Marzo 2006

Il rebus antimusicale che affascinò Verdi

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La scala enigmatica
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

Come tutte le scale definite “enigmatiche”,
è costituita da suoni, ciascuno
dei quali è
decodificabile
secondo criteri
cifrati,
enigmistici.

 

Sempre più di frequente abbiamo occasione di meravigliarci (e di essere infastiditi) per le prese di posizioni britanniche contro tutto ciò che riguarda l’Italia. I continui attacchi inglesi ai governi italiani, ad esempio, sono sistematicamente condotti da alcuni quotidiani londinesi, in parallelo con altri giornali americani. Insieme con quelli francesi, i magazines del Regno Unito non cessano di criticare la nostra economia, i nostri sforzi europeisti, le nostre aperture mediterranee.
Niente di nuovo sotto il sole, in realtà. Qualcuno ricorda le “invenzioni negate”, o – come vennero anche definite – le “invenzioni rubate” agli italiani in un passato poi non tanto remoto? Ci si ricorda di Meucci e della rapina di Bell a proposito di telefonia; o, più ancora, dell’ingegnere Felice Matteucci e del padre scolopio Eugenio Barsanti, che soltanto dopo un secolo e mezzo sono stati riconosciuti i veri inventori del motore a scoppio (il modello del motore da loro ideato era stato depositato presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze nel lontano 5 giugno 1853), dopo che francesi e tedeschi – con un evidente plagio – avevano attribuito la primogenitura a se stessi?
Càpita nelle migliori famiglie continentali! Sicché possiamo anche dimenticare le frasi sgradevoli udite in passato a proposito di un altro italiano, genio in campo musicale, che si cercò di colpire con critiche di fattura datata, nutrita – scrive Quirino Principe – dell’enfasi che rende presto obsoleti i giudizi. Si tratta di quel che scrisse William Howard Glover. Autorevole e temuto columnist del Morning Post, costui sosteneva, dopo la prima rappresentazione del “Trovatore” nella capitale britannica: «Gli italiani proclamano Verdi la speranza d’Italia; noi lo chiameremo invece la “disperazione d’Italia”. Nel “Trovatore”, come in tutte le opere di questo maestro, noi non troviamo né fantasia, né originalità; non canto, non effetto drammatico, non dottrina. Fracasso inutile, luoghi comuni, idee triviali, canti antipopolari, effetti convenzionali. Insomma, ad onta dei suoi ripetuti successi, noi teniamo per fermo che l’autore di “Ernani”, di “Rigoletto” e del “Trovatore” non fu, non è, e non sarà mai un buon compositore di musica».

