Settembre 2005

AA.VV.

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Jesus Christ
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Aldo Bello - Ada Provenzano
Alessia D’Amico - Tonino Caputo
Massimo Morri
 
 

 

 

 

 

 

 

Si chiama – secondo alcuni impropriamente – Costituzione europea. E in realtà è un testo lungo, complesso, spesso compromissorio, a volte anche ambiguo, sempre teso tuttavia a garantire una supremazia etico-politica francese nella cornice dell’“Europa renana” che Parigi ha costruito negli anni, in asse con la supremazia economico-finanziaria della Germania.
Non c’è dubbio: la Francia ha fatto e disfatto, nel tempo, l’Europa. Non sorprende, dunque, il fatto che in questo Paese si sia dibattuto a lungo sulla Magna Charta dell’Unione. Solo che la grande disputa ha avuto, e continua ad avere, qualcosa di singolare: è bifronte, quindi non è facilmente afferrabile. Da una parte disvela quella che è una riluttanza antica: la ripugnanza a sacrificare lo Stato-nazione, l’atavica reticenza del Regno francese a dissolversi nell’Impero europeo; una reticenza che risale all’Impero romano e poi al successivo, germanico Sacro Romano Impero. È il volto vecchio, e stantio, dell’attuale suo antieuropeismo.
Al tempo stesso, le dispute hanno aspetti avanzati, nel senso che la maggior parte di coloro che hanno votato no alla Costituzione si è definita comunque europeista, non ha messo in questione l’esistenza dell’Unione, vuole solo dire la sua sulle politiche che l’Europa in quanto tale favorirà, e forse anche sulle funzioni (la forza eccessiva, o la debolezza, in ogni caso i condizionamenti) della moneta unica continentale: sull’essere o non-essere dell’Unione, nulla sembra ostare.

Allora: il comportamento schizoide degli elettori transalpini è caratteristico della Francia, ma simultaneamente ci appartiene e ci rispecchia. Vuol dire che i popoli europei sono ad un bivio: da un lato sono prigionieri del mito che fonda lo Stato-nazione; dall’altro si comportano come se l’Europa esistesse già perfettamente organizzata, come se esistesse un unico dèmos continentale, un’unica popolazione con identità ben definita, mentre in realtà esiste e agisce una variegata Europa dove cittadini e nazioni sono uguali di fronte alla legge, ma restano diversi. Il dèmos europeo non ha nulla di omogeneo, tranne le (negate) radici religiose e quelle culturali, artistiche e civili, che hanno esercitato nei secoli un’influenza universalista.

Il modello non è più lo Stato-nazione, ma l’Impero: non l’Impero moderno dell’800-900, e neppure l’Impero egemonico sognato dalla grandeur franco-renana, ma l’Impero cosmopolita, che si dà regole ma non ha un solo comando centrale. In esso, l’idea napoleonica o la strategia gollista non hanno alcuna ragion d’essere, perché il senso nazionale non coincide più con gli interessi di un unico Stato. È la seconda grande separazione che l’Europa dovrà compiere, per fronteggiare la propria violenza. Dopo aver separato l’autonomia dello Stato dall’antica supremazia della Chiesa con il Trattato di Westfalia, adesso tocca separare lo Stato dalla nazione.
Ecco intanto le grandi date che hanno segnato il percorso della storia continentale, dal Sacro Romano Impero ai nostri giorni.

 

800. Alle spalle della Costituzione c’è una lunga marcia europea, che parte dal giorno in cui Carlo Magno venne incoronato a Roma. Carlo era un analfabeta e governava popoli rozzi, abbrutiti dalle invasioni barbariche, dominati da baroni rapaci e faziosi. Ma nel momento in cui papa Leone III posò sulla sua testa la corona imperiale, l’Europa provò un sentimento di orgogliosa “identità romana”. Diviso in molti Stati e separato dalla costa meridionale del Mediterraneo, l’Impero sopravviveva nelle coscienze e nella memoria della sua piccola classe dirigente. L’idea di Impero continuò ad essere da allora, nel bene e nel male, un’idea-guida della storia del Vecchio Continente.

1275. Nel XIII secolo l’Europa cominciò a crescere impetuosamente. Mentre Parigi e Milano divenivano metropoli europee e Bologna una grande città universitaria, le Repubbliche italiane e le città fiamminghe cominciarono ad estendere i traffici nelle due direzioni dell’Europa settentrionale e del Levante.
Protagonisti di questo straordinario capitolo di storia europea furono i mercanti: uomini ambiziosi, avidi di denaro, spregiudicati, ma anche timorati di Dio, coraggiosi, curiosi.
Al modo di Ulisse nel poema dantesco, erano spinti dall’irrefrenabile desiderio di infrangere le barriere che separavano l’Europa dal resto del mondo. Marco Polo, ospite della corte del Gran Khan dal 1275 al 1292, fu il simbolo più illustre della loro grande epoca. Con lui l’Europa si dimostrò capace di adattare, assorbire e imitare le culture più lontane.

1492. La scoperta dell’America non fu soltanto una straordinaria avventura. Fu anche un’operazione politica, religiosa, economica, finanziaria. Per conquistare il Nuovo Mondo scesero in campo, con tutta la potenza di cui disponevano, i banchieri genovesi. L’Europa voltava le spalle al Mediterraneo per affacciarsi sull’Atlantico, ma lo faceva con il denaro di una Repubblica marinara italiana. Da allora, come ha scritto Fernand Braudel nella sua opera sul capitalismo, l’Europa ebbe sempre una città-banca capace di favorire con le sue transazioni i disegni imperiali delle maggiori Potenze. La parte venne recitata in epoche diverse da Venezia, Genova, Anversa, Amsterdam, Londra, molto prima di approdare, in questi decenni, a New York.

1527. Nell’800 d.C. un Papa aveva incoronato a Roma un Imperatore. Il discendente di Cesare e il Vicario di Cristo divennero da quel momento i due volti complementari dell’identità europea, i supremi reggitori dell’Europa imperiale. Ma vi furono molte occasioni, da Canossa in poi, allorché i due poteri cercarono di sopraffarsi, ricorrendo alle armi della guerra e a quelle della scomunica. Di tutti i dissidi che turbarono i rapporti fra l’Impero e la Chiesa, il sacco di Roma fu il più clamoroso e traumatico. Poco meno di un secolo prima Costantinopoli era caduta nelle mani dei turchi. Ora la capitale del Cristianesimo cadeva nelle mani di una masnada di lanzichenecchi teutonici, in parte protestanti, al servizio di un Imperatore cattolico.

1571. Divisa dalle contrastanti ambizioni dei suoi Principi e dalla diversa confessione religiosa dei suoi popoli, una parte della Cristianità non esitò a servirsi dell’Impero Ottomano in molte circostanze, per meglio nuocere ai suoi nemici in Europa. Ma vi furono casi in cui la percezione di un pericolo comune riuscì a creare grandi coalizioni. A Poitiers, per esempio, con l’epopea di Carlo Martello. A Lepanto, quando, il 5 ottobre 1571, una flotta cristiana comandata da Don Giovanni d’Austria, ma forte di un importante contingente veneziano, vendicò l’umiliazione di Costantinopoli che i turchi avevano espugnato nel 1435. I vincitori non sfruttarono il successo, ma misero un limite all’espansione dell’Impero Ottomano nel Mediterraneo.

1673-1683. Nella grande corsa dell’Impero Ottomano al Nord, i Balcani furono il ventre molle dell’Europa. I turchi risalirono lungo la penisola, occuparono l’Ungheria, si spinsero fino alla Polonia meridionale e misero per due volte l’assedio a una capitale imperiale dell’Occidente: Vienna. In tutte e due le occasioni furono costretti a ritirarsi. Nel 1683 la città, cinta d’assedio dal primo esercito regolare del mondo, quello degli ex cristiani islamizzati da bambini, i valorosi Giannizzeri, fu salvata da un’armata tedesca e polacca al comando di due generali europei, Carlo di Lorena e Jan Sobieski. Minacciata nel cuore stesso dell’Impero, l’Europa cristiana aveva difeso le proprie frontiere mitteleuropee e nello stesso tempo aveva inferto un colpo mortale all’Impero degli Osmanli.

1643-1648. La Cristianità rappresentava l’identità spirituale dell’Europa. La Cristianità divisa, dopo la Riforma e la Controriforma, creò frontiere che attraversavano il territorio e la società dei singoli Stati. La grande crisi, dopo le molte guerre di religione degli anni precedenti, esplose nelle terre germaniche del Sacro Romano Impero e generò un sanguinoso conflitto che durò trent’anni e inflisse più lutti e sofferenze alle popolazioni civili, di quante ne provocò alle stesse truppe combattenti. Da questa lunghissima guerra civile europea nacque, con i Trattati di Westfalia, lo Stato moderno.

1798-1799. Dopo le complesse vicende della Rivoluzione francese, si registra l’ascesa di Napoleone. Il Bonaparte voleva invadere l’Egitto per colpire l’Impero britannico in India. La spedizione fallì, ma produsse, come accade spesso nella storia, una stupefacente serie di risultati imprevisti. Cambiò il design degli arredamenti europei; suscitò una straordinaria passione archeologica per il Levante; aprì la fase dell’espansione europea nel Continente africano, dando inizio all’epoca del colonialismo; soprattutto, cominciò la grande crisi del mondo islamico, diviso fra il desiderio di modernizzazione, suscitato dall’esempio europeo, e il ritorno alla tradizione religiosa.

1814-1815. Anche Napoleone, come Carlo Magno, Carlo V e Filippo II, aveva un grande disegno europeo. Dopo il naufragio delle sue ambizioni, gli Stati vincitori a Waterloo e la Francia, riuniti a Vienna sotto l’abile regia di Metternich e di Talleyrand, cercarono di sostituire l’Impero con una nuova forma di unità europea: il “Concerto delle Potenze”. Per evitare che una di esse cercasse di dominare su tutte le altre, un Direttorio, con la partecipazione della Russia, sarebbe stato da quel momento una sorta di “Consiglio di Sicurezza” ante litteram del Vecchio Continente.

1848. Il Concerto delle Potenze era fondato sull’implicita presunzione che sia i re sia gli imperatori fossero cugini, membri di una stessa famiglia, tutti egualmente interessati ad assicurare la buona gestione del Continente di cui erano “comproprietari”. Ma nel ‘48 i popoli mandarono all’aria questa sicumera e divennero da quel momento protagonisti della politica europea. I re, da quell’anno in poi, non regnarono soltanto “per grazia di Dio”. Furono costretti ad esercitare il loro diritto sovrano anche “in nome del popolo”. E nel caso che perdessero una guerra, come sarebbe accaduto più volte nel corso dei decenni seguenti, il popolo poteva costringerli ad abbandonare anche definitivamente il trono.

1870. La storia dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa è una lunga sequenza di guerre, battaglie, dissidi, scismi, scomuniche. La Breccia di Porta Pia e l’ingresso dei bersaglieri a Roma il 20 settembre 1870 venne percepito dalla Chiesa, in un primo momento, come la peggiore delle umiliazioni subite nel corso della sua lunga storia. Negli anni seguenti, invece, dimostrò di essere un evento provvidenziale. La Chiesa smise di essere un potere temporale e divenne da quel momento la più grande potenza spirituale: non più soltanto europea, ma mondiale.

1919. I Trattati di Versailles, alla fine della Prima guerra mondiale, tentarono di sostituire il “Concerto delle Potenze” delle nazioni europee e di estenderlo anche ad altri continenti. Questi tentativi fallirono per due ragioni di fondo: in primo luogo, gli Stati Uniti, dopo avere imposto agli alleati la costituzione della Società delle Nazioni, rifiutarono di farne parte; in secondo luogo, i vincitori trattarono i vinti con straordinaria durezza e in tal modo crearono le condizioni perché scoppiasse il Secondo conflitto mondiale. Nel 1919 non fu firmato un trattato di pace. Fu siglata una tregua che sarebbe stata brutalmente violata vent’anni dopo.

1938. L’incontro quadripartito di Monaco tra Daladier, Chamberlain, Hitler e Mussolini rappresentò l’ultima speranza di un Direttorio europeo, nell’interesse della pacifica convivenza tra i popoli del Vecchio Continente. Fallì perché uno dei giocatori, Adolf Hitler, voleva per sé il dominio dell’Europa e considerava quell’accordo soltanto un inutile «pezzo di carta». La guerra scoppiò un anno dopo e provocò la distruzione dell’intera Europa. Poco meno di sei anni dopo, l’Europa umiliata e rimpicciolita sarebbe stata occupata da due grandi Potenze extraeuropee: gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica.

1957. L’Europa rinasce pazientemente (e miracolosamente) alla fine degli anni Quaranta. Ricostruiti dal Piano Marshall, ammaestrati da quelle che vennero di fatto definite due grandi guerre civili continentali dei decenni precedenti, alcuni Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) cominciarono a costruire una nuova istituzione. Al posto dell’Impero, del Concerto delle Potenze, del Concerto delle Nazioni e del Direttorio, nacque la Cee, la Comunità economica europea. Come nell’800 d.C., anche nel 1957 l’atto di nascita venne firmato a Roma, in Campidoglio, luogo sacro all’Impero Romano.

