Dicembre 2006

Una saga quasi estinta

Indietro
Gli ultimi pastori nomadi
Ada Provenzano - Anna De Bosio - Carlo Latini
 
 

 

 

 

 

 

 

Per non
dimenticare quanta poesia è nata, e di che
spessore
qualitativo,
da visioni del
genere, abbiamo
ancora bisogno dei pastori vaganti.

 

Vedevamo le greggi imbiancare le campagne a macchie irregolari, a striature, a gruppi sparsi, tenute d’occhio dal pastore e dal suo cane, ai quali ogni capo obbediva ciecamente. Erano parte integrante del paesaggio: di quello reale, e dell’altro, che in bucoliche visioni pittoriche faceva mostra di sé nelle case degli artigiani più abbienti e dei piccoli borghesi più pretenziosi; e che comunque avevano alimentato espressioni d’arte anche di buon livello, con tele di elegiaca fattura, di aspri paesaggi maculati da candidi branchi brucanti, di ingenue mandrie su presepi digradanti su rupestri Natività.
È un mestiere che inganna, per la sua straordinaria ubiquità. Sa di mito, di Pan, di Arcadia. Di poesia.
Ma la realtà è molto più prosaica, fatta com’è di pioggia, di freddo, di neve; di lunghe, anzi spesso lunghissime marce forzate dalla pianura alla montagna, e dalla montagna alla pianura. Ogni anno, lungo percorsi mai uguali, eppure sempre i medesimi, da secoli: quelli della pastorizia nomade, di una transumanza che nella Penisola continua, tenace, a trovare un suo spazio. Sempre più ridotto, economicamente precario, di frequente malvisto da chi si ritrova un gregge che attraversa la “sua” strada, i suoi campi.
I pastori nomadi esistono ancora, la mena delle pecore sopravvive, in questo scorcio di nuovo secolo e millennio. Capita di incrociarli con le loro greggi sulle strade fuori mano delle Prealpi, dalla Liguria al Friuli, o più giù, dall’Abruzzo al Molise, nell’arcigno Sannio e nell’Irpinia, o in fondo all’imbuto della Penisola, fra le Calabrie, tra la Basilicata e la Capitanata. Nella terra salentina formavano una parte del capitale (“pecunia” da “pecus”) contante delle masserie. Poi erano state cancellate dall’inurbamento dei massari e dalle migrazioni dei contadini, che avevano determinato la morte di quei centri di economia curtense. Oggi, quelli non ancora diruti sono occupati (dall’area di Greca a quella otrantina) da pastori giunti dalla Sardegna, formidabili produttori di formaggi e di altri prodotti derivati dal latte.

