime che a vederle sembravano grandi un mondo, tirate le ancore […], si diressero verso la Puglia; avanzarono con le vele che, come bandiere rischiaratrici delle tenebre, impedendo la penetrazione dei raggi […] del sole, coprirono la volta del cielo; con le navi sterminate, coperte di pece, il mare Mediterraneo prese l’aspetto di una pianura marina; con le punte delle lance verdeggianti e le bandiere, il mare assomigliò a una terraferma. […] I remi coprirono da ambedue i lati la superficie del mare, quella flotta assomigliava a migliaia di giganti; il mare infuriato […] aveva l’apparenza di un cammello ubriaco dalla bocca spumeggiante. Con la pura brezza mattutina, divenuta la messaggera della vittoria, navigarono per un po’ di tempo. Giunti in Puglia vi entrarono e saccheggiarono i paesi incontrati.

Si noti il tono fiabesco, analogico (bandiere-tenebre; Mediterraneo-pianura; flotta-giganti; mare-cammello ubriaco), direi da… Mille e una notte, che connota la diegesi, trapunta di insistenti similitudini tese ad affabulare il messaggio, trasferito dal livello descrittivo a quello epico, mediante il ricorso a istituti retorici impiantati nel campo della metafora, donde le accensioni fantastiche che slargano gli orizzonti reali ingenerando stupore e meraviglia, secondo una tecnica consueta ai racconti orientali, ipertrofici di immagini naturalistiche e di iperboli. Qui, ad esempio, le bandiere coprirono la volta del cielo.
Kemal si rivela buon letterato ed esperto tecnico dell’affabulazione. Proseguiamo:

[Dalla Puglia], in cui ogni angolo è pieno d’oro e d’argento […] trassero tanti schiavi e schiave i quali […] avevano visi più puliti delle acque e occhi fonte di bellezza, e di cui era impossibile stimare il valore. Se di tutto questo ottenuto si togliesse un quarantesimo, diventerebbe un tesoro per i mendicanti di tutto il mondo. Ne presero tanto che ad esprimere e a scrivere non resisterebbero la lingua e le dita. Nel luogo soprannominato c’erano molte opere rare, paesi, città grandi ed ognuno aveva nei suoi dintorni una campagna prospera e una infinità di villaggi.

Anche qui due piani narrativi: quello enfatico-immaginifico (oro ed argento; visi più puliti delle acque,ecc.) e quello corografico-oggettivo (paesi, città grandi, infinità di villaggi). Ma, dopo il preambolo iniziale, che a mo’ di cornice inquadra fiabescamente i prossimi eventi, ecco irrompere sulla scena, acconciata come una “prima donna”, la preda da conquistare: Otranto. Sentiamo: chiusa tra le sue mura

c’era una città che in confronto alle altre era come la luna piena tra le stelle; aveva una campagna verdissima […] piena di gente e, di fronte alle […] altre città, sembrava la notte della nascita di Maometto tra le altre notti. Il suo nome è Otranto, biasimare non si potrebbe chi l’abita; se vuoi trascorrere una vita serena, vai ad abitare colà. Ahmed Pascià […] raggiunse quella fortezza dalle mura solide; truppe numerosissime quanto le stelle si gettarono, come fanno le cicale sui campi di grano, sulla campagna nei dintorni della città, dintorni che parevano un giardino di alberi pieni di frutta e di foglie.

Isoliamo alcune sequenze: come la luna piena tra le stelle; sembrava la notte della nascita di Maometto; truppe […] quanto le stelle similate alle cicale sui campi di grano; giardino d’alberi. Tutte afferiscono al campo semantico della meraviglia, destinato ad accendere fantasie di lettori lontani ed ignari dei luoghi, ancora medievali e, perciò, primitivi, assorti e confusi da similitudini e metafore desunte dall’ambito naturalistico-sacrale, predisposti a mitizzare l’impresa del Pascià, come era nelle intenzioni dell’autore e del committente. La narrazione, nel suo sviluppo, si fa sempre più folta di termini di confronto desunti dal paesaggio esotico (deserto, leoni, tigri, cammelli, fiori, frutti) o dallo spazio cosmico (notturni stellati, chiarori lunari, aurore rugiadose) o dalla memoria coranica. Fra i passaggi più suggestivi: «Nemmeno nelle notti, il chiaro di luna, dando colore alla frutta non ancora matura sugli alberi, poteva farne l’aspetto lucente e neppure l’alba poteva pulire il viso [metafora della rugiada] ai fiori freschi».