1989. Sino alla fine degli anni Ottanta, la metà orientale dell’Europa sembrava irrimediabilmente separata dalla sua metà occidentale. Ma improvvisamente, non appena la marea sovietica cominciò a ritirarsi dalle terre conquistate, i Paesi dell’Europa Centro-Orientale ritrovarono la loro storia, la loro identità culturale e religiosa, insieme con la libertà di decidere il loro destino. Sono i Paesi che nel maggio 2004, riuniti nella Città Eterna, sono entrati a far parte dell’Unione europea, e sono quelli che nei prossimi anni firmeranno il Trattato di adesione. Chissà: forse un qualche Imperatore Romano, dall’alto del suo Olimpo-Paradiso, osserva le sequenze di scene con compiacimento. E con malcelato orgoglio.


I grandi dibattiti

Sottoscrivendo la Costituzione il 29 ottobre 2004 a Roma, i leader europei hanno impegnato la propria volontà politica e anche la propria reputazione, dicendo ai cittadini elettori: questo è il testo sul quale abbiamo a lungo lavorato e nel quale crediamo. Sconfessarlo, sarebbe stato come ammettere di essersi sbagliati o illusi.
In sostanza, più che una vera e propria Costituzione è una sorta di nuovo Trattato. Aperta da un preambolo e chiusa da una serie di protocolli, di allegati e di dichiarazioni, conta ben 448 articoli, divisi in quattro parti. La prima (articoli 1-60) contiene le disposizioni di carattere costituzionale: definizione, obiettivi e competenze dell’Ue. La seconda (articoli 61-114) incorpora la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione” proclamata a Nizza nel 2000. La terza (articoli 115-436) riguarda le politiche Ue e gli strumenti per applicarle. La quarta (articoli 437-448) comprende le disposizioni finali per l’interpretazione e l’applicazione del testo. In realtà, la Costituzione vera e propria include 114 articoli, che non son pochi, anche se sono meno – ad esempio – dei 139 che compongono la Costituzione italiana.

Questa lunga sequela di articoli cozza con l’intento di dare ai cittadini europei un Trattato “costituzionale” (e forse l’aggettivo stesso ha fuorviato le aspettative) semplice. Sebbene il testo sia una “summa” che include e sostituisce tutti i Trattati esistenti, da quelli di Roma del 1957 a quello di Nizza del 2001. Qualcuno, d’altronde, voleva stralciare la parte terza, che è la più voluminosa e complessa. Ma i governi non lo hanno consentito, perché è quella che enuncia nel dettaglio le politiche europee nei diversi settori, dal commercio alla concorrenza: togliendola, si sarebbero dovuti mantenere in vita i cinque Trattati precedenti.
Lo schiaffo della bocciatura franco-olandese, per quanto legato a dinamiche politiche e a problemi interni, ha messo l’Europa alle corde, profilando il rischio di un’impasse di lunga durata. Di qui, il gran dibattito, con le domande che possono dar luogo a risposte variegate: il “no” è stato alla Costituzione, oppure al metodo con cui è stata scritta? Oppure all’Europa che è stata costruita finora? O a quella che si vuole costruire? Si è rifiutata l’Europa dei tecnocrati, oppure quella dei governi?
L’Unione non è una semplice Lega fra Stati e il Trattato costituzionale non è un semplice accordo internazionale. Piuttosto è l’espressione di una Comunità di Stati, di popoli e di diritti elargiti ai cittadini, diritti che sono garantiti oggi dallo stesso Trattato: nessun atto comunitario e nessuna legge interna possono contraddirli.
La percezione più diffusa, però, è quella che identifica l’Europa con “burocrazia” e “dirigismo”: è l’“Europa senz’anima” paventata dai cittadini più sensibili e dalle classi colte del Vecchio Continente, che reclamano altri obiettivi, diversi, oppure paralleli ma non subordinati rispetto a quelli utilitaristici dei burosauri continentali. A questi obiettivi è stato dato il nome di “identità” (eccolo l’altro grande dibattito in corso), anche se identità è parola non sufficientemente politica, e rischia di essere troppo carica di emozioni individuali. E la diatriba intorno alla difficile integrazione dell’Islam in Europa è parte di questo dibattito: le radici del Continente sono in massima parte legate al Cristianesimo – gli Stati e i diritti dell’uomo si sono formati sotto il potente influsso cristiano – con apporti enormemente più modesti del mondo musulmano e di quello ebraico, dal Rinascimento alle Guerre balcaniche.

Intanto, cos’è che gli europei stanno cercando, senza avere il coraggio di parlarne apertamente? Stanno cercando di capire quali debbano essere i confini politici (e non solo) della nuova Europa, e che cosa significhi esattamente, per questa Europa che si sta costruendo, “fissare un confine”. Il confine infatti non è solo un limite che si dà alla propria espansione territoriale. Non è neppure un semplice solco tracciato sulla carta geografica. Chi lo definisce fonda uno spazio di appartenenza politica, culturale, etica, religiosa. E dentro questi spazi ha il modo di separare i poteri, di esercitarli, di rispettarli, di metterli in rapporto con il diritto sia interno sia internazionale.
Ribadiamo alcuni concetti. Per molti secoli, la frontiera delimitava due entità simultaneamente: una nazione e uno Stato, una collettività etnica e le istituzioni politiche che la collettività aveva scelto per se stessa. Proprio questo è radicalmente cambiato nell’idea di confine che i fondatori dell’Unione si son fatti dal dopoguerra.
Il confine dell’Unione introduce, come abbiamo già detto, una seconda separazione nella storia europea, dopo quella – facilitata dall’evoluzione del Cristianesimo – tra religione e politica. Il potere illimitato degli Stati, per essersi totalmente identificato con le singole nazioni, ha finito col generare immani catastrofi belliche nei secoli scorsi, amputando il potere d’influenza mondiale del Continente. È quello che si è voluto superare, dopo il 1945, ed è per questo che ora abbiamo diversi livelli di sovranità – non solo nazionali, ma anche europei – non più coincidenti con le nazioni di ieri.
Questo trasferimento di sovranità non è stato ancora compiuto, ed è il motivo per cui l’Europa non ha ancora un autentico confine, ed ha una statualità solo in formazione. Lo smarrimento degli europei di fronte alla domanda di Ankara è in realtà uno smarrimento degli europei su se stessi: è perché ancora non sanno come vogliono distribuire le future sovranità nazionali ed europee, è perché ancora non hanno deciso l’istituzione che vogliono divenire, che essi esitano a dare risposte. Più che interrogare la Turchia, è se stessi che gli europei dovrebbero interrogare, senza più indugiare. Tutti sono chiamati ad uscire dall’equivoco: chi vuol percorrere la via dell’Unione politica; chi si guarda dal varcarla e tuttavia la tiene aperta, come la Francia; chi vuol chiuderla, come l’Inghilterra; chi la vuole loose, cioè scalcagnata, o sconnessa, politicamente non forte né autonoma, ma solo un’informe zona di libero scambio, come gli Stati Uniti.
Ecco l’altro grande dibattito aperto.
L’ingresso della Turchia aprirebbe all’Europa spazi di azione cruciali. Ankara vive parte in Europa e parte in Asia, e il peso che possiede è imponente, nel Caucaso, nel Vicino Oriente e in Asia Centrale. Un’Europa che volesse contare nel mondo potrebbe avvalersi di questa formidabile marca di confine, e da questo punto di vista è vero quel che sostengono i fautori dell’adesione: includendo Ankara, l’Europa potrebbe fare quel che l’America non fa, verso il mondo musulmano. Potrebbe rafforzare e sostenere l’Islam moderato, per meglio isolare quello integralista; potrebbe scongiurare il conflitto di civiltà tra Islam e mondo cristiano, alimentato dalle nostalgie califfali per l’antica e perduta potenza musulmana, una nostalgia che, manifestandosi (piuttosto presuntuosamente) contro il “Grande Satana”, un’America troppo (pre)potente e irraggiungibile, in realtà (nel profondo) ha come obiettivo immediato l’Europa, la riconquista dell’Europa con la cancellazione dell’onta di Lepanto e di Vienna.
«Dobbiamo tornare padroni di al-Andalus», nome che i musulmani avevano dato alla Spagna al tempo del loro dominio sulla penisola iberica: è il ritornello che riecheggia nelle moschee fondamentaliste, secondo le quali l’età dell’oro che vide convivere in pace maomettani, cristiani ed ebrei tornerà grazie alla debolezza rinunciataria del Cristianesimo e alla forza determinata dell’Islam.
E c’è chi, in Spagna e altrove nel Continente, a questa convivenza pacifica ci crede. Infatti, tra i miti storici più tenaci, c’è quello dell’idillio trireligioso durante l’occupazione araba, durata 781 anni (dal 711 al 1492). Ma lo storico-filosofo-teologo madrileno César Vidal, con il suo best-seller La Spagna di fronte all’Islam, da Maometto a Bin Laden, smonta questa tesi.
Scrive Vidal: all’inizio del 700 gli islamici erano già padroni di Catalogna, Valencia e Aragona. Il regime si caratterizzava per la ferrea divisione tra i vincitori musulmani e il resto della popolazione. I vinti, cristiani o ebrei, che osavano resistere, erano sottomessi al “suhl”, che nel peggiore dei casi significava l’uccisione dei maschi e la schiavitù di donne e bambini. Chi si arrendeva, invece, otteneva lo “ahd”, cioè l’autonomia amministrativa e la pratica della propria religione, che tuttavia – pena la morte – non poteva predicare. Risultato della “pacifica convivenza”, inoppugnabili documenti storici alla mano: decapitazioni di resistenti, schiavitù dei prigionieri di guerra, deportazioni in Nord Africa, islamizzazione forzata, città a ferro e fuoco.
«Durante il X secolo, al-Andalus diventa il centro del commercio degli esseri umani in Occidente. A differenza del Cristianesimo, l’Islam non solo non condanna la schiavitù, ma la considera moralmente lecita e fonte legittima di guadagno economico». Il Califfo di Cordova Abd ar-Rahman disponeva di 10 mila schiavi: 3.700 maschi e 6.300 femmine. Abu Amir Muhammad ben Amir al-Maafii, detto Almanzor (il Vittorioso), celebre per avere avviato i lavori dello splendido palazzo di Medina Azhara a Cordova, sgozzava personalmente i nemici in pubblico, e seguiva alla lettera il jihad di Maometto: seminare il terrore tra chi non si sottomette al Corano, come accadde alla ribelle Barcellona, martoriata nel 985.
I massacri nella Spagna araba proseguirono senza soluzione di continuità anche quando al-Andalus si frammentò in 27 regni. Nel 1195 Yaqub ridichiarò la guerra santa. Cristiani ed ebrei dovettero subire la conversione forzata, venne proibito l’alcol, vennero bruciati libri. Fino a che nel 1212 gli invasori, attaccati dagli insorti esasperati, subirono la prima sconfitta colossale a Navas de Tolosa; nel 1236 perdettero Cordova; Isabella di Castiglia e il marito Ferdinando d’Aragona liberarono l’ultimo ridotto arabo, il regno di Granada, nel 1492. «Non era e non è possibile la convivenza con l’Islam, il cui cuore è il jihad», conclude Vidal. Ma al-Qaeda non si è dimenticata di al-Andalus: non a caso ne ha lamentato la perdita in un comunicato diffuso dopo l’11 settembre di New York: a più di 500 anni dalla resa della rossa fortezza dell’Alhambra, e due anni e mezzo prima dell’11 marzo della strage alla stazione di Madrid.

Dalla parte degli infedeli

Tema da svolgere: “Ricchezza magna... nobile... lo studio è utile per te, per la tua famiglia, per la tua città...; e potrai comparire in tutte le terre del mondo e innanzi a qualunque signore, e diventerai uomo dove saresti un zero senza lo studio” (San Bernardino da Siena, 1380-1444).

