Dicembre 2007

 

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Le giravolte
AA.VV.  
 
 

 

 

 

 

 

Quell’entusiasmo reciproco nasceva dal fatto che i due uomini si erano
riconosciuti come artisti tedeschi, anzi, come artisti della “nuova
Germania”.

 

Addio, Asino Arpista

Ritenendosi dimenticato, aveva messo le mani avanti: lamentava scarsi contatti scritti con chi aveva considerato amico; si lagnava per la mancata pubblicazione di articoli che spediva senza soluzione di continuità a tutti i giornali e le riviste che gli capitavano a tiro; reclamava risposte precise e chiarificatrici dai suoi interlocutori, senza svicolamenti: insomma, in un sol colpo invitava tutti a non dimenticarlo, dopo quella sorta di anabasi che lo aveva riportato in terra natìa, avendo lasciato (insalutato ospite) «la polvere del Salento» alle spalle. Voleva fermamente restare al centro dell’interesse degli amici e degli estimatori della sua scrittura, anche perché da Massa avrebbe continuato a scrivere, a farsi sentire presente, a comunicare con i lettori...
D’improvviso, la sua scomparsa. Florio Santini – l’Asino Arpista che si storicizzava con racconti densi di memorie e di vicende vissute nel suo vagare per il mondo – è trasmigrato sull’altra riva, forse colto di sorpresa lui stesso, certamente lasciando in noi l’amaro in bocca di un ultimo dialogo venuto meno, di un saluto mancato, e del silenzio (forse incolpevole) sceso dopo la sua decisione di lasciare Casamassella e la dimora che fu di De Viti De Marco, dove aveva trascorso tanta parte della sua vita di memorialista, di autore creativo assetato di amicizia e di relazione.
Sarebbe comunque rimasta incompiuta, la sua opera di rievocazione autobiografica, perché sempre viva, felice, originale era la materia prima che scaturiva dalla sua penna, e sempre preliminare ad altre narrazioni si rivelava ogni suo scritto: questo era il suo segreto, il grimaldello che innescava il versamento della sua inesauribile vena, nel desiderio – inconfessato ma palese – di rapportarsi agli altri, di confrontarsi, di non interrompere il filo di un discorso (anche didascalico) iniziato da gran tempo e poliedricamente dispiegato in Salento e simultaneamente nella sua indimenticata Lucchesia.
Ci mancherà, l’Asino Arpista, questo prezioso collaboratore che pretendeva affettuosamente gli spazi in “Apulia”, nelle “Giravolte”, che amava anche come testata di rubrica. Ci resta, bel patrimonio intellettuale, il corpus dei suoi articoli: una lezione di narrativa sobria, limpidamente redatta, di cospicua sintassi etica. a.b.

 

Il tempo dell’eclissi

Diciamola tutta. Chi legge oggi l’editto del Patriarca Polyeueto del 968? E chi, oltre gli addetti ai lavori, legge gli atti del IV Concilio Lateranense (1215) o la lettera “Sub catholica professione” inviata dal papa Innocenzo IV al vescovo di Frascati? E Bruno Pellegrino, Angelo Antonio Spagnoletti, Vittorio Peri, Mario Scaduto, Roberto Rusconi, Giorgio Ravegnani? Nel suo lavoro di ricerca storica, riprodotto nel volume La normalizzazione della Chiesa Latina su quella di rito greco in Terra d’Otranto fra il XVI ed il XVII secolo, Rocco Emanuele Grippa fa rivivere personaggi dimenticati, ricostruendo valori e momenti significativi della società salentina. Senza retorica e senza censura.