La prima conclusione, sul piano storico, riguarda, invece, la smentita di una nostra fonte, la Cronaca di Giammichele Lagetto, in ordine alla casualità dell’assedio. Non Brindisi, ma Otranto era la meta. Non entrerò nella vexata quaestio del testo lagettiano e di altri cui brevemente qui ricorreremo, circa cronologie o dinamiche testuali, questione annosa, vetusta, intricata, ma dipanata con grande acume filologico da Donato Moro, alla quale oggi aggiunge ricchezza il rinvenimento di un ulteriore apografo settecentesco (1722) da parte di Daniele Palma, da lui accuratamente edito nel “Bollettino storico di Terra d’Otranto” (12-2002) diretto da Giancarlo Vallone. A questa edizione farò riferimento nella collazione con la fonte ottomana. Dunque il nostro Lagetto:

Il disegno [dei turchi] era di far l’impresa, venire in Brindisi per la comodità di [quel] posto […]. Partitasi l’armata dalla Vallona […] con tempo piacevole, in mezzo al golfo rinforzò […] la tramontana [sicché il Pascià] non possette andare al porto di Brindisi, ma li fu forza venire […] più sotto; di più, le fuste [navi più leggere e veloci] che andavano avanti […], trovorno un vascello che era partito da Otranto per Durazzo e per la contrarietà del vento non poteva andare avanti. Fu portato il padrone del vascello avanti il Bassà e li riferì che veniva da Otranto e che non vi era più presidio che di cinquanta lanze […] per il che fece disegno il Bassà di venire in Otranto.

Casualità, destino, cattiva sorte, secondo il Lagetto. Ma il particolare della tramontana improvvisa, emerso probabilmente dalla tradizione popolare orale, non solo è assente nelle più antiche fonti otrantine coeve dei fatti (la Relazione d’Acello e il Rifacimento otrantino), donde il giustificato dubbio, in merito, espresso da Donato Moro nei suoi studi conclusivi, ma è anche taciuto da Ibn Kemal sull’altro versante dell’informazione, dal quale sarebbe certamente emerso, per evidenziare ancor più le difficoltà dell’impresa che Ahmed Pascià stava per affrontare.
Il cronista turco ricorda semplicemente una «pura brezza mattutina» che sembra addolcire il mare, non turbarlo! Brezza di sicuro favorevole, se appare a Kemal come messaggera di vittoria.
Per il resto, sostanziali convergenze, fino alla conferma (come vedremo) della santità della morte affrontata dagli Ottocento.
Vediamo, ora, la descrizione dei luoghi nel Lagetto:

Il suo [scil. di Otranto] territorio è molto abbondante per l’animali, buono all’arbori che sono fruttiferi, ma per l’agricoltura non è troppo fertile. Fa poco grano, poche biade, poco vino e poco oglio e non fa il basto al suo vivere.

Controluce, in questo gioco di specchi contrapposti, in questo contrappunto a due voci, emergono concordanze e discordanze. In Kemal, il territorio pugliese e otrantino viene paragonato alla valle dell’Eden; nel nostro Lagetto, la campagna di Otranto è poco feconda, ad eccezione dei frutteti. Concordi entrambi sul circondario della città. Ecco il Lagetto:

[Otranto] tiene, però, d’intorno ville e casali e terre vicine che la tengono grassa ed abbondante […] e dal mare […] li vengono continuamente molti sussidi, essendo l’abitatori di detta città industriosi <nell’> arte marittima.