Traccia svolta da Hind Haddad, seconda classe di un Istituto Professionale romano:

«Se studi, lo fai per te, non per me o per qualcun altro: questa è la frase che mia madre mi ripete almeno due volte al giorno, ma ormai ci sono avvezza. Nella mia famiglia, solo a mia madre è stato concesso di finire gli studi, fino all’università, perché le altre zie dovevano sposarsi, fare i figli e servire i loro mariti. Questo è il destino delle donne arabe; per fortuna mia madre era molto ribelle e ha voluto continuare gli studi fino a realizzare il suo sogno, quello di diventare segretaria d’azienda. Ed è per questo che apprezzo molto i suoi consigli, anche se pretende che io faccia la donna araba in Europa! Mia madre è sempre stata una maniaca dello studio, ma purtroppo non ho avuto la fortuna di ereditare questa magnifica dote. Ora che vivo in Italia ho capito che l’unica arma che ho è lo studio. Fin da quando ero piccola mamma mi diceva che sarebbe stato lo studio a salvarmi dalla nostra cultura, “chiusa” e “all’antica”: quella degli Arabi!
Io non voglio negare le mie origini, anzi sono “strafiera” di essere araba, però mi rattrista il fatto che tutta la colpa sia attribuita alla religione. L’Islam non dice che le donne devono servire i mariti e basta, anzi la figura femminile è molto importante nella vita familiare, non per niente si dice che “dietro ogni grande uomo c’è una piccola donna”.
Lo studio è severamente proibito alle donne, che sono ritenute “incapaci” di capire gli affari degli uomini. Ancora oggi in Africa, e non solo, c’è un numero elevatissimo di persone analfabete, soprattutto donne. È anche per questo che non ho la minima idea di rinunciare allo studio, una risorsa che qui purtroppo non è molto apprezzata. Ma io voglio continuare a dimostrare a tutti che anche una donna araba può avere una carriera brillante. Lo studio è una fonte indispensabile nella vita.
Ci sono dei bambini che devono camminare ore ed ore per arrivare a scuola e i genitori, aggravando la situazione, non danno loro la possibilità di continuare. Uno di questi episodi lo ha vissuto mia nonna, che si è dovuta sposare a undici anni: ha avuto tre figli, aveva quattordici anni quando ha avuto mia madre. Non vorrei mai vivere un’esperienza così crudele. Questi sono solo alcuni dei problemi che hanno le donne arabe, e che devono essere risolti. Oggi mi preoccupa molto sentire gente che si lamenta e inveisce contro il mondo, pensando di essere dentro guai minimi. Minimi rispetto a quelli delle donne arabe. Riflettiamoci, gente!».

Eppure l’Europa è la sua storia. E la storia d’Europa non è la storia di un’unica idea, di una tradizione monolitica. Come ha scritto Dario Antiseri, non è la storia di una prigione mentale. È piuttosto la storia – talvolta dolorosa, talvolta impazzita – della provincia del mondo che ha conosciuto la fioritura più varia e più ricca di idee (buone e cattive) spesso in contrasto tra loro. È la storia di una tradizione in cui nascono, si sviluppano, si incontrano e si scontrano più concezioni filosofiche del mondo e più visioni religiose della vita, svariate proposte etiche e politiche. Ed è proprio questo ciò che distingue l’Europa e la sua storia dalla storia delle altre civiltà e culture.
La nostra civiltà – ha scritto Karl Popper – è la migliore perché è la più capace di autocorreggersi. Si autocorregge perché guidata dalla ragione critica – e, perché critica, questa ragione è anche tollerante. Ragione critica, pluralismo, rispetto delle diversità, sono elementi che, in una storia anche travagliata, hanno contribuito a delineare i tratti dell’identità europea. Una consapevolezza, questa, che va da Strabone, il quale parlava dell’Europa come di «una nazione dai cento volti», a Santo Stefano, il Re d’Ungheria, il quale nei Monita ai suoi eredi faceva presente che «unius linguae uniusque moris regnum fragile est», giù giù sino a Jacob Burckhardt. Questo grande storico, in una lezione tenuta all’Università di Basilea, così parlava dell’Europa: «Vi è una cosa che non dobbiamo desiderare, perché l’abbiamo a nostra disposizione: è l’Europa in quanto focolaio, nel contempo vecchio e nuovo, con una vita dai mille aspetti, luogo di nascita delle più ricche creazioni, patria di tutti i contrasti che sono riassorbiti nella sua unità».
E, sulla linea di Burckhardt, più vicino a noi, Albert Einstein: «L’ideale umanitario dell’Europa appare veramente e indissolubilmente legato alla libera espressione delle proprie opinioni, allo sforzo verso l’obiettività di pensiero esente da considerazioni di puro tornaconto, e all’incoraggiamento delle differenze in materia di idee e di gusti. Queste esigenze e questi ideali rappresentano la natura dello spirito europeo».
Pur con i suoi problemi, quella occidentale è la società più libera e più umana che la storia abbia mai conosciuto. È il luogo, per dirla con Robert Nozick, «in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica».

E proprio contro questa società aperta e tollerante si è scatenata ancora una volta la barbarie terroristica, di un terrorismo che non trova nessuna giustificazione diversa dalla follia di violenti assetati di sangue.
Ma la società aperta, nella consapevolezza che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, è ben giustificata nella lotta più decisa contro l’atavismo di tutte le “tribù terroristiche”, capaci soltanto di inzuppare la terra di sangue innocente.

Il passato come alibi

Dimenticando che i Cristiani nel Vicino Oriente (prima che venissero quasi del tutto cancellati dai maomettani) erano molte decine di milioni al tempo in cui quelle regioni erano tutt’altro che intensamente abitate, e che la città di Gerusalemme, entro le cui mura non potevano stare né musulmani né ebrei, era solo ed esclusivamente cristiana, gli imam continuano a considerare le Crociate tutt’altro che acqua passata. L’onda di guerrieri e di pellegrini, di cavalieri e di straccioni, di formazioni regolari e di armate brancaleonesche, di predicatori e di avventurieri che ha agitato per qualche secolo il Mediterraneo, continua a starci sul collo come un esercito di fantasmi. Il Presidente americano, dopo l’11 settembre, ha parlato di “crociata” contro il terrorismo islamico. Osama bin Laden ha sempre parlato di «guerra contro i nuovi crociati» (e gli ebrei).
Le Crociate sembrano dunque essere memoria storica che non passa, vecchio che incombe, e radice dell’odierno conflitto che oppone Occidente e Islam. Un falso, o nel minore dei casi una strumentale forzatura: sia perché le Crociate paradossalmente rappresentarono anche un tumultuoso momento di incontro e di scambio tra le due civiltà mediterranee; sia perché i più grandi semi di odio furono gettati non tanto tra musulmani e cristiani, quanto fra cristiani stessi.
La più traumatica fra le Crociate non fu la prima, che portò nel 1099 alla conquista di Gerusalemme, ma la quarta, che culminò nel 1204 con la presa e la devastazione di Costantinopoli: una Crociata dei cristiani latini contro i cristiani greci, un conflitto tra “fratelli nella fede”, come disse Giovanni Paolo II nel 2001, battendosi il petto davanti all’arcivescovo ortodosso di Atene. Fu, questo, l’ultimo dei grandi mea culpa di Papa Wojtyla, che già prima aveva chiesto perdono, appunto, per le Crociate, sollevando perplessità più o meno velate tra molti cardinali, non ultimo dei quali Ratzinger. Vergogna o epopea? Grande momento di fervore religioso o testimonianza di fanatismo? Nobile impresa cavalleresca o aggressione armata dettata da interessi economici?

La questione resta aperta, come del resto ha dimostrato il recente film sulle Crociate di Ridley Scott, che ha riaperto le polemiche con la sua rappresentazione a tinte fosche dei crociati e il suo elogio del Saladino. Ci sono gli opposti estremismi, con quelli che ritengono che una linea di continuità leghi il celebre condottiero musulmano a Osama bin Laden, e gli altri, che rinnovano la “Leggenda nera” dei crociati sanguinari e avidi, tenuta a battesimo dagli illuministi francesi del Settecento.
Certamente, le Crociate non furono tutte uguali. E, d’altra parte, lo stesso concetto di Crociata è vago e discusso anche nei testi degli storici. Franco Cardini, uno dei maggiori esperti dell’argomento, sostiene che i crociati erano un po’ come il “borghese gentiluomo” di Molière, che scriveva in prosa senza saperlo. Anche i crociati erano crociati senza saperlo. La nozione di Crociata, infatti, è più che altro un’invenzione a posteriori, nata soprattutto per legittimare la lotta contro l’Impero Ottomano, a partire dagli anni del Rinascimento. Nel Medioevo le varie spedizioni in Terra Santa, che si susseguirono a decenni di distanza, non apparivano in realtà come un progetto unitario, né erano contrassegnate da un nome unico.

Tutto iniziò nel novembre 1095 a Clermont, dove papa Urbano II incitò i feudatari che si scannavano fra di loro sul suolo europeo a rivolgere le armi contro i musulmani, sotto il cui tallone erano caduti i cristiani d’Oriente. L’appello fu accolto da una serie di prìncipi: Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia; Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena; Roberto, duca di Normandia, fratello del re d’Inghilterra, e altri ancora. Un’alta aristocrazia – scrive Cardini – che era in crisi, falliti di lusso alla ricerca di un’occasione per rifarsi.
Dietro costoro, partì una massa di diseredati col cuore infuocato da predicatori e profeti. Una schiera disordinata attraversò l’Europa sterminando le comunità ebraiche delle città renane e danubiane, riuscendo a riprendere Gerusalemme nel luglio 1099, con roghi anche per i cristiani del luogo, che pare stessero bene con i fedeli di Allah. Tuttavia ciò che derivò fu la nascita di un nuovo mondo: i Regni Cristiani di Terrasanta, durati per due secoli, fino al 1291, quando, incalzati dai musulmani, i crociati abbandonarono San Giovanni d’Acri, ultima loro roccaforte.
In quei Regni gli occidentali impararono ad apprezzare le delizie della vita e della cultura araba (servizi igienici, tappeti, raffinatezze architettoniche), a loro volta eredità del mondo bizantino. Scriveva il cronista Fulcherio di Chartres:

«Ecco che noi, che fummo occidentali, siamo diventati orientali. L’Italico e il Franco di ieri è divenuto un Galileo o un Palestinese. Chi laggiù era povero, qui per grazia di Dio ha ottenuto l’opulenza; chi non aveva che qualche soldo, qui possiede dei tesori; chi non godeva neppure di un modesto possesso, qui si vede padrone di una città intera. Perché dunque tornare, dal momento che abbiamo trovato un tale Oriente?».

Le Crociate sono state viste da alcuni come primo esempio di colonialismo europeo. Un delizioso pamphlet dello scrittore Amin Maalouf qualche anno fa raccontava Le Crociate viste dagli Arabi e lo sgomento degli indigeni di fronte a invasori tanto rozzi e arretrati. D’altra parte, non mancarono momenti di felice convivenza. I cavalieri templari, ad esempio, che anche nel film di Scott rappresentano il paradigma del crociato sanguinario, tendevano in realtà, quando potevano, ad avere buoni rapporti con i musulmani. Il cronista ed emiro di Damasco Osama ibn Mundiq non mancava mai di visitare a Gerusalemme quelli che chiama «i miei amici templari», i quali gli apprestavano un angolo della loro chiesa perché potesse pregare Allah. I templari, del resto, erano anche grandi banchieri e, da bravi uomini d’affari, non controllavano sempre la religione dei loro clienti. I templari furono poi sterminati, ma non dai musulmani, bensì dal cristianissimo re di Francia, Filippo il Bello, che mal tollerava la loro potenza politico-economica e che dopo le stragi si impossessò delle loro enormi ricchezze.

Le Muse inquietanti

Uso e abuso del mito, nella figura del crociato evocata dal cinema e nella letteratura. C’è Brancaleone da Norcia, prototipo del crociato straccione, avido e infingardo, interpretato da un geniale Vittorio Gassman e raccontato da Mario Monicelli in Brancaleone alle Crociate. Ma c’è anche il valoroso Riccardo Cuor di Leone, eroe cristiano immortalato da Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, nel suo romanzo Il talismano. Benché lo stesso Scott conosca poi lo stereotipo del cavaliere templare infido e crudele. E, aprendo il capitolo dei Templari, il più celebre ordine cavalleresco di Terra Santa, si rischia di arrivare molto lontano: al mistero del Santo Graal, di cui secondo alcune leggende i Templari sarebbero stati custodi, come racconta (per eredità culturale esoterica) pure Dan Brown nel suo Codice Da Vinci.

Insomma, anche nella letteratura e nel cinema il mito dei crociati presenta molte facce, eroiche e fosche. È così almeno dalla tassiana Gerusalemme liberata. Ma è forse il caso del Saladino, l’eroe della riscossa islamica in quello scacchiere, uno dei più istruttivi riguardo all’uso e all’abuso del mito delle Crociate. Presso i nazionalisti arabi del XX secolo, il Saladino è diventato l’eroe dell’eterna lotta contro i cristiani e gli occidentali: persino Saddam Hussein ne aveva fatto un personaggio centrale della sua propaganda politica. Peccato che il Saladino non fosse arabo, ma curdo, e se fosse stato vivo nel XX secolo Saddam lo avrebbe fatto gasare. Viceversa, ancora di recente c’è chi ha protestato perché in un manuale scolastico italiano il Saladino è stato definito «saggio sovrano» (le figurine Perugina di tanti anni fa lo avevano definito “feroce”), imputando la definizione all’influenza della propaganda della sinistra. Solo che già Dante, nel IV dell’Inferno, lo pose tra gli “spiriti magni”, celebrandone la generosità anche nel Convivio. Il mito positivo di Salah ed-Din attraversa poi tutta la cultura occidentale, da Boccaccio, che ne fece il protagonista di una novella del Decamerone, fino al settecentesco Nathan il Saggio, di Gotthold Ephraim Lessing, nel quale il condottiero curdo è simbolo di tolleranza.