Riaffiora il “sommerso”, il ricordo di una follia mistica che attraversò il Salento, trasformando il suo isolamento in una vorticosa girandola di eventi dal respiro europeo. Attraverso il monologo-dialogo degli attori più rappresentativi Grippa aggiunge tasselli illuminanti alla naturale aspirazione a capire le vicende del passato, i meccanismi sedimentati nel subconscio che influenzano il nostro modo di vivere, ragionare, amare.
Con i suoi personaggi ha viaggiato tra conflitti di fede e conflitti tra fede e cultura laica, senza scivolare in estremismi valutativi, assenti in ogni passaggio di scena. Svincolato da ogni dovere di obbedienza, parla della fede dei “lumini” e della fede delle “icone”, disegnando un caleidoscopio di eventi che raffigurano in embrione nuove forme di statualità. Tra gli annoiati dall’afa salentina prevalgono i “diversi”, gli “scismatici”, mentre timidamente si affacciano sulla scena sociale i concetti di classe, popolo, nazione, come sogno aggregante che plasma nuove società “missionarie”. Con etica e politiche di potenza in ferrea commistione con religione e fede. Nascono nuove domande e si cercano risposte che non si trovano nei libri e nella cultura dell’ortodossia.
Di questa realtà magmatica Grippa riporta dialoghi reali, interrotti, falliti, faide di poteri minuscoli e maiuscoli attraverso le quali prendono forma i primi scampoli di un’umanità devota alla Chiesa latina.
Tutto rigorosamente documentato.
L’effetto della normalizzazione non è indolore. Una fitta rete di nuove tutele e curatele si sovrappone ad abitudini e sentimenti stratificati, allevando generazioni che dovranno faticare molto per acquisire consapevolezza e dare forza ai propri diritti civili.
La prosa lineare e semplice è priva di tentazioni ecumeniche che adesso costituiscono facile richiamo commerciale. Prevale invece il linguaggio conviviale e un ego capace di mettersi in gioco senza fare crociate, restando volutamente a metà strada tra cronaca e storia. Con uno stile incline al racconto, l’autore ci rende partecipi delle emozioni di un mondo in ebollizione, con specifico riferimento alla società salentina, che alla creatività artigiana ha affidato le espressioni più semplici dei moti dell’anima e al fatalismo impalpabile i turbamenti e le ombre della coscienza. Stati d’animo che guidano l’inconscio in presenza di vuoti di sistema, di poteri in decomposizione, mentre verità emergenti non trovano ancora decisa affermazione.

L’originalità del lavoro di Grippa sta nell’approccio al tema, come egli stesso sottolinea nella “Nota dell’Autore”. Essendo mosso dalla curiosità di indagare tra le ambiguità di un passato fecondo, ha voluto «verificare de visu quanto affermato tramite l’applicazione di alcune teorie sociologiche». Ciò gli ha permesso di effettuare percorsi di studio autonomi e di maturare convinzioni non convenzionali.
Ci possono essere voci di dissenso, ma non è possibile togliere a Grippa il merito di aver fatto rivivere vicende sepolte in cimiteri sbranati da città cementificate, strade, autostrade, centri commerciali che hanno tolto all’antico rispetto, respiro, memoria. La sua forza sta nel dare voce ad un mondo di precari che diventano riformatori, al mormorio discreto del silenzio che accompagna questa metamorfosi, alla dignità di una fetta importante della nostra storia, sopraffatta dalla polvere del tempo e dei bulldozer. Val la pena ricordare che in Terra d’Otranto misticismo, sangue e fuoco non sono forzature simboliche, ma elementi di una cultura popolare legati alla sopravvivenza di tradizioni animistiche. Il “nuovo” è stato sempre digerito senza mai rinnegare il passato, fattore tenuto in grande considerazione anche dall’intervento discreto della Chiesa latina.
È difficile attuare una rivoluzione esistenziale, ma è ancora più difficile raccontarla, andando alla scoperta dei luoghi dell’anima, tra pratiche devozionali e ritualità civili e religiose in movimento.

 

50 anni di ricerca dello sciamano
Marrocco

Sintesi degli interventi, coordinati da Aldo Bello, giornalista e scrittore, direttore
di “Apulia”, all’incontro del 29 settembre nella Sala Conferenze del Padiglione
Fieristico di Galatina. All’incontro hanno preso parte il professor Lucio Galante,
Direttore del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, Ordinario di Storia
dell’Arte Moderna presso l’Università di Lecce; il professor Antonio Cassiano,
Direttore del Museo Provinciale “Castromediano” di Lecce; l’architetto Rosario Scrimieri; il giornalista-antropologo culturale e docente di Scienze delle
Comunicazioni alla “Sapienza” di Roma, Stefano Rizzelli; il critico d’arte e
docente di Storia della Scultura Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti
di Lecce, Toti Carpentieri.