Capita ancora di trovarli, dunque. Magari fanno tenerezza, con quel loro essere fuori dal tempo, con l’immagine consueta per chi ha ricordi neanche poi tanto lontani degli agnellini stipati nelle sacche sulle groppe degli asini. E magari anche adesso spaventano anche un po’, per una secolare diffidenza per quegli emblematici senza-casa che torna a riaffiorare. Oltre tutto, è piuttosto improbabile che un adolescente, o un giovane, oggi si metta a fare il pastore, per di più transumante: vale a dire sempre in movimento, su in alto, verso le balze montane in primavera, da un prato-pascolo all’altro nel corso dell’estate, verso la pianura in autunno. E ancora d’inverno, tra le stoppie dei campi in riposo. Per farlo, si dice, bisogna essere proprio bizzarri, che significa un po’ più che matti, o meglio – ecco la diffidenza – malati: ed è proprio in questo modo, e usando questi termini, che ne parlano loro, i pastori. “Malattia”. Malattia per le pecore, per le “feje”, ad esempio, come le chiamano i piemontesi protagonisti del bel volume Dove vai pastore?, nel quale una giovane ricercatrice, Marzia Verona, ha raccolto le voci degli uomini che ancora conducono le greggi.
Contro ogni logica economica: fare il pastore, in tempi di civiltà a tecnologie avanzate, è del tutto contraddittorio. E non rende nulla. Anche a fare la tara delle prevedibili lamentazioni dei protagonisti, è chiaro che da mordere, alla fine, resta ben poco. D’altra parte, a che cosa potranno mai servire nei prossimi anni, e con il cambiamento anche dei gusti culinari, le pecore, in un’Italia ricca e pienamente inserita nei circuiti del commercio internazionale? Serve pochissimo la lana, un giorno fondamento del primo settore industriale del nostro Paese. Le pecore vanno tosate, il vello cresce senza preoccuparsi più di tanto delle congiunture di natura economica. Ma il costo della tosatura supera il guadagno delle lane: difficili da vendere, richieste ormai – in quantità limitatissime – soltanto da qualche artigiano che lavora il feltro, oppure come sostituto dell’isolante minerale noto come “lana di roccia”. Non servono, come invece in passato, grandi quantità di latte, non quello delle greggi transumanti, almeno: quasi nemmeno si munge più, sono diventati eccessivi i limiti igienici imposti dall’Europa per continuare a produrre quella che un giorno era una ricchissima gamma di formaggi artigianali. Un po’ di spese le copre ancora la carne, venduta generalmente su ridotta scala locale. Agnelli e capretti venduti in soddisfacenti quantità solo a Natale e a Pasqua, e quasi esclusivamente nell’Italia centro-meridionale, e qualche manciata di capi ai grossisti per soddisfare la scarsa domanda della grande distribuzione.
Una mano, insperata, arriva dagli immigrati di religione musulmana: i loro sacrifici rituali comportano un’imprevista domanda di ovini, acquistati attraverso le macellerie islamiche o direttamente alla fonte, cioè dai pastori nomadi. Ma ormai l’apertura internazionale è frequente, nell’allevamento italiano. Se celeberrimi sono i mungitori sikh della Valpadana, nemmeno tra gli alpeggi appenninici e tra le Murge – tra garzoni marocchini, aiuto-pastori romeni e tosatori neozelandesi – manca l’apporto degli extra-comunitari. Perché di italiani disposti a fare questo lavoro, durissimo e avaro, nell’Italia continentale se ne trovano sempre meno. Anche se oggi i pastori sfoggiano il “piercing” e collanine etniche, e si appoggiano a cellulari e a microchip per identificare i capi di bestiame, quelli che ci sono sembrano proprio gli ultimi epigoni di una plurimillenaria tradizione in via di estinzione.
Di transumanza, ormai, si parla quasi esclusivamente al passato. Tolta la lana, tolto il latte, tolta quasi la carne, per campare in pratica non resta che una sola risorsa: le sovvenzioni dell’Unione europea. Una certa somma a pecora: il che non aiuta i pastori seri, rispettosi dei loro animali e dell’ambiente, e favorisce invece speculatori impreparati, capaci di perdersi le greggi (è accaduto anche questo!), di non rispettare i divieti e le norme che regolano la transumanza, di “rubare” l’erba.
Certamente, senza quei contributi la pastorizia vagante sarebbe già definitivamente scomparsa, come tanti altri mestieri legati a un passato rurale che, o non esiste più, oppure ha trasformato radicalmente le proprie finalità, com’è accaduto per tanti tratturi che erano antiche rotte dall’Abruzzo e dal Molise verso la Ciociaria, la Campania, la Calabria e soprattutto in direzione delle pianure settentrionali della Puglia, che sono diventati percorsi e itinerari turistici, con notevoli risorse paesaggistiche, storiche e artistiche.
Eppure i pastori, anche quei pochi che rimangono a vagare tra monti e piano, tra rocce e pascoli piani, servono ancora. Non per l’economia, evidentemente: ma per l’ambiente. Il pascolo, la presenza umana, sono un tassello fondamentale per la tutela del paesaggio; boschi e campi vengono “ripuliti” dalle greggi, senza i costi e l’inquinamento dei mezzi meccanici. Il che significa, come ha stabilito un’indagine specifica, prevenzione degli incendi, limitazione del rinselvatichimento che minaccia le aree montane e pedemontane, conservazione della biodiversità vegetale. E poi anche – perché no? – bellezza del paesaggio. È bello incontrare, in una passeggiata in montagna o in collina, un gregge. Lo è anche in pianura, o tra valli discoste. Ed è bello conservare quell’armonica alternanza di bosco e di prato, di murgia e di pascolo, di serra e di pastura, che segna i versanti dei nostri paesaggi. Per godere, per non dimenticare quanta poesia è nata, e di che spessore qualitativo, da visioni del genere, abbiamo ancora bisogno dei pastori vaganti. Anche musealizzati, ma in quel grande museo a cielo aperto che è la natura italiana. In altre parole, i pastori come specie protetta, proprio al modo dei loro secolari nemici, i lupi: che da qualche tempo stanno ampliando la loro area di diffusione, visto che sono tornati sia sulle Alpi e sugli Appennini, dove attaccano (nel nome dell’equilibrio naturale, oltre che della conservazione della loro specie) le pecore in transumanza.
(Non potendo contare sul Wwf o su Legambiente, i pastori vaganti a rischio di estinzione sono costretti a fare da sé. Dal 2003, quelli attivi nell’Italia del Nord si sono riuniti nell’Associazione pastori vaganti dell’arco alpino italiano: aderiscono un centinaio di allevatori dalla Liguria alla Venezia Giulia, “in rappresentanza” di 200 mila pecore. Prima battaglia, ottenere l’abolizione dell’anacronistico Libretto per il pascolo vagante che, istituito nel 1954 per motivi sanitari, obbliga ogni singolo pastore a chiedere il permesso di transito ai comuni con due settimane d’anticipo: cosa che si scontra sia con la mutevolezza del clima, che rende spesso imprevedibile dall’oggi al domani l’effettiva disponibilità di pascolo, sia con la scarsa dimestichezza – questa, sì, prevedibile – dei pastori con bolli, timbri, registri, e altre burosaure implicazioni.
Altro fronte aperto, quello che vuole consentire il pascolo anche all’interno dei parchi naturali, abolendo obsoleti regolamenti nati quando la tutela dell’ambiente era intesa come blocco totale di qualsiasi attività umana. In Abruzzo e Molise, le principali regioni di transumanza dell’Italia centrale e meridionale, l’iniziativa più efficace è la campagna “Adotta una pecora”: il “pastore adottivo”, spesso conquistato via Internet, sovvenziona un capo del Parco nazionale d’Abruzzo, ricevendo in cambio formaggi, salumi, lana e la possibilità di partecipare ai momenti salienti della pastorizia, dalla transumanza alla tosatura).