(Piccole storie, accanto a quella maggiore. I cristiani di Terrasanta amavano molto i turbanti. I cavalieri in genere indossavano il burnus, la lunga veste di seta tipica degli arabi. La kefiah veniva invece portata dai crociati in battaglia, sopra l’elmo.
La mattina del 15 luglio 1099 il cronista Raimondo di Aguilers visitò la Spianata del Tempio a Gerusalemme, conquistata il giorno prima dai crociati. Muovendosi a fatica tra i cadaveri musulmani, notò che il sangue gli arrivava alle ginocchia.
In Terrasanta i crociati scoprirono la comodità dei bagni privati. Ad Antiochia, splendida metropoli di origine greca, un sistema di condutture portava l’acqua nei palazzi. A Gerusalemme funzionava ancora perfettamente la rete fognaria costruita dai Romani.
Il lusso della vita in Terrasanta scandalizzava spesso i pellegrini che venivano dall’Europa. A tavola comparivano rarità come i piatti di porcellana fine, importati dall’Estremo Oriente. E nelle case si faceva largo uso di tappeti, quasi del tutto sconosciuti in Occidente.
Al lusso era collegata una fama di licenziosità. Come testimonia il caso di Paschia de Riveri, disinibita moglie di un commerciante di tessuti di Nablus, che intorno al 1080 divenne amante del Patriarca di Gerusalemme, Eraclio, un ecclesiastico rozzo e semianalfabeta: la chiamavano “Madame la Patriarchesse”.
Un altro caso scabroso, pochi anni dopo. Boemondo III, detto “il balbuziente”, principe di Antiochia, ripudiò la moglie greca perché aveva perso la testa per una bella cortigiana di Antiochia. Venne scomunicato dal Patriarca Aimery per adulterio. Ma il fatto più grave era un altro: Sibilla, l’amante, faceva la spia per conto del Saladino.
Alla conquista della Terrasanta seguì l’arrivo in Occidente di diversi generi alimentari. È stato calcolato che, nei secoli XII e XIII, quasi tutto lo zucchero consumato in Europa fosse prodotto nelle fabbriche del Vicino Oriente cristiano. Sulle tavole dei ricchi italiani comparvero anche frutti rari provenienti dalla Palestina, come la melagrana).

Il grande studioso inglese Steven Runciman concludeva così la sua monumentale Storia delle Crociate: «Furono un episodio tragico e distruttivo. C’era tanto coraggio e così poca lealtà, tanta devozione e così poca comprensione; ideali elevati erano insozzati da crudeltà e cupidigia. La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio». Giudizio eccessivo, e francamente ingeneroso verso quei cavalieri, anche perché a definire “ladri” i veneziani che fecero la Quarta Crociata ci pensò lo stesso Papa dell’epoca, Innocenzo III.
Ma se le Crociate non sono state una vera e propria guerra di religione, perché una certa cultura si ostina a considerare la presenza cattolica nel Vicino Oriente come frutto di un’operazione imperialista? Perché esiste una pervicace lettura di tipo protestante, per un verso, e quindi anticattolica, e laicista per altro verso, che ormai vuol far giocare una parte sgradevole (Crociate, Inquisizione, Caccia alle streghe...) al mondo cattolico. Scrive Franco Cardini: «Il mondo cattolico non si sa difendere, è fatto di persone, alcune delle quali coltissime, ovviamente, ma nel complesso storicamente e culturalmente molto debole: riesce a stare solo sulle difensive, non conosce la propria storia, altrimenti certi tentativi di calunnia, anche se appoggiati da potenti mezzi mass-mediali, verrebbero respinti immediatamente e cadrebbero fra l’altro, com’è giusto che cadano, nel ridicolo. Quindi tutte queste cose non sono ingenue. Sono in parte frutto di ignoranza, per tanta parte promossa, mantenuta, manipolata. Di questo lo spettatore del film Crociate dovrebbe essere cosciente».
Così come dovrebbe esserlo leggendo il Codice Da Vinci di Brown, un thriller a sfondo mistico-esoterico diventato un caso che ormai travalica la sfera letteraria, visto che l’ex docente di lingua inglese, con flemmatico sprezzo del ridicolo, ritiene di poterci svelare un certo numero di misteri, dicendo la sua sul Santo Graal e sui segreti dei Templari, e di poterci chiarire la vera natura di Cristo: una cosuccia su cui da millenni discutono i teologi e si convocano Concilii.
La prima pagina del Codice esibisce un’orgogliosa premessa: «Tutte le descrizioni di documenti e rituali segreti contenuti in questo libro rispecchiano la realtà». Quale realtà? Quali documenti? Si sospetta che la realtà sia un’altra: Brown ha orecchiato testi a cui non si è mai personalmente accostato. Ad esempio: il romanziere parla dei Vangeli Eretici scoperti nel 1945 in Egitto, a Nag Hammadi, documenti di antiche comunità cristiane in cui si accennerebbe al matrimonio fra Cristo e Maria Maddalena. Sarebbe questo, secondo Brown, il «Santo Graal cercato invano per secoli»: la verità segreta, l’originario “lato femminile” del Cristianesimo che il turpe complotto maschilista della Chiesa tiene nascosto da millenni.
Un personaggio del romanzo butta lì, con ostentata noncuranza: «Ogni esperto di aramaico può spiegare cosa dicono i rotoli di Nag Hammadi». Si resta impressionati: ma quante cose conosce Brown: i rotoli egizi, l’aramaico… Peccato che i testi di Nag Hammadi non siano rotoli di papiro, e tanto meno siano scritti in aramaico. Sono 13 libri in lingua copta. Morale: il narratore non sa neanche di che cosa sta parlando. Dunque, sbaglia anche chi paragona il Codice al Nome della rosa, libro che aveva coniugato il giallo, la riflessione teologica e l’erudizione medievalistica: a differenza di Brown, infatti, Umberto Eco sapeva bene di cosa parlava. Mentre sono numerosissime le amenità che emergono grazie al lavoro di Bart Ehrman, studioso di Cristianesimo antico, che ha pubblicato La verità sul Codice Da Vinci, libro che fa le pulci al best-seller, svelandone tutti i macroscopici errori storici.
Gioco facile, quello di Ehrman. Quando Brown, attraverso un personaggio del romanzo, sostiene che i cristiani non credevano alla divinità di Cristo fino al Concilio di Nicea (325 d.C.), dimostra di non aver letto nemmeno l’inizio del Vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo»). Più sottile il gioco su altri elementi. Per esempio, i rotoli del Mar Morto – ritrovati in una grotta di Qumram, nel deserto di Giudea – cavallo di battaglia di tutti gli appassionati di misteri e di grandi corbellerie teologico-archeologiche. Brown è convinto che essi, scoperti nel 1947, contengano anche testi cristiani, mentre sono tutt’altra cosa, puri e semplici testi giudaici. E qui forse l’autore del Codice ha orecchiato le ipotesi di alcuni studiosi, i quali ritengono di avere individuato nella “Grotta 7” un deposito di testi cristiani, tra i quali una versione del Vangelo di Marco. Ipotesi di studiosi, appunto: ma che nelle mani di Brown diventano elementi della storia segreta del Cristianesimo!
Al di là della grossolana trama di Brown, il punto è che ormai c’è sempre più gente convinta che Gesù abbia sposato Maria Maddalena, o che l’Imperatore Costantino abbia eliminato dolosamente il lato matriarcale del Cristianesimo. La fiction si sta sostituendo alla storia? Non è un fenomeno isolato. Scendendo nel profano, c’è chi crede che la guerra di Troia si sia svolta in Finlandia, per via di un saggio simpaticamente fantasioso (Omero nel Baltico, dell’italiano ingegner Vinci) finito sulle prime pagine dei giornali e negli scaffali delle librerie. Né si tratta di un fenomeno nuovo. Si era verificata la stessa cosa alla fine dell’Impero Romano: quando, mettendo insieme storia e leggenda, si spiegava tranquillamente – per esempio – che Alessandro Magno aveva trovato la fonte dell’eterna giovinezza.
Leggere Brown? Si scelga in piena libertà. Anche se forse è preferibile leggere le pagine del Concilio di Nicea, degli epici scontri tra Ario e Atanasio, delle vicende dei docetisti e dei patripassiani, della descrizione delle dottrine segrete degli gnostici. È tutto più avvincente del feuilleton browniano.

Con Westfalia, nel 1648, i cristiani sottoscrissero la pace che affermava il principio: Mai più guerre di religione. Lo sconvolgimento creato dalla Riforma aveva inaugurato quello che è stato definito il «secolo di ferro»: guerre religiose in Germania, guerre civili in Francia, rivoluzioni in Scozia, in Inghilterra, in Olanda, persecuzioni e roghi ovunque, e infine, col tentativo di imporre l’assolutismo absburgico e la confessione cattolica all’Impero tedesco, l’immane carneficina della Guerra dei Trent’anni, che come una sorta di gorgo finì con l’attrarre e travolgere quasi tutti gli Stati europei, dalla Svezia all’Italia, dalla Spagna alla Boemia, dalla Francia alla Danimarca. Un vero e proprio carnaio, fatto non solo di sanguinose battaglie, di città devastate e saccheggiate, di violenze d’ogni genere sulle popolazioni inermi, ma anche del loro inevitabile seguito di diffusa miseria, di atroci carestie, di terribili pestilenze. Grandi monarchie fino allora egemoni, come la Spagna, ne uscirono prostrate, cancellate dal novero delle grandi Potenze europee. L’unità dell’Impero vagheggiata dalla casa d’Austria tramontò per sempre, e la frammentazione politica tedesca raggiunse il culmine, aprendosi dapprima all’espansione francese, e poi alla crescente egemonia prussiana, fino alla proclamazione del Reich nell’Ottocento, con incalcolabili riflessi per la storia continentale, mentre la crisi ottomana apriva agli Absburgo nuove possibilità di espansione a sud e ad est, anch’essa destinata a conseguenze di lunga durata. Con la pace di Westfalia, uscita di sicurezza dai bagni di sangue per le vie della politica, e non della teologia, il pluralismo cristiano europeo nel suo insieme uscì definitivamente consolidato. In Europa si aprì una nuova stagione, incentrata sullo strapotere che la sconfitta dei vicini aveva regalato a Luigi XIV di Francia, e sulla inarrestabile ascesa dell’Inghilterra, cui la Glorious Revolution del 1689 avrebbe saputo dare la stabilità politica perduta nei drammatici conflitti interni dell’età stuartiana.
Oggi, nel momento in cui il Cristianesimo è evidentemente sotto attacco, merita rifarsi a quegli straordinari cristiani, a quelle grandi anime religiose che proprio in nome della propria fede non avevano cessato di evocare un Cristianesimo tollerante, evangelico, consapevole dell’impossibilità di forzare le coscienze, come oggi dovrebbe essere per tutte le altre fedi, soprattutto per quelle meno predicatorie e più determinate e aggressive.