Emergono subito i caratteri delle due scritture (simmetriche epperò antitetiche): descrittiva, apologetica, “scientifica” quella del Lagetto, fabulosa, epico-lirica, manichea, chimerica (e perciò poetica per la gran copia di tropi metaforici e analogici) quella di Kemal. Discordi o, per lo meno, non convergenti, i due testi, sulle cause dell’attacco ottomano. Kemal sacralizza come guerra santa l’assedio, visto come il primo passo verso l’islamizzazione dell’Occidente che, detto a posteriori, culminerà con l’ambizioso progetto ottomano, per nostra fortuna fallito, a Lepanto. Ma egli non poteva saperne di più, destinato com’era a fare l’agiografo cronista dei fioretti di Ahmed Pascià e, soprattutto, perché all’oscuro dei veleni (ben noti, invece, al Lagetto come anche al Galateo, la fonte più antica) che patrio furore attoscavano l’Italia del Quattrocento, nonché dei segreti della nostra politica gestita da principati o repubbliche liberi, ma divisi: Milano contro Venezia, Venezia contro Ferrara, Roma contro Firenze, Firenze e Venezia segretamente alleate con il turco Maometto II contro Ferdinando d’Aragona, re di Napoli e, pertanto, di Otranto.
Il Lagetto, come è noto agli studiosi, ne era invece informato e la sua testimonianza deriva dal Galateo, testimone oculare, grande umanista alla corte di Napoli, medico alla casa reale, perciò ben informato dei fatti. Si veda, in quest’ordine di cose, il suo Epigramma in sanctos martyres, vv. 1-2, dove il patrio furore, che fomenta l’odio turco, chiaramente allude alla italica connivenza (fiorentino-veneziana) con l’aggressore ottomano.
Infatti, dopo che Ferdinando d’Aragona respinse l’attacco portato da Giovanni d’Angiò al suo regno per pretese di carattere legittimistico, prima del 1480, egli stesso incominciò, scrive il Lagetto,

ad inquirere contro li baroni ribelli, molti ne castigò e fece morire […], e certificato che i Fiorentini gli erano stati molto contrari […] e che pagavano centottantamila ducati […] in aiuto di quelli suoi nemici [ossia finanziavano i feudatari che fiancheggiavano Giovanni d’Angiò per interessi bancari e commerciali] deliberò [di] mover guerra contro detti Fiorentini e coronare don Alfonso suo […] primogenito […] re di Toscana, e così mettendo in ordine un buon esercito di cavalli e fanti […] incominciò a travagliare molto i Fiorentini, [e] a farli […] danni.

Pertanto, i fiorentini inviarono ambasciatori a Venezia, che già maltollerava l’espansionismo aragonese verso la Toscana e verso Cipro, per chiedere aiuto. I veneziani, da bravi mercanti, decisero di non esporsi direttamente in conflitto, sicché

in Senato […] si venne a questa sceleste e profana conclusione […]: invocare il turco come Signore potente e desideroso d’acquistar regni e metterli in animo di far impresa nel regno [di Napoli]. […] Si mandarono subito ambasciatori in Costantinopoli.

Ed ecco allacciarsi, al Lagetto, Ibn Kemal, al quale viene solo riferita la causa apparente, cioè che «il gran Signore [ Maometto II] ordinò [al Pascià] di andare a conquistare il territorio di Puglia, scacciandone gli infedeli».
Se si osservano la storia passata e quella recente, mutando ciò che deve essere mutato, si scorgerà che niente di nuovo è sotto il sole. Dietro la causa apparente di un conflitto vi è sempre una causa occulta e remota. Lo asseriva già Tucidide nel V secolo a.C. L’eccidio di Otranto, dunque, si abbatté da lontano sulla testa di quegli umili pescatori e borghesi (come il capitano Zurlo o Ladislao de Marco) i quali, all’alba del 28 luglio 1480, non potevano preconizzare quanto poi sarebbe accaduto.

