Settembre 2005

L’utilitarismo fonte di totalitarismo

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Politiche della felicità
Fritz Fliszar Docente di Storia dell’Economia Università di Berlino
 
 

 

 

 

 

La ricerca
della felicità può
risolversi solo
in un’ideologia
totalitaria se le componenti
egoistiche vengono mascherate
o trasfigurate.

 

Fin dai giorni di Aristotele, la felicità è stata lo scopo ultimo di ogni teoria politica. La filosofia aristotelica – specialmente nella forma cristiana ad essa data dallo scolasticismo di Tommaso d’Aquino – era prudente abbastanza da dichiarare che l’ultima et perfecta beatitudo poteva essere raggiunta solo nel regno dei cieli. Nel nostro mondo terreno, si riteneva realizzabile poco più che l’instaurazione di un insieme ragionevole di leggi, una cornice al cui interno gli uomini potessero trovare la propria felicità come esseri sociali.
Era questa, nonostante le sue grandi ambizioni teologiche, una filosofia umile, nel senso di consapevole dell’esistenza di limiti. La dottrina della beatitudine ultima fu secolarizzata (e banalizzata) dalla scuola moderna dell’utilitarismo, la cui nascita coincide con l’affermazione di Jeremy Bentham, secondo il quale tutti gli uomini sono «soggetti […] al dominio di due padroni e signori, la pena e il piacere» e vorrebbero sfuggire alla prima. Il principio della “massima felicità per il maggior numero” divenne l’inevitabile pietra di paragone con cui la filosofia politica saggiava la politica stessa.
Nonostante la banalità dei suoi assiomi fondamentali (chi non vuole che la gente sia felice?), l’utilitarismo non era una filosofia umile: non poteva cioè accontentarsi di lasciar le persone libere di realizzare le proprie idee di felicità all’interno di una cornice aperta di regole astratte. Queste potevano solo consentire la felicità, non certo garantirla: gli assiomi benthamiani, pertanto, resero moralmente imperativo un intervento che andasse al di là delle regole medesime. In pochi anni, la storia mostrò come gli utilitaristi radicali dei primi dell’Ottocento – pur sostenendo tesi del tutto liberali in materia di commerci – si volgessero allo statalismo in quasi ogni altra sfera della politica. Nella seconda metà del secolo, di fatto, abbandonarono anche il loro iniziale liberismo in economia. Gli scritti più tardi di John Stuart Mill sono molto istruttivi sul punto.