Sgozzata sugli altari da millenni di culti religiosi, è stato scritto, alla pecora non dispiacerà diminuire: di rosolare ne avrà avuto abbastanza. Rade, oggi, le greggi tenute a bada da maremmani bianchi. Anche fra i tratturi una volta affollati. Va così da quando ci sono storia e memoria, pastori e greggi sparsi tra gli spazi aperti. Ma il nostro è un tempo che cancella e sgombera. Ora la transumanza, se la fanno, avviene con i camion caricati di centinaia di capi portati ai pascoli estivi. Un po’ dappertutto i pastori sono sempre meno autoctoni, ma albanesi, macedoni, di Paesi montuosi dell’Est europeo, persino di aree del Subcontinente indiano. Si tosano soltanto le lane pregiate, la convenienza è misera, di margine, tranne che per la carne tenera degli agnelli che nascono da due gravidanze all’anno. Chi è per le greggi il pastore: un protettore o un boia? Il più forte predatore o uno scudo? O soltanto un infelice viceré del mondo?
Docilità e pazienza delle greggi sono proverbialmente sovrumane. E certo il traffico del mondo renderà presto vantaggioso importarne la carne, anziché allevarla sui nostri alpeggi e nelle nostre pianure: saranno cancellate dal paesaggio, che senza di loro sarà più zitto e più spoglio; se ne conserveranno degli esemplari negli agriturismo e nei presepi. E sarà come se il bianco di camicia al sole se ne andrà dietro a quello di una nuvola sbandata dal vento.


Imparammo sui banchi di scuola l’ambientazione remota, misteriosa e affascinante nella quale s’innalzava il “Canto notturno” del pastore che errava per le pianure asiatiche, intrecciando momenti di riflessione e abbandoni al sentimento:

Che fai tu, luna, nel ciel?
... Somiglia alla tua vita
la vita del pastore
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Fin qui Leopardi. E Quasimodo:

Monti secchi, pianure d’erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava.


