Dicembre 2006

Un altro mondo

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La lunga marcia
dei cinesi in Siberia
Eraldo Monti  
 
 

 

 

 

 

 

L’emigrazione russa diviene
inevitabile, come
inevitabile diviene spalancare
voragini
all’espansione
economica cinese.

 

A Vladivostok i nordcoreani vivono dal quinto piano in su, in palazzi popolari che destinano i primi livelli ai russi. Lì, stipati come polli d’allevamento, mangiano, dormono, studiano il pensiero del dittatore che ha consentito loro una vita infame in patria e una peggiore fra i boschi al confine, sul fiume Amur, dove i taglialegna guadagnano più che in patria, ma devono versare al regime una tangente pesante, perché è il loro Stato che gestisce anche i muscoli e il sudore, consentendo una vita al limite della schiavitù. Eppure, treni su treni scaricano qui migliaia di esponenti di un’umanità terremotata, di una transumanza squinternata, di un’illusione di fuga da un Paese-gulag verso le segherie-gulag controllate dagli spioni mandati dai satrapi della Corea del Nord.
Eppure, malgrado questo, i grandi numeri della tajga del Wild East russo non li fa Pyongyang. Li fa Pechino. Mai la Cina è stata tanto vicina, e mai Mosca è stata tanto lontana dalle marche russe d’Oriente. Da sud avanzano, lungo la linea di confine del fiume Amur, gli agricoltori cinesi armati di zappa e di vanghe, con serre prefabbricate sulle spalle, mentre biondi (e pallidi) slavi si spostano verso Occidente. In un territorio immenso (6 milioni di chilometri quadrati, il 37 per cento dell’intera Federazione Russa) vivevano nel 1990 circa nove milioni di cittadini russi. Oggi sono sei milioni. Ogni anno, cinquemila giovani diplomati lasciano la regione di Primorskie (quella di Vladivostok) e vanno a Mosca o all’estero. Si ritiene che nel 2010 in tutto il suo Oriente estremo la Russia non avrà più di quattro milioni di cittadini, (come dire: metà della Lombardia), mentre sulle frontiere si appoggiano gli abitanti delle province cinesi di Jelin, Heilongjiang, Liaoning, che significa cento milioni di persone, pari a due terzi dei cittadini dell’intera Russia, decine di volte in più di chi resiste nelle regioni orientali.
È l’immagine di un’invasione già perfezionata, visto che la gente del luogo considera realtà quella che volgarmente è definita una “minaccia gialla”. E se numeri e statistiche possono essere dibattuti, nessuno contesta un trend che traccia la marcia di Pechino sui territori di Mosca. Nella provincia di Oktjabrskaja, a 150 chilometri da Vladivostok e a 100 dal confine, le pianure abbandonate dopo la scomparsa delle fattorie collettive sovietiche sono punteggiate dalle serre di lavoratori stagionali cinesi. Per otto mesi all’anno vi si producono ortaggi e frutta, che poi vanno a finire sui mercati di città lontane, dove lavorano solo i cinesi autorizzati. In quell’arco di tempo i lavoratori guadagnano oltre 800 dollari; in patria, ne avrebbero guadagnati appena 450.