Sono secoli che il Cristianesimo ha deposto le armi della conquista, non è più avanguardia di esploratori e scopritori in nome e per conto di sovrani e di Imperi, è portatore di un messaggio di pace e di fratellanza in tutte le latitudini planetarie. Altro che crociati! E non è un caso che proprio dopo Westfalia si aprì una stagione culturale che annoverò, fra gli altri, gli Spinoza, i Locke, i Bayle, padri fondatori di quella “modernità” occidentale cui si potrà anche rinunciare, ma senza illudersi che ciò possa essere esente da prezzi altissimi. Agli altri, (alle loro frustrazioni determinate dalla caduta di antiche grandezze, al tramonto di antiche culture letterarie e scientifiche, e via di seguito), l’alibi di un Cristo armato che non è nostro contemporaneo. A noi, invece, il Cristianesimo come passaporto per la nuova Europa.
(Oltre a Brown, ha fatto subito discutere il film Passione, di Mel Gibson. Era già accaduto con Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini: ma – è stato scritto – questo nacque e visse come belluria e ornamento di un’anima di poeta, senza mai incontrare la politica e la storia. Era cinema d’autore, cioè una “deviazione intimista” della linea editoriale dei polpettoni biblici alla Cecil B. De Mille.
Passione è in un contesto del tutto diverso. Scrive Giuliano Ferrara che un tempo Hollywood divorava e digeriva la religione, mentre ora la religione, il “Cattolicesimo radicale” di cui parla lo scrittore Vittorio Messori, sta per divorare Hollywood: «La religione è diventata la nostra angoscia quotidiana, si sente […] il suo artiglio nella carne febbricitante dei tempi […]. La religione è dovunque come concetto e rebus geopolitico, ma con il film di Gibson arriva nel tempio universale del cinema come racconto materiale, come dettaglio e dolore fisico cotto nel sangue del Risorto, non più metafora e sublimazione governabili nella foresta dei simboli. Colpa, punizione, salvezza, espiazione fanno parte da sempre dell’immaginazione giudaico-cristiana, ma come dottrina o catechismo, come fede popolare, come liturgia e amministrazione cerimoniale delle feste comandate. Altro è il racconto realista […]».
«Una forte immaginazione produce l’evento», aveva scritto Montaigne. Fatto è che la nostra sembra un’epoca di grande risveglio religioso: allora l’operazione colossale messa in piedi con questa Passione carnale, coniugata con le immense folle in attesa della processione e della Via Crucis (Pasqua 2004, con Papa Wojtyla) ha innescato un corto circuito di proporzioni ancora incalcolabili, e ha intercettato una nuova e nello stesso tempo antichissima dimensione dell’esistenza umana: quella di ascoltare una “storia vera”, con un linguaggio contemporaneo che non ha escluso né l’aramaico né il latino che nessuno conosce più, ma che tanti, moltissimi affascina ancora. L’avvenimento è radicalmente riprodotto, ed è una bomba emozionale. Cristo può parlare agli europei senza riserve.
E parla al cuore la colonna sonora del testo filmico. Per l’autore, Maria è una madre che canta una ninna-nanna mentre suo figlio sale sul Golgota e cade tre volte sotto il peso della Croce. Gli parla come se fosse un bambino: – Don’t cry, my little one, (non piangere, mio piccino), if you should fall my hands will cradle you, (se cadrai, le mie mani ti culleranno).
John Debney è l’autore della musica di Passion: 39 anni, californiano, cattolico, e prolifico compositore di colonne sonore. Sue le note che accompagnano fior di commedie, film d’azione e cartoons (da Spiderman 2 a Corsari, a Scorpion king, a Le follie dell’imperatore). Poi, come un fulmine a ciel sereno, gli capita di far parte di un progetto che dà una sferzata alla sua vita, umana e professionale. Il film di Mel Gibson, appunto. La musica è stata presentata in prima mondiale a Roma, all’Accademia di Santa Cecilia, il 6 luglio scorso: The Passion Symphony, sette movimenti, eseguiti dal coro, da una vocalist, dall’orchestra tradizionale e da un solista per i “fiati”; ma anche da strumenti etnici, scoperti attraverso lo studio della musica ebraica antica e dell’area medio-orientale: tamburi Taiko e Tom tom, chitarre Oud di origine turco-circassa, flauti Duduk. I sette movimenti diretti da Debney racchiudono tutti i temi principali del film, da Raising the Cross a Jesus is carried down, fino all’aulica Resurrection. E, tra questi, anche Mary goes to Jesus, dedicato al rapporto tra la Madre e il Figlio.
Per il tema della ninna-nanna, Debney ha rivelato che lo trovava uno dei più difficili da scrivere, perché non riusciva a trovare la chiave giusta, fino a quando una mattina si era svegliato con una musica in testa, ed era proprio una ninna-nanna: la voce di una madre che parla con un figlio che, sebbene divino, è comunque il suo bambino. E parte di quel bambino – afferma Debney – è ancora in lui, mentre affronta la tortura e la morte. Così come in Maria-madre c’è la partecipazione al sacrificio, che solo una musica sublime può interpretare, comunicare: «L’idea del sacrificio è meravigliosa […]. Ho attraversato momenti di difficoltà, durante i quali la fede mi ha sorretto e mi ha aiutato. Ho pregato sempre per riuscire a fare del mio meglio. Anzi, la mia fede è cresciuta ed è diventata molto più forte. Con Gibson volevamo raccontare la storia fisica della Passione, con un intento preciso, mostrare a tutti che esistono delle possibilità, è questione di scelte. Esperienza macerante e stupenda: ho provato una gamma infinita di emozioni: mi sono sentito a tratti affranto, in altri momenti il mio spirito invece si sollevava, perché c’erano in gioco significati profondi nella storia che stavamo raccontando: il peccato, la pietà, il perdono. […] Sicché Passion è la fede, la mia fede»).

Le chiamano “eresie letterarie”, e non sono né uniche né rare e meno che mai appartengono soltanto ai nostri giorni. Al di là del Codice, infatti, c’è tutta una schiera di romanzieri postmoderni che riscrivono a modo loro la rivelazione evangelica. Fermiamoci ai primi cinque anni (circa) del Terzo millennio. Si va dal thriller a sfondo cristologico Ultimo testamento, di Philip Le Roy, al Vangelo secondo Pilato, del francese Eric-Emmanuel Schmitt, che mostra un Gesù molto dubbioso sul suo ruolo di Messia, (peraltro stranamente pubblicato in Italia dall’editrice San Paolo), ai bizzarri romanzi di Andrew Masterson (l’ultimo si intitola Il Secondo Avvento): qui è protagonista Joe Panther, alias Yehoshua Ben Pantera, uno spacciatore di droga convinto di essere il figlio di Maria (non più Vergine) e di un legionario romano. Il recente thriller di Matilde Asensi, L’ultimo Catone, è un’inchiesta sulla Croce di Cristo. Mentre Le Roy rielabora il tema chiave di Brown, cioè il matrimonio tra Gesù e la Maddalena: Le Roy immagina che Cristo, morto serenamente a settant’anni, amorevolmente curato dalla sua consorte, abbia lasciato un testamento che duemila anni dopo scatena una ricerca segnata da intrighi e ammazzamenti. E si può aggiungere Il patto, di Edmondo Lupieri e Linda Foster, dove uno scienziato si propone di clonare Gesù, a partire dalle tracce di sangue presenti sulla Sacra Sindone.
Certo, da sempre esistono romanzi che hanno rielaborato fantasticamente, e spesso con irriverenza, la vita di Cristo. Motivi di base, spesso, gli stessi di oggi, compresi i presunti amori carnali del Messia. Nel 1929 D.H. Lawrence pubblicava The man who died, che conteneva anche la storia d’amore tra Gesù e una sacerdotessa di Iside. Non molto tempo dopo, Michail Bulgakov metteva mano al suo capolavoro, Il Maestro e Margherita, straordinaria divagazione tra la Mosca bolscevica e la Gerusalemme di Ponzio Pilato. Nel 1959 il greco Nikos Kazantzakis scriveva L’ultima tentazione, romanzo splendidamente visionario, dal quale Martin Scorsese trasse un film controverso, incentrato su un Gesù che rifiuta di morire, per mettere su famiglia con la solita Maria di Magdala. E si arriva fino al Vangelo secondo Gesù, di José Saramago, del 1992. Di che parla? Di Cristo e della Maddalena…
L’aspetto più curioso di questa letteratura commercial-cristologica è che si ispira di frequente a testi eccentrici o poco noti. Abbiamo detto che i due principali filoni fanno riferimento ai Vangeli gnostici scoperti in Egitto e ai Manoscritti del Mar Morto. Specifichiamo che i primi sono da sempre legati a comunità cristiane eretiche, mentre i secondi sono stati prodotti nell’ambito della setta giudaica degli Esseni.
Sono testi che, se oggetto di riflessione da parte di studiosi seri, hanno una loro importanza, come nel caso del recente volume mondadoriano su Le parole dimenticate di Gesù, a cura di Mauro Pesce, che attinge largamente ai Vangeli non canonici nel raccogliere tutti i detti attribuiti al Messia.
La conoscenza che i romanzieri hanno di questi testi è filtrata da una letteratura pseudo-scientifica che ha i suoi massimi esponenti in due giornalisti, Michael Baigent e Richard Leigh. Il loro libro su Il Santo Graal ha influenzato direttamente Brown, mentre un altro libro, I misteri del Mar Morto, (Marco Tropea), è direttamente responsabile di un’altra serie di corbellerie. In un caso e nell’altro si pretende che i testi siano tuttora tenuti nascosti, mentre ne esistono pregevoli edizioni, comprese traduzioni italiane in tascabile.

Per i Manoscritti si sostiene che il Vaticano avrebbe cercato in tutti i modi di impedirne la pubblicazione, perché il vero Gesù si svelerebbe in quei testi come un semplice profeta della setta essenica. È ovvio che chi sostiene questa tesi non ha mai letto i Manoscritti del Mar Morto, peraltro terribilmente frammentari, oltre che noiosissimi. E chi attribuisce i ritardi della loro pubblicazione a interferenze della Chiesa di Roma evidentemente non ha mai provato a fare l’edizione critica di migliaia di frammenti scritti in ebraico, in aramaico e in greco.
Le speculazioni romanzesche sui Vangeli gnostici e sui testi del Mar Morto appartengono a una sottocultura, soprattutto americana, che potrebbe essere seppellita con una sonora risata. Andando magari poi a rileggersi il vertiginoso e provocatoriamente blasfemo romanzo di Gore Vidal, In diretta dal Golgota (1992): dove si immagina che un virus del computer abbia confuso la storia e le epoche, di modo che Gesù risulta nato a Las Vegas, e le troupe televisive, in grado di viaggiare nel tempo, si contendono la diretta della crocifissione. Vien da pensare alle celebrazioni mediatiche per la morte di Giovanni Paolo II, commemorato nei salotti televisivi da tuttologi e attricette. Siamo proprio sicuri che i veri attentati alla serietà del messaggio cristiano vengano soltanto dai poveracci alla Brown?

(«Se non diventerete come donne, non entrerete nel Regno dei cieli!». Chi lo dice? Gesù, ovviamente, in un Apocrifo del II secolo conosciuto come “Vangelo di Maria Maddalena”. E a questo testo, circa la presunta relazione tra Gesù e Maria di Magdala, fanno riferimento almeno altre tre opere apocrife che, nell’era apostolica e patristica, hanno conosciuto alterne fortune: il “Pìstis Sophìa”, il “Trattato sull’infanzia di Gesù” secondo Tommaso e il testo gnostico detto “Vangelo di Filippo”.
Che fossero testi di fantasia, e con seconde e terze intenzioni incorporate, ce lo dicono le stesse fonti storiche, visto che la polemica contro le presunte verità che gli Apocrifi racconterebbero è già presente in numerose lettere di San Gerolamo e di altri Padri della Chiesa. I quali rivolgono accuse, a volte anche molto veementi, contro gli ambienti rabbinici ritenuti, già allora, autori di testi menzogneri.
Nel corso dei secoli la tesi è stata rilanciata più volte, poiché essa sarebbe confermata da affermazioni polemiche e anticristiane presenti nei diversi trattati del “Talmud”. La verità storica, però, obbliga a tener conto anche della responsabilità dell’ambiente cristiano post-apostolico: ambiente eterodosso, che pose a dura prova l’integrità della fede e dell’insegnamento di Cristo. Almeno uno dei testi apocrifi a cui si è accennato, quello attribuito all’apostolo Filippo, è stato scritto dai giudeo-cristiani ebioniti. Altri testi apocrifi vennero redatti da cristiani gnostici, altri ancora da cristiani docetisti.
Nei primi tre secoli, la matrice culturale ebraica era forte e vigorosa anche dentro le comunità cristiane. E, come osserva Elena Lowenthal nel suo “Eva e le altre”, la parola “storia” in ebraico è un plurale femminile: “toledot” significa “generazioni”. Ed “Eva”, sempre in ebraico, significa “presente”. La donna è ciò che fa nascere il presente, che gli dà corpo e anima. L’uomo, da Adamo in poi, è colui che dà nome alle cose.
Se Dio ha affidato questo compito all’inizio del mondo, Cristo a chi ha affidato il compito? “Il Vangelo di Maria Maddalena” si apre proprio sui discepoli in pianto per la morte di Gesù e terrorizzati per le loro vite. Pietro invita Maddalena a raccontare i suoi ricordi su Gesù e invece la donna racconta quanto il Maestro risuscitato le avrebbe detto in una visione percepita per mezzo della mente. Pietro e Andrea la contestano, dichiarandola bugiarda. Mentre un apostolo sconosciuto, di nome Levi, la difende e contribuisce alla sua vittoria dialettica. E quindi Maddalena può andare per le strade del mondo ad annunciare il suo Vangelo. In realtà, le cose non sono andate proprio così. Sono stati Pietro, Andrea e gli altri apostoli a insegnare e a predicare la Parola al nuovo popolo di Dio).