Amenità eccelse, è ovvio; ma registrabili quali anelli di una lunga catena italofoba che in terra britannica fece udire spesso la sua farragine, nei democratici raduni della musicografia (G.B. Shaw) e nei dibattiti elitari della musicologia (Edward Dent), così come nei salotti buoni della storiografia (A.J. Taylor).
Per quale ragione riesumiamo questi vecchi proclami anglocentrici, dei quali oggi il gallese Julian Budden, inesausto studioso verdiano, preferirebbe non udire neppure l’eco? Li troviamo rievocati in uno scritto di Luciano Chailly, il compositore lasciato troppo in ombra, nato a Ferrara, milanese d’elezione come il suo maggiore partner e ispiratore, il bellunese Dino Buzzati. Scrive Principe: «Forse non sono necessari intelligenza coltivata e gusto affinato, per amare le sonate tritematiche e le opere teatrali su testo e soggetto di Buzzati o di Cechov o di Dostoevskij; forse basta la disposizione a lasciarsi affascinare, e la musica di Luciano Chailly, mai invecchiata, ha il potere di sedurre. Conosciamo Chailly memorialista [...] e non soltanto, e la sua capacità di incatenare chi legge».
Verdi e la scala enigmatica, testo del compositore rimasto inedito fino a qualche mese fa, quando è stato reso noto da Principe, consta di nove cartelle dattiloscritte (con una vecchia macchina). «In principio, è un discorso disorganico, uno zibaldone: poi affronta un argomento tecnico, molto attraente, e da quel momento parte verso un livello analitico alto e limpido, ricco di esempi musicali in facsimile, e assolutamente organico, il che forma uno strano contrasto tra l’inizio e la conclusione».
Ma qual è questo argomento? Premettiamo che, non per nulla musicista di Buzzati, Chailly incluse nel proprio stile elementi «misteriosi, tenebrosi e demoniaci», del tutto opposti all’«angelicità soavemente malinconica» del musicista appulo-milanese Nino Rota.
La “scala enigmatica” venne ideata nel 1889 dal compositore bolognese Adolfo Crescentini. È questa: Do, Rebemolle, Mi, Fa diesis, Sol diesis, La diesis, Si, Do. Come tutte le scale definite “enigmatiche”, è costituita da suoni, ciascuno dei quali è decodificabile secondo criteri cifrati, enigmistici. Crescentini la armonizzò. Lo stesso fece Verdi, ma in maniera del tutto differente: la sua scala fu l’ossatura di una preziosa pagina, l’“Ave Maria”, che successivamente divenne il primo dei “Quattro Pezzi Sacri”.
Sostiene Principe che leggere l’analisi di Chailly è più interessante del “Sudoku”, «gioco estivo per vecchietti imberbi in overdose di genialità einsteiniana». Ma fino ad un certo punto: nelle ultime pagine del dattiloscritto, il discorso si fa piuttosto difficile e specialistico. C’è una «conclusione azzardata». E se le nove cartelle di Chailly fossero «lette mediante una griglia da Intelligence Service» e rivelassero che il compositore ferrarese, dall’empireo dove certo alloggia insieme con Buzzati, intendeva svelarci in anticipo gli enigmi tenebrosissimi di quel teatro milanese di cui egli, fra l’altro, fu direttore artistico dal 1968 al 1972? [...] Chi vuole cimentarsi nella codificazione? Ne vedremo delle belle!».
Ecco un lungo stralcio del testo di Chailly:

La scala fu subito armonizzata [...] da alcuni compositori dell’epoca, tra cui lo stesso Crescentini, poi da Giuseppe Cerquetelli, Vittorio Norsa, Aldo Forlì, Ottorino Varsi, il quale, armonizzando la scala in stile contrappuntistico, ha in un certo senso aperto la strada all’intervento storico di Verdi. L’interesse di Verdi per la scala enigmatica si manifestò soltanto più avanti [...]. Ma tornando all’inizio della travagliata vicenda dirò che quando questa scala – che fu definita “scala-rebus”, “scala scorbutica”, “scala refrattaria”, “scala di suoni discordanti” – attirò l’attenzione di Verdi (che l’avrebbe poi a sua volta chiamata “sgraziata scala”, “scala sconquassata”, “sgangherata scala”), egli scrisse a Boito (che era amante, come si sa, di rompicapi di tipo fiammingo) dicendogli che aveva intenzione di comporre su quella strana scala un’altra “Ave Maria”, «la quarta», così sarebbe stato, «dopo la morte, beatificato». «Molte Ave Maria ci vogliono – gli rispose scherzosamente Boito – perché Lei possa farsi perdonare da S.S. il “Credo” dell’Otello».
Da quel momento, (la lettera di Verdi a Boito era del 6 marzo 1889), passò un lungo silenzio, interrotto da brevi accenni al “basso sgangherato” nell’epistolario, fino cioè a quando, ben sei anni dopo, il 28 giugno 1895, l’“Ave Maria” (naturalmente nella prima stesura) venne eseguita in forma privata, «con pochi cantori e dinnanzi a un ristretto numero di cultori dell’arte» al Conservatorio di Parma, sotto la guida di Giuseppe Gallignani [...]. Verdi aveva dato ovviamente la sua autorizzazione, ma non volle essere presente. Non solo. Pochi giorni dopo l’esecuzione a seguito degli articoli di meraviglia, di lode e di entusiasmo usciti sulla Gazzetta di Parma (“Verdi è gigante anche quando gioca”) e sulla Gazzetta di Milano a firma di Michele Caputo (“Molto avranno ad apprendervi gli studiosi quando il lavoro sarà pubblicato”), Giulio Ricordi si rivolse immediatamente al Maestro proponendogli di pubblicare il suo lavoro corale «di tanto interesse artistico», e la risposta di Verdi fu la seguente: «Non vale la pena di parlarne. È stato uno scherzo ed è quasi un puro esercizio scolastico».

   
   
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