È un’immagine che si ripete in tutte le zone di confine e che si insinua progressivamente verso nord. L’economia del Far East russo, forziere di infinite materie prime (legno, oro, diamanti, ma anche gas e petrolio), è in via di progressiva, massiccia cinesizzazione. Con scorribande nordcoreane di lieve entità. Tutti i mercati sono gestiti dai cinesi, tutti i prodotti venduti sono cinesi, la catena alimentare è controllata totalmente dai cinesi, non solo da quelli che lavorano la terra, ma dai businessmen che la prendono in concessione dall’amministrazione russa. L’orientalizzazione è evidente in tutti i settori: il legname e il ferro vanno alla Cina, il pescato alla Corea e al Giappone, da Tokyo arrivano auto usate che sono poi rivendute in tutta la Russia. L’economia è, per ora, quasi tutta qui: sfruttamento del suolo e del mare, e commerci; mentre l’industria militare e l’indotto creato dalla flotta russa del Pacifico si sono ristretti a meno di metà dell’epoca sovietica.
Le conseguenze della de-sovietizzazione sono la ragione principale di un tracollo dettato dalle regole del mercato. Via i sussidi, via la produzione e via la gente. Dicono nell’area: nel 1980 per andare a Mosca in aereo era sufficiente il salario di un mese di un giovane ricercatore; oggi sono necessari cinque stipendi. L’emigrazione russa diviene inevitabile, e inevitabile diviene spalancare voragini all’espansione economica cinese, perché qui si ritiene che Mosca non faccia nulla per chi vive oltre il lago Bajkal.
Il presidente russo, nel discorso alla nazione del maggio 2006, aveva denunciato con forza i pericoli del calo demografico russo, nel Far East in particolare. I rimedi proposti attualmente sono agevolazioni economiche al trasferimento di cittadini dell’ex Urss nelle marche della Federazione. Pochi credono che basterà, perché l’avanzata di Pechino non è più soltanto l’occupazione economica di aree in abbandono; si fa largo la percezione che la migrazione in Russia sia un deliberato progetto politico con due obiettivi: riprendere il controllo sul territorio a nord del fiume Amur, ceduti nel XIX secolo, e ancora oggi indicati sulle mappe con nomi cinesi, e controllare le risorse naturali di queste terre. La provincia di Heilongjiang ha messo il Far East russo al centro del suo programma di sviluppo. Gli stessi leader di Pechino incoraggiano questa tendenza.
Un’espansione attraverso il dominio assoluto delle leve economiche che poggia sulla compiacenza del sistema amministrativo locale: le concessioni agricole e per lo sfruttamento delle terre sono date ai cinesi perché il livello di corruzione fra le autorità è molto elevato. Il commercio è quasi tutto illegale, treni che si portano via foreste o intere fabbriche dismesse passano i confini senza pagare un solo rublo alla frontiera doganale. E lo stesso accade per i prodotti pescati: il 70 per cento della produzione se ne va in Corea e in Giappone, evitando l’erario russo. Frontiere porose e autorità “morbide” sono – secondo le mille voci di una città bellissima, anche se in parte devastata dalla piaga dell’urbanistica di stampo sovietico – l’ultima conseguenza degli anni Novanta, stagione ad altissimo tasso di violenza. All’epoca, anche i boss erano di qui. Oggi pure quelli sono cinesi. Ai russi sembra essere rimasto soltanto il posto di manovale nelle bande di Pechino.
Ma l’ipotesi più verosimile sembra essere un’altra. Per arrivare a petrolio, gas, metalli e carbone, la Cina mette le mani sulle foreste, appunto, sui terreni agricoli e su altre ricchezze naturali dell’area. Passando attraverso la Siberia, dove le società cinesi stanno per ottenere dalle autorità russe concessioni per avviare la produzione industriale di legname su un nuovo terreno di un milione di ettari, l’espansione economica cinese è praticamente arrivata agli Urali: nella regione di Sverdlovsk le autorità russe sembrano disposte a cedere in affitto ai cinesi, per 49 anni, centinaia di migliaia di ettari di terreni coltivabili abbandonati.
Dunque, l’infiltrazione di massa di immigrati cinesi in Russia dura ormai da più di dieci anni: secondo le stime ufficiali del Cremlino lungo il confine russo-cinese si troverebbero attualmente 250-300 mila clandestini. Gli esperti indipendenti sostengono però che gli immigrati illegali potrebbero già essere arrivati a un milione e mezzo. Senza elettricità, senza acqua corrente, gli abitanti dei villaggi-fantasma sono coinvolti nella produzione abusiva di legname, nella coltivazione di patate, mentre percorrono la tajga siberiana in cerca di oro, di gingseng, di piante curative e di animali ampiamente usati dalla medicina tradizionale cinese.
A margine del summit del G-8 a San Pietroburgo, il presidente cinese ha ottenuto dal suo omologo russo un nullaosta alla legalizzazione di questa impressionante presenza economica, che finora aveva arrecato solo danni milionari alla Russia e che Mosca non sembrava più intenzionata a tollerare. Ma i primi accordi tra Cina e Russia hanno consentito di capire che nel mirino delle ambizioni espansionistiche della Cina si sono trovate anche le ricche regioni industriali, geograficamente lontane dalle zone di penetrazione tradizionale della Siberia e dell’Estremo Oriente.
Come quella di Tjumen, ricca di petrolio e di gas, dove nell’ambito di un primo progetto-pilota la Cina intende ottenere dalla Russia un milione di ettari di tajga, da utilizzare per produrre legname, carta e cellulosa: la costruzione di un maxi-complesso industriale comporterà per la Cina un investimento di 1,5 miliardi di dollari.
Intanto, Pechino rafforza le pressioni su Mosca perché aumenti le esportazioni in Cina di materie prime: nei primi sette mesi del 2006 le forniture di greggio dalla Russia sono aumentate del 23 per cento rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. Nell’intero 2006 la Cina prevede di importare 110 milioni di barili di greggio siberiano, mentre Pechino ritiene che entro il 2020 la Cina investirà in progetti russi fino a 20 miliardi di dollari. Da Vladivostok agli Urali. E forse anche oltre, verso Occidente.

 

   
   
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