 

Introduzione

aldo bello

Cinquant’anni di vita artistica. Mezzo secolo di ricerca di uno scultore, Armando Marrocco, amico di tanti di noi, ritratti in un testo splendido, stupendo, redatto da Raffaele Gemma. Consanguineo dell’autore. Prima cosa da sottolineare, il titolo “Artecontemporanea”, tutto unito: non è un refuso, lo stacco manca per una scelta volta a sottolineare la continuità della ricerca di un Marrocco passato attraverso molteplici esperienze. Cito quasi testualmente Gemma: «Un’attività che lo ha visto attraversare uno dei periodi più complessi della storia dell’arte planetaria, per il fervore culturale, per l’eterogeneità delle tendenze, per gli intrecci, gli incroci, le contaminazioni: sono gli anni ‘60, quelli dell’arte concettuale, con tutte le espressioni correlate che gravitano attorno a quest’orbita…».
Lasciare Galatina, storia comune a tanti di noi; lasciarla all’epoca resa celebre da un’espressione nata su un giornale di Lecce, poi ripresa dai quotidiani di tutto il mondo: lasciarla sui “treni della speranza”, che io ho poi chiamato “treni della disperazione”, quelli che trasferivano non solo braccia ma anche cervelli, tonnellate di materia grigia, nostra, che andava ad arricchire altre terre e altre genti. Partire, ma senza rinnegare le radici, è stata storia comune a molti di noi, e chi ha scritto questa storia fatta di mille storie, Armando tra gli altri, rende oggi orgogliosi quelli che sono rimasti a presidiare il nostro territorio, senza dimenticare vincoli, sodalizi intellettuali e artistici, e il colore del sangue, il colore del paesaggio, il profilo dei nostri paesi, e la vita nelle strade, a cominciare da quella di Vico Freddo, da dove Armando venne fuori per raggiungere quella che era una città tentacolare ricca di fermenti artistici forse anche più di Roma, vale a dire Milano.
Autore del testo, denso e informato, Raffaele Gemma, innamorato della storia dell’arte, accanto ad Armando da una vita, rapsodo e nello stesso tempo attento critico e osservatore dei passaggi, delle attività, degli snodi creativi dello scultore.

 

Presentazione del testo

lucio galante

Grazie all’autore del libro, che mi ha evidentemente ritenuto degno di questa responsabilità della presentazione, di non poco conto. Un libro è frutto di un lavoro, di una ricerca, e compito di chi presenta è anche valutarne i risultati, il metodo con cui questo lavoro è stato condotto. Ora, si dà il caso che l’autore non sia un accademico, è un medico, con una passione per l’arte e in particolare per questo artista, col rischio di non avere sufficiente distacco.
Ma devo dire che ciò non ha pesato più di tanto. Del resto, l’autore ha un retroterra culturale di non poco conto, viene dagli studi classici, ha una formazione umanistica, e ciò lo ha aiutato; si aggiungano una conoscenza e una cultura nel campo dell’arte contemporanea.
Gemma si dice impegnato nella divulgazione dell’opera dell’artista, e parte dalle esperienze giovanili di Marrocco, grazie alle quali l’artista ha posto le basi degli sviluppi futuri. Poi si pone un problema di carattere generale, e individua due categorie di artisti: quelli che raggiungono un obiettivo e si mantengono fedeli ad esso per sempre, e quelli che scelgono di fare sperimentazione per tutta la vita.
Marrocco è stato ed è tuttora uno sperimentatore, ha fatto sperimentazione per mezzo secolo, ha attraversato molte tendenze artistiche, a partire dal concettuale, con in più un’ottica di totale apertura all’internazionalità.
Poi l’autore specifica che ha dovuto selezionare, nella ricca produzione dell’artista, un numero di opere che ha ritenuto significative per rappresentare il suo percorso. Allora si capisce che l’impostazione del libro è il frutto di un lavoro consistente, con difficoltà oggettive legate alla specificità dell’itinerario artistico e alla lunghezza dei tempi di sperimentazione di Marrocco.