Umili, piccoli o grandi popoli, vittime della politica (in senso deteriore) e degli intrighi dei potenti. Questa la prima lezione che ricaviamo dall’esemplarità della vicenda otrantina. Penso alla seconda guerra mondiale, a quanti nel 1939 non potevano immaginare quel che sarebbe accaduto (non per loro volontà) da lì a poco, penso alle inermi vittime dell’11 settembre, agli umili morti nelle guerre del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Irak. Tutti ignari della loro sorte, ma vittime della logica ineluttabile di una storia feroce, come ignari furono gli otrantini fino al 28 di luglio 1480, sicché, sul piano civile, l’improvviso attacco turco che cambia la vita di Otranto è emblema di ogni guerra covata nel segreto delle corti o nelle stanze del potere dai signori della violenza i quali decidono, cinici e impietosi, il destino dei popoli. Nessuna vera democrazia potrà mai giustificare la guerra né farne strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Donde il dettato della nostra Costituzione, perfetta in ogni sua parte valoriale, perché equilibrata risultante di tre componenti: l’anima liberale, l’anima socialista, l’anima cattolica, soprattutto, che ha ancorato alla morale evangelica il sistema dei valori sui quali essa Costituzione si fonda.
Ma torniamo alle nostre fonti. Ibn Kemal ci informa che il numero delle navi e dei soldati era grandissimo. Facciamo la controprova. Troveremo piena conferma nella fonte italiana più antica: la Relazione d’Acello, scritta come nota informativa da un funzionario della Cancelleria del re Ferdinando per incarico del principe Alfonso, suo figlio, prima che questi lasciasse la città, liberata nel settembre 1481, acciocché si documentasse «tutto il progresso della perdita di Otranto e [sua] ricuperazione»:

[…] Alli 28 del mese di luglio, di venerdì mattina, Ahmed Pascià se rapresentò in Otranto con galere ventiquattro, galeotte e fuste 78 e pantanaree 30 [132 navi] con li quali portò 400 cavalli e 16.000 fanti, nove grosse bombarde, cerbottane ed altre sorte diverse d’artigliaria […] al numero di 400; e discesi li cavalli in terra, subito discorsero per la provincia e […] fero grandissima preda, saccheggiando e abbrugiando molti casali ed amazzando molta gente.

Ulteriore conferma nel Lagetto che attinge alla citata Relazione o al suo Rifacimento aumentando, se pur di poco, i numeri relativi agli uomini, alle navi, alle armi, ma tracciando anche l’identikit del Pascià,

il cui nome era Acomath, huomo di natione servo [di nascita servile], piccolo di statura, di color bruno, nasuto, con poca barba […], brutto di volto, di animo crudelissimo e molto avaro, povero e vile.

Analfabeta, forse, aggiungiamo noi, ma lungimirante al punto da munirsi di un cronista come Kemal, ottima penna, diremmo oggi, affinché celebrasse i suoi trionfi e li rendesse oggettivi, ossia non sospetti di autocelebrazione, come sarebbero stati se egli stesso ne avesse vergato la cronaca.
Sia la Relazione d’Acello, sia Ibn Kemal, sia il Lagetto ci confermano di scorrerie turche nei dintorni della città, prima della sua espugnazione. Sorvolo sull’argomento, non senza aver prima ribadito la sostanziale e univoca fedeltà delle fonti agli avvenimenti narrati. Pertanto, Kemal rafforza l’autenticità del dettato dei suoi omologhi otrantini, pur riservando agli eventi quell’alone iperbolico più volte cennato. Ed è proprio questo carattere della sua narrazione che ci conferma la santità del martirio, ammesso che se ne possa dubitare. Ebbene, tutte le fonti italiane, quelle citate ed altre ancora seriori, come l’Informo del 1539 per la causa di beatificazione degli Ottocento, o coeve come la testimonianza di Antonio de Ferrariis Galateo ci confermano che gli Ottocento morirono per non rinnegare la fede in Cristo e nella sua Chiesa. Nonostante tale convergenza, l’avvocato del diavolo potrebbe avanzare qualche sospetto circa la veridicità della causa. Ma sostegno ulteriore a tale veridicità ecco emergere dalla fonte nemica. Ascoltiamo Kemal: dopo le scorrerie nei dintorni di Otranto, precisamente nella marina di Roca («saccheggiarono i paesi incontrati»), i turchi attaccano Otranto, essendo risultate vane le loro ambasciate volte a intimare la resa pacifica e il rinnegamento della fede cristiana. Fu allora che