La Croce come bersaglio

Quelli diretti a Gerusalemme li chiamano “palmari”, in memoria del giorno dell’ingresso di Gesù nella città santa, tra folle che portavano palme come simboli di pace; “romei” sono detti quelli diretti a Roma; e mi pare che i pellegrini che si mettono in viaggio verso il terzo grande centro penitenziale, in Galizia, Santiago de Compostela, li chiamino “francigeni”, dal nome del tracciato stradale percorso: di preferenza, l’itinerario classico Aquisgrana-Parigi-Orléans-Bordeaux-Roncisvalle, rotta anche di intensi scambi commerciali e culturali, che contribuì alla nascita delle canzoni di gesta e al ciclo di Carlo Magno e di Orlando.
Santiago è Sant’Jacopo, ovvero San Giacomo Maggiore, sepolto (si narra) in una tomba romana a Iria Flavia, scoperta nel IX secolo su indicazione di una stella (campus stellae, campo di stella, da cui Compostela). I maomettani ne devastarono la cattedrale nel X secolo. Il culto del fratello di Giovanni Evangelista esplose al tempo della Reconquista, e non a caso: il primo apostolo martirizzato era definito Matamoros, ammazza-saraceni, e nell’atto di battersi contro i musulmani è ritratto in una scultura della cattedrale composteliana. Un’immagine che ferisce la sensibilità dei fedeli dell’Islam, ospiti-lavoratori da quelle parti, e che per questo si intende mandare in esilio, chiudendola in un sotterraneo, in nome della tolleranza (unilaterale) di tutte le fedi e del relativismo compromissorio delle gerarchie cattoliche locali.
Atteggiamento non diverso da coloro i quali, dalle nostre parti, reclamano di mandare in soffitta (dalle scuole, dagli uffici pubblici, e poi magari dalle nicchie montane o dai crocicchi campestri, e via dicendo) i Crocefissi, simboli che offenderebbero gli occhi e la coscienza di chi cristiano non è e non si professa; o da coloro i quali minacciano di far saltare in aria la basilica di San Petronio, a Bologna, perché raffigura tra gli affreschi un Maometto all’Inferno.
Stagione davvero complessa, quella che stiamo vivendo. Per chi ha davvero a cuore la fede cristiana, l’annuncio dell’Evangelo e il suo coniugarsi con la convivenza civile, le domande si fanno oggi particolarmente scottanti. Anzi, ce n’è forse una sola, brutale nella sua essenzialità: «Cristo ha un futuro? In altre parole: Colui che viene chiamato così rimarrà come una figura importante dell’umanità, o qualcosa di più, o invece scomparirà per ridursi a vestigia di ciò che è morto?». Questo si chiede Maurice Bellet nel suo La quatrième hypothèse. Sur l’avenir du Christianisme, partendo dalla constatazione che il Cristianesimo, quindi l’annuncio di Cristo, quindi, in un certo senso, Cristo stesso, sono minacciati di estinzione. E questo acuto osservatore “interno” alla fede cristiana, con la sua rara capacità di provocazione, delinea quattro ipotesi per l’avvenire del Cristianesimo. La prima non fa che prendere atto della scomparsa del fenomeno cristiano: «Il Cristianesimo scompare e, con esso, il Cristo della fede […]. Se ne va. Svanisce. È indolore. Non ci si pensa neanche più»; restano delle tracce: monumenti, opere d’arte, forse qualche elemento dell’inconscio collettivo e un nucleo consistente di adepti…
La seconda ipotesi delinea una dissoluzione: l’apporto di valori evangelici entra a far parte del patrimonio comune dell’umanità come un anello di una tradizione più grande, una componente di un sistema di pensiero, e nulla più: «Gesù può anche trovarvi un posto, come nel pantheon indù».
La terza ipotesi è che il Cristianesimo continui, attraverso una dialettica fatta di conservazione, di restaurazione e di aggiornamento, in cui opzioni anche opposte – Bellet cita Pio IX e Giovanni XXIII, canonizzati insieme – permangono «interne a uno stesso tutt’uno, fondamentalmente invariato».
C’è chi, a questo punto, si chiede se non si stia facendo strada un’ipotesi che Bellet non delinea come tale, ma che in un certo senso raccoglie elementi della sua seconda e terza prospettiva e che, da tempo presente nel mondo anglosassone e del Nord Europa, sta prendendo piede anche in Paesi come il nostro: quella di un Cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, coniugato come “religione civile” che assicura il ricompattarsi della società e che si ammanta di evidenti risultati culturali.
Una presenza cristiana che apparirà sempre più come declinazione dell’equazione “Cristianesimo uguale Occidente”. Va riconosciuto che oggi la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso e pertanto è pronta al riconoscimento dell’utilità sociale della religione. È un atteggiamento senza dubbio estraneo alla grande tradizione cattolica, ma che di fatto viene incoraggiato per nostalgia di una riedizione del mito della Cristianità e salutato come necessario per la nostra società sempre più frammentata e smarrita.
Infine, la quarta ipotesi: qualcosa conosce inesorabilmente la fine, «qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte scende in noi». È la fine di un sistema religioso, legato all’età moderna dell’Occidente da un rapporto di interdipendenza. Ma con questa morte si arriva come a un capolinea, dove non si sa se la ripartenza sarà verso il peggio o verso il meglio: l’unica cosa che si sa è che questo dipende in massima parte da noi. E allora l’interrogativo brutale: – Cristo ha un futuro? – rimane, ma assume i connotati di una domanda ricca di speranza: in questo luogo di un nuovo inizio, in questa sorta di Ground Zero, «l’Evangelo può apparire come Evangelo, cioè la Parola, appunto, inaugurale, che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’Evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito».
Ecco: un Cristianesimo che riesca a parlare al cuore di ogni uomo, facendogli intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani si esercitino ad essere quelle sentinelle della libertà, della giustizia e della pace che Papa Wojtyla più volte evocò nella sua chiaroveggenza sul futuro del Cristianesimo nel mondo.


Il Grande Problema, quello sul quale tutto si fonda, sul quale la Chiesa intera sta o cade, è la verità del Vangelo, la certezza che Dio non solo ha parlato, ma si è incarnato in Gesù di Nazareth, ed è la convinzione che Cristo continua il suo cammino nella storia. È la nostra fede di cristiani, la fede nella sua pienezza e nella sua ortodossia, nel suo “scandalo” e nella sua “follia”, per usare le parole di Paolo. E proprio questa – paradossalmente e drammaticamente – oggi è la vera sfida non solo per il Cattolicesimo, ma per tutto il Cristianesimo.
Citiamo Vittorio Messori: «Il dubbio ha sempre insidiato i credenti, ma ora l’erosione della certezza della verità del Credo sembra avere raggiunto ogni livello ecclesiale. Se tanti uomini e donne di Chiesa rifiutano di essere testimoni del Sacro per trasformarsi in “operatori sociali”; se ci parlano sempre e solo delle miserie dell’uomo cui porre rimedio e mai delle grandezze di Dio da contemplare; se alla carità hanno sostituito la solidarietà e l’impegno sociale alla preghiera, è perché il Gesù vivo nell’Eucarestia si è ridotto ad un profeta della tradizione ebraica che annunciava pace, solidarietà, dialogo. Il concentrarsi di tanto Cattolicesimo sui problemi del mondo, e solo su quelli, corrisponde all’affievolirsi della credenza nell’Aldilà, della speranza nella vita eterna».
Mentre la fede «evapora in umanesimo, in buonismo, in solidarismo “politicamente corretto”», la Chiesa è sembrata in questi anni priva di sufficienti anticorpi che reagissero. L’apologetica, vale a dire l’esposizione e la difesa delle ragioni della fede, è stata abbandonata, si è mascherato quanto ne rimane sotto il nome di “teologia fondamentale”. Incalza lo scrittore cattolico: «È singolare (e rattristante, per un credente), ma l’insidia maggiore è venuta e viene da certa intellighenzia clericale. Viene da certi esegeti che triturano i Vangeli sino a renderli un coacervo di frammenti di origine incerta e sospetta, dove la sola cosa da prendere sul serio sarebbero le note del biblista; viene da certi storici da seminario che delle vicende della Chiesa danno letture di tale settarismo negativo da rivaleggiare con quelle della storiografia anticlericale ottocentesca; viene da certi teologi che dissolvono i dogmi come fossero ormai indegni di “cattolici adulti”; viene da certi liturgisti, accaniti nel cancellare dai riti tutto ciò che contrasti con il loro illuminismo da intellettuali e sappia di “devozione popolare”».
Ecco, aggiunge Marcello Pera, presidente del Senato: a mandare in catalessi l’Europa è stato questo relativismo, che è il narcotico più potente. Si tratta dell’idea che «le tradizioni, le culture, le civiltà abbiano tutte lo stesso valore e non possano essere giudicate con un metro comune. Ma se si accetta quest’idea, cioè che l’una vale l’altra e ha gli stessi diritti dell’altra, non vi è più verità in alcuna tesi, perché ciascuna si giustifica da sé». Ne discende che, se una cultura o civiltà combatte l’altra, quest’altra non ha i mezzi neppure per reagire perché deve riconoscere che anche la prima ha i suoi buoni argomenti: «Contro quest’idea relativista, che è penetrata anche nella teologia cristiana, Benedetto XVI si è strenuamente battuto, con ragione».
E infatti questo Pontefice, che tanti vorrebbero immaginare al pianoforte mentre suona Mozart, mentre è, sì, al pianoforte, ma a suonare Wagner, (non è forse il Parsifal la pagina più cristiana della letteratura europea?), ha scritto in Senza radici: «L’Occidente non ama più se stesso. L’Europa sembra svuotata dall’interno, come paralizzata». Per di più, la cultura relativistica europea è incoerente, perché mentre predica che tutte le culture hanno la stessa dignità, finisce per attribuire ad alcune più valore di altre, rovesciando spesso le gerarchie tradizionali. Come ha scritto il Papa tedesco: «Nella nostra società attuale, grazie a Dio, viene multato chi disonora la fede di Israele e chi vilipende il Corano. Se invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà d’opinione diventa il bene supremo». Si vuol dire che l’Occidente è migliore dell’Islam? Esattamente, anche perché «l’Islam non ha ancora prodotto società civili, Stati, istituzioni e cultura dei diritti che siano uguali a quelli occidentali e altrettanto desiderabili per milioni di persone».


Fu cristiana l’arte che unificò culturalmente e spiritualmente, il Vecchio Continente. Una selva di chiese e di cattedrali sorse rigogliosa in ogni angolo d’Europa: dopo le catacombali “pietre paleocristiane”, e dopo quelle cristiane venute alla luce del giorno in seguito all’editto costantiniano, lo stile romanico si diffuse con caratteri regionali in Italia, e con più spiccata identità nel Mezzogiorno francese, precedendo il gotico, che oltre che nel nostro Paese conobbe una vasta diffusione nel Centro e nel Nord della Francia, nella Germania (passando poi nell’Europa centro-orientale) e nella Penisola Iberica. Col Rinascimento, e con la ripresa di canoni fondamentalmente classici, le chiese cristiane crearono e diffusero un’altra nobiltà architettonica d’espressione e di forma. Il Sei e il Settecento, col fasto della chiesa cattolica manifestato con lo stile barocco, esaltarono ovunque lo spirito universale dell’architettura sacra. Seguirà l’età moderna, nuove caratteristiche si diffonderanno con essa, toccando spesso i limiti delle risorse tecniche, estetiche ed espressive, che ne definiscono di continuo le varie esigenze materiali e spirituali.
Si propagherà anche così quel concetto fondamentale di “civiltà cattolica”, di cui il diverso prestigio d’arte e di fede di tante nostre chiese e basiliche e cattedrali ha offerto in ogni periodo testimonianze d’incomparabile eloquenza.
Dalle pietre alle tele, alle pale, ai marmi. A conti fatti, ha vinto la Vergine Maria, quella che era stata attaccata brutalmente dalla Riforma, che intendeva spogliarla della gloria che Le spettava. Gli artisti che reagirono, dopo il Concilio tridentino, vollero Maria bellissima nella dolcezza (come Madre del Bambino), nella malinconia (come partecipe del martirio del Figlio), e nell’abbandono alla Volontà che redime (come «Vergine e Madre, figlia del tuo Figlio»). Perciò si rifecero alla testimonianza di Dionigi l’Areopagita, che dopo aver visto la Madonna a Gerusalemme aveva scritto: «Un tale splendore, un così soave profumo emanavano da lei, che il mio corpo e la mia anima non potevano sopportare una tale felicità». Fu l’arte pittorica della Controriforma che esaltò la “Devozione del Rosario”, una catena che unisce la terra al cielo, che precedette le raffigurazioni della Vergine nell’atto di schiacciare la testa del serpente, simbolo della vittoria sull’eresia. Risaliva al XII secolo la prima celebrazione (da parte della Chiesa di Lione) della festa dell’Immacolata Concezione. Ci sarebbero voluti quattro secoli, prima che gli artisti fossero attratti da questo tema (in Italia, primo fu il Domenichino, nel Duomo di Napoli).
Da una all’altra generazione, ai quattro capi del pianeta, ovunque venne piantata la Croce, il genio molteplice, l’immensurabile talento dell’artista ha affidato all’espressione plastica il compito di fornire alla nostra fede il sostegno delle immagini concrete. Diciannove secoli fa, sulle pareti delle catacombe, ignoti fedeli dall’animo pieno di fervore cominciarono ad evocare, sotto specie umana, il Volto Unico, quello del Cristo, e da allora non c’è Paese, secolo o razza che non abbia voluto aggiungere un anello alla misteriosa catena, che vorrebbe porci in contatto con il Cristo che è per eccellenza intangibile. Basta sfogliare le pagine d’un qualunque testo, in cui siano rappresentate tutte le epoche e i generi della figurazione artistica, per rendersi conto fino a qual punto la nostra civiltà occidentale, come ha scritto Daniele Rops, «dipenda dall’ispirazione del Cristianesimo».
Se gli artisti non si fossero trovati davanti a temi del genere, se non esistessero, nel museo immaginario delle nostre opere predilette, né Annunciazioni né Natività né Crocifissioni né Resurrezioni né Ascensioni, e così via, non è che mancherebbe soltanto qualcosa al quadro estetico della nostra civiltà: in realtà, essa non esisterebbe, o sarebbe abissalmente diversa da quella che siamo abituati ad amare.
Meraviglioso è che questa specie di eterna fioritura artistica, che perdura anche nel cuore arido della nostra società contemporanea, non sgorghi da alcuna fonte ben definita. Il Volto dalle mille espressioni, che i capolavori della pittura e della scultura ci offrono, e che, da un popolo all’altro, da un’epoca all’altra, sempre si rinnova, non si basa su alcun ispirato archetipo originario, e neanche su alcuna solida tradizione. La fisionomia del Nazareno ci è ignota, anche se ciascuno di noi la interpreta a modo proprio al cospetto della Sindone o del lino della Veronica. Dobbiamo dunque rassegnarci: storicamente parlando, non sappiamo quale fosse il Volto carnale assunto, per farsi uomo, dal Verbo di Dio: lo hanno confermato i Padri della Chiesa, lo ha ribadito Sant’Agostino. Nei Vangeli, l’unico passo nel quale se ne parla è quello della Trasfigurazione e del suo glorioso messaggio sul Tabor: «Al di là delle sembianze mortali del Figlio dell’Uomo, per i messaggeri del Verbo era il Dio in gloria quello che appariva». E in fondo, questa mancanza di basi storiche è, per i cristiani, mirabile ed esaltante, perché così sanno in modo indiscutibile che ciascuno dei volti, nei lineamenti del quale un grande artista ha voluto evocare il Dio vivente, è opera solo di quel misterioso slancio interiore, nel quale il genio creatore si incontra con un’autentica ispirazione spirituale.