Se qualcosa manca, è la presentazione della fortuna critica, anche con il catalogo delle opere, visto che Marrocco ha goduto di una costante attenzione degli addetti ai lavori. A merito della ricostruzione va ascritta la capacità di analisi, che ha saputo cogliere i rapporti con il contenuto contemporaneo, sia quello prettamente artistico sia quello sociale, politico e culturale, insieme con le congiunture che hanno favorito la crescita dell’artista, grazie ai contatti con Lucio Fontana, Pierre Restany, Guido Le Noci, Piero Manzoni, e alla conoscenza con Yves Klein, e soprattutto al sodalizio con Rosario Scrimieri.
Insomma, Gemma si è trovato di fronte un’esperienza oltremodo ricca, che ha ritenuto frutto di una disposizione di Marrocco ad aprirsi a varie forme di espressione del linguaggio artistico, tanto da ricondurla alla categoria dell’interdisciplinarità: termine a mio avviso improprio, perché più esatta è una parola più moderna, adatta a sottolineare che l’artista ha avuto delle esperienze di tipo sinestetico, che è come dire una particolare apertura a campi diversi, dalla musica alla performance, con l’esito ben descritto da Gemma, quando sostiene: «Così Marrocco ha continuamente interagito con il mondo dell’architettura, mettendo al servizio di essa la sua esperienza progettuale, ha indagato la possibilità del mezzo fotografico e filmico, realizzando film d’artista e riprese di sue azioni e performances, ha esplorato le potenzialità del suono e della musica, ha realizzato libri d’artista, ha operato sulla natura e sul corpo, ha sconfinato in ambito parascientifico in una severa indagine dei rapporti tra arte e scienza».
L’autore sente la necessità di interpretare l’opera dell’artista, e quella che fa è una scelta felice, perché le tematiche che egli ha individuato sono di natura interpretativa. Gemma è convinto di trovare un filo rosso nell’opera di Marrocco, e lo dice in modo puntuale: «Ciò che alla fine l’artista intende indagare è sempre e solo l’uomo». La verità del lungo percorso è proprio qui, e credo che questa osservazione vada colta in tutto il suo valore. Sicché il volume di Gemma costituisce una ricca miniera per ulteriori approfondimenti, a riscontro della complessità dell’opera di Marrocco, i cui riconoscimenti critici sono tali da rendere inutile ogni rivendicazione campanilistica, richiedendo ora un classico e canonico lavoro monografico.

