Settembre 2005

Miti musicali

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“Bella ciao”?
Una filastrocca nata nel Sud
Sergio Bello
 
 

 

 

 

La canzone
popolare è molte volte, quasi
per una sua
legge interna,
una musica che viene da lontano e,
nello stesso tempo, una canzone
riciclata.

 

«“Bella ciao” una canzone della Resistenza? Se sapessero che in origine faceva: – E la mia nonna / la vecchiarella / la me manda / alla fontanella... –. Altro che canto dei partigiani! Sono stati i comunisti italiani invitati al Festival della gioventù di Berlino nel 1948 a cambiare le parole a quella canzoncina per bambini e ad intonarla per la prima volta in pubblico».
Bepi De Marzi non è certamente un “revisionista”, e ne parla senza acrimonia ideologica. Fra l’altro, è capitato anche a lui di vedere la sua composizione più nota, “Signore delle cime”, stampato e datato come una creazione originale nientemeno che della Grande Guerra. «Invece la guerra non dà canti, non ha mai dato canti. Quelli sono stati scritti in seguito, come avevano già capito la Bibbia e Salvatore Quasimodo: – E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze...–».
Pochissime cose, come le canzoni, sembrano dimostrare l’eterogenesi dei fini nella storia. E De Marzi – che dopo una vita da professionista tra i Solisti Veneti e oltre 150 composizioni corali di musica popolare continua a definirsi «un organista di campagna» – ne ha dato saggio in una recente straordinaria lezione alla Cattolica milanese: «Dirò di più: “Bella ciao” è scritta in minore, il che è un marchio di fabbrica inesorabile per dire che viene da sotto la Toscana. Dunque, non solo la musica dell’inno della Resistenza era in origine una filastrocca per bambini, ma non era neppure un canto dell’Italia settentrionale».
D’altra parte, bisogna accettare serenamente queste rivelazioni. “Venti giorni sull’Ortigara”, ad esempio, era il canto dei minatori che scavavano la galleria del Fréjus nel tardo Ottocento, e il celeberrimo “Ta-pum” altro non era che l’annuncio dello scoppio di una mina. E ancora: il famosissimo “Testamento del capitano” era piuttosto un “Testamento del maresciallo”, nonché – scrisse Piero Jahier, che lo raccolse per primo – «adattabile persino ad un marinaio». E possiamo finire con la Divisione Monte Rosa della Repubblica Sociale: qualcuno le ha scritto un inno apposito (“All’8 di settembre / l’Italia si sfasciò...”), ma si trattava di una cosa terrificante; così, quando ancora adesso i reduci si ritrovano, preferiscono cantare “Sul ponte di Perati” (che a sua volta è derivato da “Sul ponte di Bassano”), e si commuovono, anche se Perati è in Albania, e loro sicuramente non ci sono mai stati.