Crisi o rinascita?

La stessa scelta del nome, le sue prime parole, gli incontri e i viaggi programmati sembrano confermare che è il Vecchio Continente ad essere in cima ai pensieri del nuovo Pontefice. D’altra parte, in Europa, nonostante i numeri riguardanti coloro che professano la religione cristiana, palesemente si avverte una crisi religiosa. Ci chiediamo: esiste e si diffonde una contrapposizione tra laicismo e Cristianesimo?
In qualche modo, la risposta l’aveva data l’allora cardinal Ratzinger nella sua ultima conferenza tenuta tra i benedettini di Subiaco un giorno prima della morte di Giovanni Paolo II. Ratzinger aveva affermato che l’Europa aveva sviluppato una cultura che, in modo sconosciuto all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica. E questo avviene perché, secondo la cultura illuminista e laicista, le radici cristiane non possono entrare nella definizione dei fondamenti d’Europa perché sarebbero radici morte, che non fanno parte della sua identità.
Per capire se davvero le radici cristiane dell’Europa sono morte o sono state soffocate dalla cultura illuminista, oppure se ci sono germogli di rinascita, abbiamo ascoltato monsignor Aldo Giordano, segretario generale delle Conferenze Episcopali Europee, e il pastore Luca Negro, responsabile per la comunicazione della Conferenza delle Chiese Europee.

Giordano disegna preliminarmente una mappa dei cattolici in Europa: «Se guardiamo alla Grande Europa, quindi integriamo anche i Paesi che non fanno parte dell’Ue, ci sono circa 560 milioni di cristiani. Dunque, la grande maggioranza è cristiana. Per la metà, esattamente 285 milioni, sono cattolici. Ci sono i grandi Paesi cattolici del Sud Europa, e pensiamo all’Italia e alla Spagna, al Portogallo e alla Croazia e alla piccola Malta, ma anche alla stessa Francia; e ci sono grandi Paesi cattolici al Centro Europa, come la Polonia e la Slovacchia; o Paesi di tradizione cattolica, che però hanno subìto la grande ondata della secolarizzazione, in particolare il Belgio e l’Olanda, ma anche l’Irlanda. Inoltre, ci sono Paesi nei quali i cristiani sono divisi in due confessioni, come la Germania con i cattolici e i luterani, o la Svizzera con i cattolici e i riformati. E altri Paesi ancora, nei quali i cattolici sono in assoluta minoranza, come nelle Scandinavie, dove i cattolici sono lo 0,1 per cento, oppure nella Russia, dove sono lo 0,0-e-qualcosina per cento, al modo della Bulgaria e della Grecia.
Particolare la situazione dell’Est europeo, perché sotto l’ateismo di Stato ovviamente era difficile far vivere anche la realtà della fede, mentre adesso le Chiese si stanno riorganizzando. Invece è in atto un processo inverso nei Paesi del Centro Europa, nel Benelux, nella stessa Svizzera, e in Francia, aree già segnate dalla crisi, dalla critica di una certa cultura, dall’influsso di una certa società, da un certo laicismo e anche da un certo liberismo.
Ma ci sono anche alcune regioni nelle quali il Cattolicesimo si distingue per qualità e per vitalità: quelle in cui si è conservata una tradizione religiosa cattolica, cioè un legame della Chiesa con il popolo, con una presenza della Chiesa a livello culturale e sociale, con uno sforzo costante di valorizzazione di persone preparate».

Negro: «Le radici cristiane dell’Europa sono morte, vive o soffocate? Direi che non sono né morte né soffocate, io le vedo come radici vive. Il problema è di capire quali sono i frutti che portano queste radici. Quindi personalmente tenderei ad insistere più sul cercare di valutare la bontà di quei frutti che in qualità di cristiani possiamo offrire al nostro Continente. Per questo non sono molto d’accordo sul fatto che una certa cultura illuminista porti alla negazione delle radici cristiane dell’Europa, nel senso che ci sono anche delle grosse responsabilità delle Chiese stesse. Credo che la divisione delle Chiese e le loro guerre di religione abbiano sicuramente fatto sì che in qualche modo soprattutto nei Paesi che hanno vissuto fortemente questo genere di conflitti si sia preferito lasciare in un angolo, cioè mettere nel privato la fede. Quando critichiamo il laicismo, dobbiamo anche capire le cause storiche di questo vero e proprio scandalo che hanno vissuto i cristiani, rispetto al modo con cui hanno visto professare la fede.
D’altra parte, non vedo oggi un ruolo del Cristianesimo così negato. È vero che nella discussione sulle radici cristiane e sulla loro menzione nella Costituzione europea le Chiese non l’hanno spuntata. Ma l’hanno spuntata da un altro lato, perché l’articolo 52 di quella Carta costituzionale riconosce esplicitamente il ruolo delle Chiese e prevede che l’Ue mantenga un dialogo regolare e trasparente con esse. Questa, secondo me, è una grande vittoria, che non è stata sottolineata a sufficienza. Per me è più importante del fatto che nel Preambolo non siano citate le radici cristiane. Dio non deve entrare nella vita pubblica: e ciò determina una crisi di identità dei cristiani? Non è che io sia eccessivamente ottimista, ma diciamo che come protestante non mi preoccupo tanto del ruolo di Dio nella vita pubblica, mentre mi preoccupo molto delle responsabilità che abbiamo in quanto cristiani nella vita pubblica, e mi preoccupo della testimonianza che come cristiani possiamo dare. Ed è vero che su molti temi abbiamo difficoltà a dare una testimonianza, ma è pure vero che su molte tematiche forse abbiamo anche posizioni diverse. Ad esempio, su alcune importanti questioni etiche le Chiese sono divise al loro interno e fra di loro».

Ma quali sono i Paesi nei quali maggiore è la crisi dei cattolici? Da un capo all’altro dell’Europa giungono segnali d’allarme; persino nella “cattolicissima” Spagna i rapporti tra Stato e Chiesa sono tesi.

Giordano: «Quello spagnolo è un caso un po’ particolare, perché si tratta di un Paese nel quale c’è una tradizione cattolica, probabilmente una tradizione che non ha avuto la possibilità di maturare rispetto ai nuovi problemi, ed è rimasta chiusa nel proprio mondo e nella propria storia, mentre aveva davanti la presenza di una società democratica, una società laica che ha trovato la Spagna un poco impreparata. Ciò vale anche per l’Occidente, come per l’Est europeo: l’uno e l’altro si sono trovati all’improvviso di fronte a questa sfida. Crollato il Muro di Berlino, bisogna posizionarsi dentro una cultura che tende fondamentalmente ancora a privatizzare la religione. In qualche Paese dell’Est non si è ancora arrivati ad avere un’intesa, ad esempio, tra Stato e Chiesa. Pensiamo alla Cechia, o, più vicina a noi, alla Slovenia. Dove poi c’è una tradizione di scarso rapporto tra Stato e Chiesa, come in Germania e in Francia, succede che si creino delle incrinature a causa di certi cambiamenti di leggi, anche con conseguenze riguardo alle finanze della Chiesa; e, per il caso della Francia, dove c’è una laicità che la Chiesa francese non interpreta come una condizione di per sé negativa, di fronte a nuovi problemi, (come il dibattito sul velo o sui musulmani, ecc.), si è visto che questo modello di laicità non sembra essere più all’altezza dei tempi.
E a proposito della crescente presenza musulmana in Europa: questa ha creato la domanda sull’identità. Al cospetto di un’altra religione, di un’altra cultura, ci si chiede a voce sempre più alta: – Chi siamo noi? –. E che dire poi dei Paesi del Nord e dei loro dissensi col Vaticano? Forse questi dissensi sono appartenuti ad una certa generazione, quella degli anni Settanta e Ottanta, quando prevalevano certi elementi, più ideologici, più critici, che sentono l’urgenza di sottolineare gli aspetti più democratici della Chiesa, gli aspetti più caratterizzati dell’autonomia. Anche sul sacerdozio femminile e sul celibato si discute ancora, ma ai dibattiti prendono parte ormai solo persone da sessanta anni in su, non essendo questi i problemi che fanno decidere se appartenere o meno alla Chiesa. I giovani oggi sono più legati a domande di fondo, cercano dove c’è una sorgente di senso».

Negro: «A me risulta che in Paesi come la Germania non sia una questione di generazioni. Inchieste e statistiche dicono che un bel po’ di cattolici sono favorevoli al sacerdozio femminile, anche perché in qualche modo sono stati abituati per decenni, per esempio, al fatto che la donna possa anche predicare in molte situazioni che vedono la presenza di pochi preti. E quindi la Chiesa cattolica avrebbe avuto grosse difficoltà se non ci fosse stato questo contributo delle donne anche alla predicazione e alla presidenza di celebrazioni liturgiche.

Ma quali sono le frontiere di maggiore allarme per il mondo protestante? Monsignor Giordano citava alcuni Paesi in cui si vive una forte secolarizzazione. Più o meno, dal punto di vista del Protestantesimo, sono gli stessi, dall’Olanda alla Svizzera, alla stessa Germania, dove le chiese sono abbastanza vuote. Poi ci sono alcuni Paesi dell’ex blocco dell’Est, come la Cechia. Quindi, grosso modo, il problema della secolarizzazione è presente ovunque.

Un tema che mi piace menzionare è la sfida, per noi protestanti specificamente, della nostra difficoltà di parlare ai giovani, in particolare nella liturgia, nel culto. Ecco: forse il culto protestante risponde meno del culto cattolico ai nuovi linguaggi cui sono abituate le giovani generazioni. Il nostro culto è incentrato su lunghe predicazioni e ci sono pochi gesti, si è molto intellettuali, razionali, sicché credo che dobbiamo lavorare molto per fare invece in modo che il nostro culto parli anche ai giovani, che oggi sono abituati ad essere molto interattivi, dunque rifiutano di star fermi per un’ora ad ascoltare qualcuno che parla.

Il mondo anglicano sembra essere nella crisi più profonda. Le chiese anglicane sono semivuote di fedeli. È un problema di secolarizzazione complessivo della società britannica, che ha perso molto un’identità cristiana con una politica di accoglienza positiva di milioni di immigrati. Il rispetto per culture, religioni, tradizioni diverse ha stemperato la presenza cristiana. Due esempi: le processioni del Venerdì Santo non esistono, dunque non si manifesta apertamente e pubblicamente una fede; negli ultimi anni sono scomparsi gli auguri con le cartoline postali natalizie, che non vengono più inviate neanche dalle grandi società, dalle grandi agenzie, e ci si giustifica dicendo che pare brutto nei confronti delle altre religioni. L’ultimo censimento con la domanda a quale religione si appartenesse, e con risposta volontaria, è stato fatto nel 2001, e il 71 per cento degli inglesi ha affermato di identificarsi nella confessione cristiana: dovrebbero essere circa 40 milioni di persone; ma sappiamo che, ad esempio, la partecipazione alla Messa la domenica è scarsa, al punto che già un anno fa si è registrato il sorpasso della presenza nelle moschee rispetto a quella nelle chiese. Se pensiamo che i musulmani in Gran Bretagna sono poco più di due milioni, si capisce come la partecipazione alla Messa sia molto bassa, tanto che a Manchester l’anno scorso la diocesi anglicana ha organizzato un programma in cui davano anche un biglietto con le preghiere della settimana, e, insieme, una barretta di cioccolato, per ringraziare i fedeli presenti. Ridicolo! Ma, di più, sconsolante».

La crisi evidente nel Regno Unito attraversa le confessioni evangeliche e luterane del Nord Europa. Invece i valdesi sono in buona ripresa. Come si spiega questo fenomeno?

Negro: «Direi che essere una chiesa di minoranza in un certo senso facilita le cose, perché si ha una maggiore coscienza dell’identità. Sulla crisi delle Chiese scandinave, avendo visitato per motivi di lavoro le Scandinavie molte volte, avrei dei dubbi, nel senso che laddove le Chiese sanno muoversi, sanno trasformare la liturgia, rendendola più “attraente” per i giovani, sono seguite, e gli edifici sacri non sono poi così vuoti».