La scultura di Marrocco
nei monumenti storici

antonio cassiano


Agli inizi degli anni Novanta invitai Marrocco a realizzare, insieme con altri artisti operanti a Milano, una fontana all’interno della “Biennale dello scolpire all’aperto”, di Martano. Facemmo un primo incontro per individuare gli spazi, e Marrocco si innamorò subito di quello antistante il Palazzo del Comune e la chiesa del Rosario, dove alcuni scavi avevano fatto emergere dei contenitori in pietra leccese, detti “Angeli”, un tempo destinati alla raccolta dell’olio nei frantoi ipogei. Marrocco li assemblò e incise una frase che richiamava in modo allegorico la creazione dell’uomo. Fui colpito da questo fatto, perché ignoravo che da tempo Marrocco avesse avviato una sua attività singolare, qualitativamente di pregio, nell’ambito dell’arte sacra, e scoprire che l’opera di Marrocco potesse chiamarsi “Fontana degli Angeli” mi meravigliò, anche perché proprio in quei giorni appresi che questo artista aveva fatto il suo esordio a Cascia, accanto a colui che all’epoca era ritenuto il mostro sacro di quel genere di arte, cioè Manzù. Devo dire che Marrocco ha saputo crearsi quasi una doppia personalità, perché operando nell’arte sacra sa di fare qualcosa di diverso, sa di dover rispondere a una committenza, allora diventa quasi un artista tradizionale, antico.
La differenza sta nella capacità di interpretare ciò che si deve fare, non nell’essere devoto. Del resto, molti grandi autori di arte sacra erano addirittura atei. Da un pezzo, inoltre, era in corso un dibattito su come intervenire all’interno delle chiese, visto che nel tempo gli interventi degli artisti all’interno di quelle storiche si erano stratificati: in una chiesa romanica o gotica, infatti, troviamo interventi di età rinascimentale, o barocca, o neoclassica. L’artista, dunque, non deve rinnegare se stesso. Oltre tutto, sul finire degli anni ‘60 c’era stato l’intervento di Paolo VI, che con la celebre Lettera agli artisti li aveva sollecitati a confluire nell’arte sacra, dopo che se ne erano allontanati. E proprio all’epoca venne aggiunta ai Musei Vaticani la Pinacoteca di Arte Sacra Contemporanea.
Come entra Marrocco in tutto questo? Naturalmente, perché opera dentro il contesto sacro, ma anche perché in qualunque luogo vada, Martano, o Lecce, o Cascia, o Acerenza, si chiede quale sia il ruolo della richiesta della committenza, e quale quello dei fedeli. L’intervento deve rispondere a queste diverse domande. La committenza, d’altronde, non chiede all’opera un discorso solo funzionale, altrimenti si rivolgerebbe a un architetto, per riarredare gli spazi interni, com’è accaduto per S. Antonio a Fulgenzio.
Perciò Marrocco interviene coniugando la sua tendenza alla concettualità con l’esigenza di caricare l’opera di un forte valore simbolico. Il simbolo diventa il contenuto che fa riferimento alla figura e alla capacità che possono avere la linea, il volume, la tecnica, per dare all’immagine un’ulteriore carica di emozionalità. In questo contesto, l’incontro con Scrimieri fu determinante, anche se già nel ‘74 l’artista aveva partecipato a una rassegna “Sacra” di opere d’impronta, appunto, sacrale, o biblico-religiosa, ma a committenza non ecclesiale.

Anche nella descrizione del portone della Cattedrale di Lecce egli esprime i motivi che lo hanno condotto a quella realizzazione: «Nel passaggio al Terzo Millennio sento l’esigenza di incidere nel bronzo l’evento pasquale: in quella notte, notte unica, Cristo Risorto sconfigge la morte e realizza il passaggio dalle tenebre alla luce: è la notte della luce, di Cristo luce del mondo».
E pensiamo alla statua di S. Filippo Smaldone, cui Marrocco ha conferito un’impronta a forte equilibrio compositivo; o agli arredi sacri in candido marmo al Fulgenzio, il cui simbolismo vuole esprimere il significato dell’Eucarestia…
A Lecce sono state fatte tante realizzazioni, anche importanti, e nessuno ne ha parlato; ma quando si fa una questione di gusto, tutti intervengono: così le opere di Marrocco hanno suscitato un gran clamore, che ha avuto comunque il merito di ricordare che, sì, Lecce è la città del barocco, ma il ruolo della stratificazione artistica all’interno dei luoghi è una peculiarità dell’arte italiana. E siamo felici che coraggiosi artisti contemporanei si inseriscano, senza snaturarsi, all’interno di monumenti storici e siano capaci di dialogare con l’antico, conferendo ai luoghi dei nuovi e attraenti significati.