gli infedeli pessimi, fuggiti, entrarono nel castello e chiudendo la porta del castello aprirono il portone della guerra. […] I cannoni […] respiravano come bocche di giganti […] [e] quando alcuni […] fra i soldati infedeli come diavoli volevano farsi vedere, palle di pietra portavano via le loro teste e i loro corpi rimanevano attaccati accanto alle mura […]. La pianura accanto alla città si era trasformata in un mare di ondate di ferro; con il luccicare dei terrapieni e con lo splendore dei caschi di acciaio si erano congelati nel cielo la luna e il sole. Ahmed Pascià […] ordinò agli eroi di andare contro il nemico […]; gli eroi si infuriarono come il Nilo […] e attaccarono con le spade sguainate che ardevano come fiamme spegnendo con le spade il fuoco dei corpi vili di quegli infedeli […] cani da inferno, e atterrarono quegli orgogliosi con la punta delle lance […]. Quei perfidi […] quei vili [gli otrantini] si spensero come arbusti presi dal fuoco […]. Dei cadaveri dei soldati di ponente [ossia occidentali, quindi gli otrantini] era pieno il campo di battaglia […]. Sconfitto il nemico perfido, i vincitori, soldati combattenti per la vittoria dell’Islam, […] dei prigionieri vendettero alcuni e alcuni li uccisero.

Ed ecco, in Kemal, la cronaca del martirio e il riconoscimento, per converso, della sua santità, riconoscimento non di parte, perché il cronista ottomano avrebbe, invece, volentieri registrato in lode del Pascià e di Maometto II l’auspicata, da parte sua, conversione degli Ottocento alla religione dell’Islam:

I soldati dell’Islam, combattuto per un po’ di giorni con quelli di fede errata [l’eccidio come è noto avvenne fra il 12 e il 14 agosto 1480], avendo trasformato in un cimitero la città agli occhi degli infedeli perfidi, con la forza presero la fortezza; [ciò avvenne l’11 agosto] nell’interno, spazzarono via tutto e ottennero migliaia di prigionieri, donne, bambini, vecchi, giovani […]. Poiché quei miserabili dal carattere di scorpione [sono gli ottocento Martiri] non erano disposti a convertirsi alla vera religione, presero di mira con le frecce i loro petti pieni di rancore. Mandando al fuoco dell’inferno, con la spada, gli infedeli di quel luogo.

Dunque, Ibn Kemal conferma, da un punto di vista opposto, quanto tramandato dalle nostre fonti. Gli Ottocento morirono per fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, non per omesso riscatto. Altri, più uomini che santi, si riscattarono ed ebbero il diritto di farlo. Ma l’esecuzione di massa (non la schiavitù), la fossa comune, il martirio furono riservati solo a quei forti e il loro sacrificio viene ascritto come unica macchia della vittoria, ad onta di Maometto e del Pascià, dalla fonte musulmana che volentieri, ripeto, ne avrebbe fatto a meno, considerando il carattere encomiastico della sua scrittura.

In conclusione, quale il significato, quale il valore civile, quale il messaggio attuale che ci giunge da quel tragico evento? Ogni tempo ha dato una sua lettura dell’eccidio di Otranto, più o meno medesima nella sostanza mitico-epico-religiosa, ancorché diversa nella forma e nei toni. Ed io, per attualizzare la cifra morale e civile sottesa a quei lontani fatti d’arme, ricorrerò alla testimonianza di un fiorentino, Vespasiano da Bisticci, il quale, nel 1481, aveva appreso a Firenze dal predicatore leccese fra’ Roberto Caracciolo, testimone oculare di quelle atrocità, i retroscena, i livori, le trame politiche dalle quali ebbe origine il martirio di Otranto che fece inorridire, appena avvenuto, l’Europa cristiana. Ebbene, quel martirio fu assunto da Vespasiano a campione delle discordie civili, degli odi fraterni, delle risse funeste che sconvolsero l’Italia del Quattrocento. Egli, in una sua opera dal titolo Lamento d’Italia per la presa di Otranto (1481) così si doleva, mostrando di possedere una forte e nobile coscienza unitaria della geografia politica italiana, precorrendo il Machiavelli e il Guicciardini:

Chi darà a’ miei ochi una fontana di lacrime a ciò ch’io piango il dì et la notte le ferite del mio popolo? […] O misera Italia, o pigri occhi, non è più tempo d’aspettare! O Veneziani, temete la vendetta di Dio che verrà sopra di voi come increduli e disprezzatori […]. Ora, o miseri Cristiani, o miseri Italiani, che aspettate voi più, si none la finale rovina d’Italia? O Italia iscelleratissima, piena di tutte le […] iniquità!

Vespasiano risale da Otranto all’Italia. Otranto si fa tragedia esemplare della faziosa rissosità politica che per un popolo è causa di tutti i suoi mali. E l’Italia, da lì a poco, libera ancora, ma divisa, fu facile preda dello straniero. La guerra fra Francia e Spagna sul nostro suolo si concluse nel 1504 con la conquista spagnola del Regno di Napoli. Da allora, fino al 1861, la nostra storia fu storia di un popolo vinto. Non diversa da quella di Vespasiano fu la valutazione di quelle quattrocentesche discordie offerta da Machiavelli e da Manzoni nel celebre coro del Carmagnola.
E ricordando Virgilio possiamo dire oggi, proprio oggi, forsan et haec olim meminisse iuvabit, ossia riflettere ancora sugli eventi di Otranto 1480 può forse giovarci per esorcizzare lo spettro di divisioni profonde, di rancori sociali, di faziosità nemiche della concordia, della solidarietà, della fratellanza degli italiani. Il dibattito democratico, la dialettica fra le parti propri di una democrazia non possono mai superare il livello di guardia, la misura, il giusto mezzo. Il nemico, il turco, fuor di metafora il male, è dentro di noi, come erano dentro il nostro popolo quelle scimitarre apparentemente venute da lontano.
Altre scimitarre, meno visibili, più subdole e sottili, sono oggi in agguato se non sapremo trarre insegnamento tutti, dico tutti, dalla lezione della storia. Che è maestra severa con i suoi cattivi discepoli e potrebbe impartire loro severe ripetizioni! Ma l’esemplarità di Otranto va oltre i nostri confini. Otranto è la prima Stalingrado o la prima Sarajevo dell’Età moderna e contemporanea. Assumiamola a simbolo di tutti gli assedi, di tutti i medioevi, insomma di tutte le età nelle quali il sonno della ragione, della tolleranza, del diritto dei popoli ha generato e genera mostri.
Otranto sia l’emblema della resistenza contro la forza oppressiva di ogni cinico intrigo di poteri, di ogni volontà di potenza, di ogni logica liberticida che ha schiacciato, ieri come oggi, in alcune parti del mondo, piccoli e grandi popoli, etnie e nazioni, che conculca i diritti civili, che nega, come affermò F. D. Roosvelt, motivando l’entrata in guerra del suo Paese contro il nazismo, che nega, dicevo, la libertà dal bisogno, la libertà di parola, la libertà dalla paura, la libertà, per ciascun popolo, di onorare Dio secondo la sua fede, che nega tolleranza e pluralismo, che nega il dialogo, il dubbio, il confronto, che ignora il vangelo cristiano e illuministico della concordia universale, della leopardiana “social catena” di tutti gli uomini, insomma della libertà e della pace.
In questo senso, Otranto 1480 da luogo reale diventi luogo mentale, metafora e simbolo del nostro dover essere cittadini d’Italia, d’Europa, del mondo.

   
   
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