Quanta poesia dall’osservazione di bianche nuvole e lenzuola cangianti fra i pascoli verdi? E quanta ne morirà, dopo le cancellazioni, gli sgomberi, gli smembramenti? Tornano alla mente le antiche antologie, che gli scientismi d’oggi hanno reso obsolete. Leggevamo da Giovanni Bertacchi:

Sul ciglio delle alture la greggia ondulata
[appariva,

ed eretto sovr’essa alto il pastore;
grande così sul cielo, pareva il selvaggio
[signore

di non so qual vagante isola viva.
Sui cigli della storia sempre così eguale
[s’affaccia

la greggia d’ogni età, d’ogni contrada:
sembra una stessa torma che vada nei secoli
[e vada,

seguendo una fedele unica traccia.

Oh, quando esse, annunciando le due
[ritornanti stagioni,

salgono ai monti e tornano, tra i nimbi
degli odorosi velli le madri sospingono i bimbi,
quasi ad un rito che li renda buoni...

O dalle poesie-favole di Diego Valeri:

Ci fu nel tempo antico un pastorello
che aveva dieci pecore e un agnello.

Era povero molto, e inverno e state
andava per montagne e per vallate...

Andava e andava tutto il dì; la notte,
dormiva negli stazzi o per le grotte...

Oppure dalle immagini dannunziane che evocavano la struggente dolcezza del rimpianto:

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare...
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente
su le vestigia degli antichi padri...

C’è chi ricorda almeno il nome di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi? Questo “comes lunae”, compagno della luna, come si definiva, girovago, anarchico, assediato dalla miseria, sempre in conflitto tra la grandezza dei sogni a cui aspirava e la meschinità della realtà che lo soffocava, scriveva in una delle sue più belle poesie:

Quando, o pastore, a’ culmini biancheggi
ottobre e i tordi calino ai ginepri,
tu i pascoli saluti ove le lepri
danzano e aduni le tue sparse greggi...

E vai...; e un pianger di randagia squilla
su le tue greggi e lor cammino oscilla,
che al destin par, de la tua vita, echeggi.


Mentre forse più noti sono i versi che Umberto Saba dedicò alle greggi, la cui vista risvegliava nel suo cuore la nostalgia della vita libera e semplice:

Greggia che amai dall’infanzia sperduta,
per te la doglia si fa in cor più acuta;
e mi viene, non so, d’inginocchiarmi;
non so, nel tuo lanoso insieme parmi
scorger io solo qualcosa di santo,
e d’antico e di molto venerando.
Ti mena un vecchio, sui piedi malcerto:
un Dio per te, popolo nel deserto.


E di gran lunga meno noti i versi di Garibaldo Alessandrini, uomo di Versilia e operaio di mare:

Assonnata campagna, ebra di sole; ...
Ed ecco improvviso si leva
un belato, un tremore di lamento.
Trasalgo: ché da invisibile gregge,
all’istante, non so se si diparte
o dal mio cuore...


O quelli di Giovanni Titta Rosa, poeta dell’intima essenza classicista:

Sotto i pallidi olivi
sparse greggi sul margine dei greti
brucano l’erba rugginosa...


Al pari di quelli del poeta svizzero di lingua italiana Giorgio Orelli:

Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.


O infine quelli del nuorese Sebastiano Satta, poeta schiettamente barbaricino, del quale citiamo l’intero, splendido testo del sonetto “Alba”:

Or i sardi pastori, all’indorarsi
dei cieli, mentre van con tintinnio
dolce le greci a ricercar gli sparsi
rivi, levan le fronti e adoran Dio.
Rapiti, quasi sentano levarsi
la luce in seno, fremono ad un pio
sgomento come quercie, su per gli arsi
greppi, dei venti roridi al desio.
Poi vanno lungo il risonante mare,
fra prati d’asfodelo e per le rupi,
vanno fantasmi d’un’antica età;
torbidi e soli nel fatale andare,
il cuore schiavo di pensieri cupi,
l’occhio smarrito nell’immensità.


Ecco, sono tratturi di poesia, paesaggi di erbe primaverili tenere e inebrianti, sprazzi di luce, e brandelli di anime errabonde, esistenze neolitiche che proiettano le loro ombre fino ai nostri giorni di ferro. Memorie che svaniscono sulle strade veloci, fra le scie delle macchine aeromobili, dietro il rombo dei convogli a cuscino d’aria. Qualche perfidia, qualche tradimento, il prezzo della nostra vita. Che cosa c’è di giusto o di ingiusto sotto il nostro cielo che non specchia più il profilo pagano del pastore? Ulisse ha avuto la meglio: è cieco e impotente, ormai, il mondo bello e feroce dei padri.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006