Progettista-artista nell’arte sacra
di Marrocco

rosario scrimieri

I cinquant’anni di Marrocco in campo artistico sono anche i miei, perché con Armando abbiamo condiviso amarezze, delusioni, ma anche gioie, soddisfazioni, fino a ieri a mezzogiorno, momento dell’ultima consegna di un lavoro svolto insieme. Quindi sarò costretto a parlare anche di me, di un percorso parallelo nel quale ci siamo incrociati, creando opere uniche.
Intanto, vorrei smentire un luogo comune. Non è vero che tutto ciò che Armando ha fatto con me è di natura sacra. Poi vorrei mettere in risalto una caratteristica fondamentale di questo artista: nel momento in cui egli pensa a un’opera, non prescinde in alcun modo dal ruolo dello spazio nel quale quell’opera stessa andrà a inserirsi. Quindi non si può valutare oggettivamente senza tener presente il suo approccio mentale con lo spazio. Il rapporto con lo spazio è sempre presente, anche quando in apparenza non sembra emergere.
Ricordo gli anni 1957-‘59. Si andava a scuola, non c’erano libri, non c’era disponibilità di immagini,; riviste d’arte, neanche a parlarne. Ancora oggi mi chiedo come facesse Armando a sapere che in Italia molti artisti praticassero l’astrattismo. Evidentemente, aveva le antenne ben tese, aveva una predisposizione particolare.
Nel ‘59 cominciò ad occuparsi della materia, della ceramica, dell’alluminio, e via dicendo. All’epoca, nelle scuole si faceva veramente accademia, si dava importanza soltanto al classicismo, e si guardava con scetticismo alla sperimentazione, tant’è che il sottoscritto ebbe una delusione in tal senso proprio all’esame di maturità, dove avevo presentato delle opere un po’ fuori dagli schemi, e in quella circostanza fui criticato negativamente da tutti i docenti, ma fui difeso strenuamente dal solo Marrocco, che in commissione mi aiutò a superare per un pelo l’esame, sottolineando il coraggio che avevo avuto presentando opere espressive e d’avanguardia. Dopo qualche tempo appurai che Armando aveva deciso di lasciare l’insegnamento e di trasferirsi a Milano. Probabilmente, anche quell’episodio che mi riguardava, emblematico della staticità dei rinnovamenti culturali e artistici, aveva influito sulle motivazioni che lo avevano portato a quella scelta. Marrocco aveva fatto esperienza di scultura nel laboratorio di un artista locale, Marra, ma trascorreva più tempo in uno studio di ingegneria, quello dell’ing. Stasi, dove affinava la sua tecnica di disegno, ovviamente non quella progettuale. Fu nel capoluogo lombardo che cominciò a frequentare gli studi di architettura, sviluppando le capacità progettuali, lavorando contemporaneamente agli “Intrecci”, alle “Vertebre”, ai “Multispazi illusori”, alle “Città 1”.
Laureatomi a Roma nel ‘70, fui raggiunto da Armando, che fra l’altro mi aveva aiutato nella stesura di alcuni progetti che facevano parte della prova di laurea. E in seguito venne spesso nella Capitale, in occasione di qualche concorso o di qualche progettazione importante; vi si fermava per quindici o venti giorni, così si lavorava insieme. All’inizio di quel decennio, fra l’altro, partecipammo a due importanti progetti: Sistemazione del Parco del Ticino (1971) e Concorso per il Nuovo Cimitero di Modena (1972). In quell’occasione ci ponemmo volontariamente fuori concorso, per poterci esprimere liberamente. Il primo progetto aveva rilevanza nel contesto ambientale, anti-inquinamento: il pretesto era dato dalla presenza, all’interno, di una raffineria.
I vapori e i fumi, opportunamente depurati, venivano manipolati anche cromaticamente, per essere poi emessi dalle ciminiere sotto forma di immagini programmate, visibili a distanza. Con questo progetto vincemmo il secondo premio. L’altro, invece, aveva rilevanza nell’ambito sociologico: riguardava la sovrappopolazione. E lo sviluppammo chiaramente in senso provocatorio: anche in questo caso veniva data importanza alla manipolazione dei fumi di cremazione, che assumevano forma di figure danzanti, a segnalare la gioia con cui veniva accolto il decesso di qualche volontario nelle camere apposite allestite per la morte programmata. Naturalmente, si trattava di un discorso in chiave fortemente ironica, nel quale Marrocco si era inserito progettando la sua camera per il suicidio, dove una serie di spade affilate mettevano fine alla corsa del volontario di turno che vi si scagliava dentro, mentre una serie di amplificatori diffondevano nella città il suo urlo di dolore.
Dopo questa parentesi venne Cascia, dove lo scultore ebbe il merito di inserirsi in modo originale in uno spazio difficile sia con le vetrate che con i seggi, al fianco di uno scultore scontroso – ma poi conquistato nella stima artistica e umana – come Manzù. E poi la Nuova Penitenzieria, dove non si contano le realizzazioni di Marrocco: lì gli spazi architettonici li abbiamo progettati insieme. E il “Figliol prodigo” che vi è presente è di una bellezza incomparabile, con quell’idea del tralcio di vite ad arco che richiama l’ingresso delle case dei nostri contadini.
E infine, altro episodio significativo, l’allestimento della tomba del Beato Simone Fidati. Al momento del montaggio ci accorgemmo che il masso che conteneva il reliquiario risultava troppo grande rispetto all’ambiente. E dal momento che il giorno seguente doveva esserci l’inaugurazione, ci guardammo negli occhi e fugammo ogni dubbio: procuratici gli attrezzi del mestiere, chiusi in un recinto per non essere visti, lavorammo per tutta la notte, sbozzammo il masso, lo portammo alle dimensioni giuste. Stanchi e felici, consegnammo l’opera a giorno fatto.