D’altronde, le ragioni del popolo sono sempre più vicine a quelle del cuore, piuttosto che a quelle della ragione. E se ancora non c’era “Bella ciao”, che cosa cantavano allora i partigiani? «Le canzoni fasciste, con le parole cambiate o storpiate». Insomma, sui canti popolari non bisogna affondare troppo il bisturi, perché il filologo è la disperazione della storia e alla fine per la gente l’importante è arrivare a un racconto cantato. «Fosse anche un rap, fossero anche i Beatles in un rifugio d’alta quota [...]: – Non si canta questa roba in montagna –, quante volte l’ho sentito dire. E perché? Anche dai testi di Bedeschi (quello, per intenderci, di Centomila gavette di ghiaccio) o dello splendido Rigoni Stern potrebbe venire un ottimo rap; anche dal Rosario in latino [...]. Non è una cosa dissacrante. Del resto, una volta la gente cantava i canti di montagna allo stesso modo di quelli di devozione, con i respiri sospesi in mezzo alle navate, con lo stesso abbandono».
E oggi? Oggi «c’è un sentire orgasmatico, ansiogeno, senza più respiri; abbiamo perso le virgole messe al posto giusto; basta sentire le pause sbagliate dei telegiornalisti. Una volta Rigoni Stern mi diede un testo sull’Ortigara, voleva che lo musicassi; una trentina di versi zeppi di scoppi e di cannoni: incantabile. Allora mi rifece il testo, con l’immagine di una pernice che si posava, e allora è nato “Volano le bianche”. La musica popolare ha sempre bisogno di una cantabilità. Beethoven stesso l’ha sempre inseguita, senza mai trovarla, perché era incalzato dalla sua creatività».
D’altra parte, come si potrebbe cantare il dolore degli alpini morti, sull’Ortigara o a Nikolajewka, se non trasfigurandolo? E poi, non è che cantino molto, gli alpini: «Ecco un altro mito: il canto di montagna non esiste; la montagna viene intonata dalla pianura e dalla città (a Milano, ad esempio, ci sono stati fino a 27 “cori alpini”). Nei masi e nelle baite, infatti, non si canta ma si suona, in modo particolare i fiati: quella è la vera melodia della montagna. Invece è successo che Vittorio Gui, il miglior direttore d’orchestra tra le due guerre, nonché ufficiale del Genio, avesse armonizzato le melodie popolari, e i fratelli Pedrotti di Trento a partire dal 1926 abbiano diffuso quel repertorio, perché l’escursionismo degli anni Trenta e i 78 giri della Odeon “inventassero” un genere, divulgandolo in tutta Italia».
Ultime chicche: «Non si dica dunque che quello è il canto della montagna; in montagna non si sente mai cantare così [...]. E infatti c’è voluto un emiliano (ed ex repubblichino) come l’amico Carlo Geminiani per scrivere canzoni di guerra e di montagna così “ortodosse” e popolari da diventare dei classici: vedi “Joska la Rossa”. Il canto di montagna è un desiderio (non sempre appagato) dei nostri cori. Persino “Signore delle cime”, del resto, in origine era la canzone di un innamorato veneto (io stesso) deluso dalla fidanzata che non l’aveva aspettato al ritorno dal militare. Faceva così: – Gh’aveva una ragassa... –. Ed è diventato il più sacro, il più puro inno della montagna».
La canzone popolare è molte volte, quasi per una sua legge interna, una musica che viene da lontano e, nello stesso tempo, una canzone riciclata; e il luogo di concentrazione, di rielaborazione di questi motivi multiuso è la vita militare: parola dello storico Mario Isnenghi, che dedica proprio a “Il canto” un capitolo del recente Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945. E via con una serie di esempi, da “Addio, mia bella addio” (anno di nascita 1848, altro che Grande Guerra...) alla “Leggenda del Piave” – che fu scritta soltanto alla fine del primo conflitto mondiale, nell’agosto 1918, e venne lanciata come inno della Grande Guerra solo con le celebrazioni per il Milite Ignoto nel 1921 –, fino a “Giovinezza”, passata da canto goliardico di commiato dalla vita universitaria (anno 1909) ad inno trionfale e ufficiale del Fascismo. Alla sua storia e alle sue varie versioni è dedicato più specificamente un corposo volume di Giacomo De Marzi, I canti del Fascismo: e anche qui il “riciclaggio” e in alcuni casi la parodia imperano.
Curiosa invece la storia della celebre “Faccetta nera”: pur cantata a squarciagola dalle Camicie nere che nel 1935 andavano a conquistare un impero in Etiopia, in seguito venne censurata dal regime per motivi “razziali” (e ne venne limitata la trasmissione per radio), in quanto promuoveva un’eccessiva ed equivoca mescolanza con la “bell’abissina”. E si arrivò a costruirne un controcanto con la parallela “Faccetta bianca”...
Ma questo della canzone è terreno molto fecondo per gli storici contemporanei (un altro è Cesare Bermani, con il suo Guerra guerra ai palazzi e alle chiese. Saggi sul canto sociale), mentre Stefano Pivato ha recentemente pubblicato un saggio su Canto e politica nella storia d’Italia, intitolato appunto Bella ciao. Vi si comincia dall’ “Inno a Garibaldi” del 1859 (“Si scopron le tombe, si levano i morti...”) e dalla coetanea “La bella Gigogin”, e si giunge all’inno di Forza Italia. Passando, non a caso, di nuovo da “Bella ciao”: questa volta, però, diventata inno dei no-global. E forse il ciclo dei “riusi” è ancora ben lontano dal chiudersi.

 

   
   
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