L’idea che la felicità personale sia realizzabile con l’applicazione di leggi è apertamente totalitaria. In quanto tale, non troverebbe probabilmente molti sostenitori come fondamento ultimo e integrale di un sistema completo di governo. È per questo che sono state usate con notevole successo altre giustificazioni di base per il totalitarismo. Si possono ricordare, a tale proposito, il socialismo e il nazionalismo. Al giorno d’oggi sembrerebbe che sia l’ambientalismo ad esser diventato di moda fra gli intellettuali più inclini al totalitarismo. Ci toccherà forse, nei prossimi decenni, di assistere alla nascita di un’eco-dittatura.
E tuttavia nella sostanza il successo di queste e simili ideologie si spiega in larga misura con le attese irrazionali di una superiore felicità, che si sarebbe in qualche modo potuto imporre, una volta e per sempre. Chiaramente, è così che stanno le cose per quanto riguarda il socialismo; ma anche il nazionalismo ha la propria contorta logica utilitarista, poiché dulce et decorum est pro patria mori, come dicevano gli antichi, riecheggiando Orazio.
La ricerca della felicità, a quanto sembra, può risolversi solo in un’ideologia totalitaria se le (inevitabili) componenti egoistiche vengono comunque mascherate o trasfigurate. Tale mascheramento parrebbe richiedere che si operi una qualche distinzione fra piaceri “nobili” e piaceri “bassi”; e questo, benché l’idea, lo si deve riconoscere, fosse stata respinta dai primi utilitaristi.
Il vero pericolo, dunque, non è il totalitarismo esplicito del passato. È piuttosto il totalitarismo strisciante, quel totalitarismo “pragmatico” a cui l’utilitarismo offre le migliori basi ideologiche. E le offre perché l’idea utilitarista dell’incrementare il piacere personale è per un verso molto ampia, e si presta agevolmente ad essere materializzata sotto specie razionale; per altro verso, invece, non contiene alcuna chiara proposta in merito all’ordine politico che si presume capace di garantire la massima felicità.
È stato questo il problema fin dall’inizio, quando l’utilitarismo era per così dire ancora in culla. L’atteggiamento utilitarista verso il valore della libertà offre un buon esempio al riguardo. Negando la validità della tesi di Locke, formulata in termini di diritti di libertà, per la quale la libertà stessa è un diritto fondamentale di cui ciascun individuo gode come parte del diritto alla proprietà di se stesso, nel 1789 Bentham scrive che la libertà può esistere solo come particolare «privilegio, immunità o esenzione». E coerentemente continua: «In corrispondenza dunque al numero infinito di tali libertà, vi è il numero infinito delle variazioni ammesse […] dalle condizioni del dominio. Tali variazioni, è evidente, possono in Paesi differenti essere infinitamente diverse».
Nessuno potrebbe affermare che quanto sopra citato consenta la formulazione di un ideale coerente circa i limiti etici di un qualunque regime politico. È arduo anzi sostenere che, in questi termini, vi sia qualcosa che ai politici non sarebbe consentito di fare. Quasi tutti i problemi dei nostri attuali governi democratici possono essere fatti risalire a queste asserzioni.
In primo luogo, in tutti i governi moderni coesistono elementi liberali ed elementi illiberali, selezionati in maniera arbitraria. Ovviamente, e nonostante tutte le dichiarazioni costituzionali sul punto, da nessuna parte la libertà è vista come inalienabile diritto di nascita della nostra specie. Può essere concessa qui e sottratta là. In certi casi, è consentito perseguire la propria idea di felicità (benché per chi ricerca il proprio piacere risulti quasi impossibile scoprire un “terreno di caccia” che non sia iperregolato); ma in aree sempre più numerose lo Stato si impegna a fondo nel tentativo di dettare ai singoli quali siano i loro “interessi obiettivi” in quella direzione.
In secondo luogo, la tendenza alla crescita del settore pubblico diventa inevitabile e irrefrenabile. Per l’utilitarismo di Bentham non esiste alcunché di simile alla felicità collettiva. «L’interesse della comunità allora è – che cosa? – la somma degli interessi dei diversi membri che la compongono. È vano parlare dell’interesse della comunità senza aver compreso che cos’è l’interesse dell’individuo». Per una volta, l’utilitarismo mostra il profilo marcatamente liberal-individualista del suo credo.
Poiché tale profilo, tuttavia, non è intrinsecamente connesso con un ordine politico liberale, fondato sui limiti naturali del potere, le conseguenze di questo (altrimenti benvenuto) individualismo sono sostanzialmente fatali. Quando i governi agiscono in nome della felicità della gente possono servire solo gli interessi parziali di individui o di gruppi definiti. Se la massimizzazione della felicità diviene un imperativo morale e politico, il governo sfugge inevitabilmente a qualunque controllo. L’economia politica moderna lo ha confermato.
Gli economisti della scelta pubblica, come il Premio Nobel James Buchanan, hanno analizzato con strumenti economici i processi e le istituzioni politiche. E, così facendo, hanno infranto il mito che uno Stato democratico moderno serva l’idea del bene comune: in pratica, queste teorie sostengono che l’ambizione egoista alla rielezione nutrita dai parlamentari è di per sé sufficiente a mettere lo Stato alla mercé dei gruppi di interesse alla ricerca di rendite. Se si vuole una spiegazione del perché i deficit pubblici, semplicemente, non vengano ridotti, perché la tassazione sia un onere sempre più gravoso, perché anche le più assurde regolamentazioni in favore di certi gruppi e i più superflui sussidi non possono essere toccati – ebbene, questa è la risposta.
La scuola economica della scelta pubblica ha suggerito l’adozione di nuove e più rigide regole costituzionali, tali da impedire ai governi di espandere la propria sfera di attività e di promuovere interessi particolari. L’idea parrebbe eccellente, benché poi possano sorgere immensi problemi pratici nel passaggio alla realizzazione. A chi toccherebbe instaurare le nuove regole, se non a quegli stessi politici inevitabilmente fuorviati dalle regole vecchie? La creazione di nuovi, funzionanti assetti costituzionali ha avuto il massimo successo là dove è avvenuta a seguito di una vera e propria rivoluzione, oppure, come nella Germania del secondo dopoguerra, dopo il totale collasso dell’ordine politico precedente. Non mi sentirei di raccomandare né l’una né l’altra soluzione.
Resta vero, però, che gli argomenti di molti economisti politici contemporanei puntano nella direzione giusta: puntano, cioè, a qualcosa di diverso dalle – incomplete – teorie dello stato finale che per così lungo tempo hanno costituito le basi della politica, ed escludono che l’utilitarismo debba indurci a tentare di rendere le persone più felici per via di legge.

 

   
   
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