C’è un risveglio di fede in qualche parte d’Europa? Emergono segnali di vitalità della Chiesa cattolica nel Vecchio Continente?

Giordano: «In Europa c’è un dato di fondo che si rimette in ricerca, sono anche gli schiaffi della Storia, dall’11 settembre allo tsunami, o anche con la recente morte del Papa: sono eventi che hanno fatto rinascere esplicitamente la domanda di spiritualità. Una domanda che coinvolge soprattutto le giovani generazioni, che ci riserveranno sicuramente delle sorprese, perché da una parte sembrano indifferenti, ma dall’altra stanno cercando, nel senso che si interrogano e interrogano. Si pensi a Paesi laici, proprio come la Francia, dove l’esperienza del catecumenato sta aumentando a vista d’occhio. Si pensi anche a realtà ecclesiali nuove, come i movimenti, le associazioni, le comunità, che sono un lievito formidabile.

Altro elemento di rinascita cattolica: la crescita della comunione nella Chiesa. Io lavoro nel Consiglio delle Conferenze Episcopali in Europa, un organismo che lega le attuali 34 Conferenze. Dieci anni fa c’era un muro di incomprensione tra l’Est e l’Ovest europei. Adesso non è più così, siamo veramente un’unica famiglia; abbiamo alcuni problemi diversi, ma siamo davvero un’unica Chiesa cattolica. Si tenga conto che la società chiede sempre più alla Chiesa una posizione autorevole sulle questioni etiche. E la Chiesa cattolica è ascoltata su questi temi, perché c’è la percezione che le problematiche che abbiamo (pensiamo al campo della vita legato alla biotecnologia) sono enormi, e richiedono un punto di riferimento. Io vedo anche in certi Paesi, come in Inghilterra, che la Chiesa cattolica, sebbene minoritaria rispetto a quella anglicana, su questi temi è molto ascoltata dall’opinione pubblica. Nell’Est europeo siamo usciti da una situazione in cui la Chiesa era costretta alla clandestinità, e cominciamo a vedere una generazione che pian piano si forma per essere presente nella società, per essere presente nel pubblico, per essere presente nel mondo della cultura. Anche qui è stato interessante vedere la collaborazione che esiste fra i Paesi occidentali e quelli orientali: le Chiese dell’Occidente, con le loro ricchezze, con i loro mezzi, hanno aiutato le Chiese dell’Est, continuano ad aiutarle, e nello stesso tempo hanno accolto molti doni: pensiamo alle tradizioni spirituali, alle tradizioni liturgiche, alle tradizioni simboliche dell’Est europeo».

E nel mondo protestante?

Negro: «È difficile dire piuttosto qui o piuttosto là. Io vedo un risveglio là dove le Chiese sono impegnate nel movimento ecumenico, cioè là dove non pensano a crescere da sole, ma piuttosto a come insieme si possa evangelizzare questo nostro Continente, che effettivamente è un poco scristianizzato. Beh, sotto questo profilo credo che ci siano molte esperienze belle di missione ecumenica, di Chiese che camminano insieme e insieme cercano di parlare agli uomini e alle donne dell’Europa contemporanea».

Il mondo ortodosso sembra vivere un periodo di rinascita, come fosse sbocciato alla luce dopo l’oscurità imposta dall’ideologia marxista. Per esperienza diretta, abbiamo verificato che è vero che le chiese ortodosse sono stracolme, soprattutto durante le feste tradizionali, come Natale, o Pasqua, o negli altri grandi appuntamenti della liturgia. Per il resto, è possibile notare le stesse scene che vediamo nelle chiese cattoliche o protestanti europee. Alcuni dati, per testimoniare in qualche modo questo rinascimento della religione pur tra mille contraddizioni, e nel vortice di una società russa sempre più materialista. Dunque: il 75 per cento dei russi è ritornato alla fede nel 1988, anno in cui Gorbaciov rese libera la pratica religiosa. Oggi, i battezzati sono più di 40 milioni, su oltre 140 milioni di russi, e lo stesso Putin racconta di aver ricevuto il battesimo in segreto per merito della sua religiosissima nonna materna.
Poi c’è la ricostruzione, la ristrutturazione del patrimonio delle chiese, perduto nei decenni del comunismo staliniano. Nell’88, data di riferimento, le chiese rimaste erano cinquemila, mentre oggi sono trentamila, e i monasteri, elementi molto importanti per l’ortodossia, erano dieci, mentre ora sono più di trecento. Il problema del finanziamento di chiese e conventi era stato dibattuto già ai tempi di Eltsin e aveva suscitato qualche polemica, perché ambienti della gerarchia religiosa erano stati sfiorati da scandali finanziari legati ad alcuni benefìci e a commerci agevolati affidati al Patriarcato. Adesso il mondo ortodosso si finanzia innanzitutto con pochi contributi dello Stato che vengono iscritti nella voce “Conservazione dei beni e del patrimonio culturale”, poi con l’immenso mercato del sacro, oltre che con l’intenso sviluppo turistico nelle chiese e nei monasteri che circondano Mosca, con il cosiddetto “Anello d’Oro”. Pochi i contributi dei fedeli, in gran parte povera gente.
Ma c’è nel Vecchio Continente un futuro per il Cristianesimo?

Negro: «Io sono convinto che ci sia, e come elemento positivo vorrei citare un processo che è stato appena avviato da noi come Conferenza delle Chiese Europee, insieme al Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee: stiamo mettendoci in via per la Terza Assemblea Ecumenica continentale, che si svolgerà a Sibiu, in Romania, nel 2007, sul tema “La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e di unità in Europa”. Sarà un’assemblea nel corso della quale cercheremo proprio di riflettere sulle nostre responsabilità, per dare dei valori a quest’Europa. Rivitalizzazione delle radici cristiane in Europa: può essere implementata dall’attività di un Benedetto XVI che ha uno sguardo molto attento all’Europa? Ecco, questa è la nostra speranza, anche perché questo Pontefice è non solo un grande teologo, ma anche un profondo conoscitore del mondo protestante. Di conseguenza, da questo punto di vista, si hanno delle aspettative senz’altro positive».

I nuovi martiri

È nel nome di Cristo che ancora oggi, mentre 15-20 milioni di musulmani sono stati definiti «la più massiccia quinta colonna presente in Europa», i cristiani sono perseguitati da chi teme, o addirittura disprezza la Croce. L’icona del San Sebastiano trafitto, dipinto da Andrea Mantegna, è il drammatico emblema di 40 milioni di vittime della persecuzione contro la Chiesa nel XX secolo: ancora adesso 160 mila persone all’anno sono uccise a causa della loro fede cristiana, e malgrado questo continuo massacro intellettuali, media, università, politici vilmente tacciono.

Di fronte ai “nuovi perseguitati”, poche voci. Quella di Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere, in un momento in cui la nostra cultura aggrediva le altre culture, di cui perciò mi sono fatto testimone e difensore. Adesso ho l’impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia sulla difensiva di fronte alla minaccia islamica. Di colpo, mi sento etnologicamente e fermamente difensore della mia cultura».
Poi, quella di Galli della Loggia, per il quale davvero il Novecento appare «il secolo del martirio». Com’è potuto, e può ancora oggi accadere che di fronte al gran fiume di sangue cristiano la nostra cultura abbia così scarsa memoria e consapevolezza? Risponde Galli della Loggia: «Nell’emisfero settentrionale del pianeta – se si prescinde dall’anticlericalismo massonico che celebrò i suoi fasti liberticidi nel Messico – è soprattutto al fenomeno totalitario che va attribuita la massima responsabilità delle persecuzioni anticristiane. Il materialismo biologico del nazionalsocialismo e il materialismo storico del marxismo (portato al parossismo nella versione bolscevico-leninista) hanno rappresentato i due più massicci attacchi teorici che storicamente siano stati mai portati a qualunque prospettiva fondata sulla trascendenza, in particolare a quella cristiana. Radicalmente ateistici per la loro scaturigine dottrinale, nazismo e comunismo sovietico hanno poi sviluppato tale scaturigine in due costruzioni socio-politiche impregnate di un’oppressione statolatrica avvezza a non arretrare di fronte a qualsivoglia violenza».
Discorso diverso per l’emisfero meridionale. Nel sud del mondo, i fattori decisivi sembrano essere stati due: «Il primo e più importante, l’affermazione, sulle ceneri del colonialismo, di un gran numero di statualità indipendenti governate da élite, le quali non solo avevano in genere uno sfondo culturale estraneo a quello cristiano, ma verso tale sfondo […] nutrivano quasi sempre una comprensibile ostilità. Sicché in molti casi si è rivelata, e tuttora si rivela troppo forte per queste élite la tentazione di procurarsi il consenso loro necessario rimestando il fondo limaccioso dell’intolleranza verso la religione dei passati dominatori».

Altro fattore non trascurabile: «Il venir meno del ruolo protettivo nei confronti del Cristianesimo e dei cristiani in genere al quale le Potenze europee – dalla Russia alla Francia – si sentivano un tempo obbligate in forza della loro storia: dell’essere cioè degli Stati cristiani, vale a dire fondati su un nesso identitario decisivo tra religione e dimensione pubblica […]. Di questo attacco, sviluppatosi più o meno silenziosamente nel tempo, ci siamo accorti solo dopo il terribile scoppio dell’11 settembre. Solo dopo quella data ci siamo accorti […] che il Cristianesimo è stato, è, tra le principali vittime dello scontro, e dunque, forse con sorpresa di molti, abbiamo scoperto ancora una volta che quando la storia addensa le sue tempeste e ci interpella sulle questioni ultime, allora la nostra risposta, la verità che decide di cosa siamo, non può che essere nel segno di quella Croce sulla quale, duemila anni fa, fu inchiodato un ebreo che diceva di essere figlio del Dio di Abramo».

Legislazioni restrittive in Francia. Approvate nel 2001 misure drastiche nei confronti di alcune comunità religiose, fra cui Sant’Egidio e l’Opus Dei. In Russia il visto d’ingresso è vietato ai missionari. I partiti social-comunisti al potere in alcuni Stati impediscono il libero esercizio del culto. La Corea del Nord giustizia i cristiani. Il Vietnam perseguita i “montagnard” cristiani. In Cina 90 milioni di cristiani vivono sotto l’incubo della repressione religiosa. Ultime notizie risalenti al 2002: scomparsi 33 tra vescovi e preti. Paesi in cui prevalgono le discriminazioni fondate sulla legge islamica: in Sudan (soprattutto nella regione del Darfur) negli ultimi vent’anni sono stati uccisi due milioni di cristiani; in Arabia Saudita è vietato celebrare messe e costruire chiese; persecuzioni sono all’ordine del giorno nell’arcipelago indonesiano (particolarmente nelle Molucche) e nelle Filippine; migliaia di morti in Nigeria e in Kenya a causa di conflitti tra musulmani e cristiani; missionari uccisi nella Repubblica democratica del Congo. Aree induista/buddista: persecuzioni buddiste nel Nepal e nello Sri Lanka dove, dal 2001, sono in corso attacchi armati contro chiese cattoliche e protestanti; persecuzioni induiste contro i missionari in India.
Silenzi tombali di progressisti, terzomondisti e affini delle nostre latitudini.
E intanto il Capo del “Grande Satana”, il Presidente americano, rappresenta in pubblico la sua fede cristiana, prega e nomina Dio nei grandi discorsi strategici, sebbene l’America, a differenza dell’Europa, non sia Paese di Concordati, ma Paese in cui il muro di separazione tra religione e politica è alto e robusto. Però agli americani, dice Giuliano Ferrara, dalla Casa Bianca al piccolo ranch del Midwest, dalla comunità protestante conservatrice della East Coast agli evangelici e ai rinati cristiani del Sud e dell’Ovest, da sempre interessa la libertà di credere, la libertà della religione come concetto opposto alla libertà laicista dalla religione.

E non si tratta di una forma di devozionalismo subalterno ai ministri del culto, né di un’ideologia bigotta: in America, «per ragioni profonde, legate all’identità del Nuovo Mondo, si è sempre fatto così». Fu nel nome della fede cristiana che fu vinta la più grande delle guerre culturali dell’Ottocento, l’emancipazione dei neri dalla schiavitù.
L’abbandono del Medioevo (che l’Illuminismo semmai completò, ma non poté cancellare) ha portato la politica europea a negare ogni riferimento alle radici cristiane, come invece insistentemente chiedeva Wojtyla, insieme con una minoranza di laici. I francesi e gli altri (quelli presi a schiaffoni dal voto negativo sulla farraginosa Costituzione varata) hanno preferito dare spazio ai Concordati, ma hanno lasciato fuori l’Europa cristiana come eredità culturale, come sedimento di spiritualità stratificatosi nel tempo accanto ad altri affluenti del modo di essere europei.
Dice ancora Ferrara: «Sospetto […] che questo respinto dagli elettori sia il vecchio volto europeo, e che un nuovo pensiero, non già oscurantista bensì più libero e laico nel senso profondo del termine, si stia facendo largo».

Cristo, dunque, va oltre. Non si ferma al XXI secolo.

 

   
   
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