Marrocco: arte-comunicazione

stefano rizzelli

Io sono un antropologo culturale, un autore tv, e le mie ricerche negli ultimi tempi hanno avuto un centro comune, ovvero le opere d’arte, che io uso, stravolgo, quasi violento, piegandole alla mia volontà narrativa. Ogni opera d’arte è una parola, un segno semantico, un’emozione del cuore. Può incuriosire, stupire, scioccare, nei suoi confronti si può provare imbarazzo, rabbia, stordimento, spaesamento, coinvolgimento, complicità. Insomma, ogni opera d’arte è un’entità che permette di stabilire delle correlazioni significative. Quindi, dopo averlo fatto con altri, è imbarazzante farlo con un artista che è lì, davanti a me, ma è questo il percorso che ho voluto tentare, un percorso attuale, ovvero radicato nell’oggi, un percorso con uso di Marrocco.
Commento al video
Ci siamo, siamo arrivati al momento in cui scienza e fede si fronteggiano, al momento in cui la forza della ragione e quella della fede trovano un necessario e forse inevitabile palcoscenico dove esercitare la propria conflittualità problematica. Da una parte il calore del sole, la sua energia, nel suo enigmatico rimando alle cose ultime ed essenziali dell’universo, dall’altra la scienza, la sua fredda razionalità, la sua sintomatica capacità e necessità di proiettare l’uomo in un futuro roseo. Si direbbe, da una parte Dio, dall’altra l’uomo, da una parte la natura, dall’altra la cultura.
Cosa deve fare l’artista di fronte a questo dilemma? Inserirsi come un grimaldello, un perno nelle coscienze, uno stimolo per la ragione, un interrogativo per la fede, un avvertimento per la superstizione, un monito per l’uomo, un richiamo ancestrale per le coscienze assopite, nella cultura del tutto possibile, del tutto lecito, del tutto ottenibile. Qui l’artista trova pane per i suoi denti, problemi e misteri per la sua ricerca. Qui si fissa l’attenzione del genio creativo. Qui, in questo ambito, in questo anfratto della coscienza, a mio avviso, si trova Armando Marrocco. Da qui inizia, qui arriva attraverso un percorso […]. “C’era una volta l’uomo”, ci dice Armando Marrocco, forse questo è il suggerimento, l’uomo inteso nella sua essenzialità, l’uomo visto attraverso la sua fisionomica, l’uomo in grado di esprimere valori, l’uomo maschera, maschera di un sentimento, l’uomo e gli uomini. È necessario riprendere in mano il gioco, sembra avvertirci l’artista: e allora è necessario ritornare alle origini, ritrovare il gusto delle pietre che odorano, dei materiali che parlano, delle porte che non si aprono, degli angoli che atterriscono, degli scorci che esalano ferite e sentimenti. E qui, questa è Galatina, ha vissuto Armando Marrocco, non so se un’ora, un giorno, un anno, una vita, non lo so, lo potrei sapere, ma cosa importa? Qui, a contatto con i rumori del vento che trafiggono le trame del tufo, con i colori del muschio che inorgoglisce le pietre, con il sapore di una terra di confine […]. Marrocco esercita la sua creatività in maniera probabilmente più lenta, più ricercata, più duratura. Perché il problema della nostra epoca è non comprendere il tempo, la durata del tempo, il tempo immobile della ricerca, il tempo lungo della riflessione, il tempo eterno della domanda che tenta di raggiungere la verità. […]. A noi non spetta il compito di immaginare il futuro, all’artista spetta quel compito, e questo per lui è una galera, una maledizione […]. All’artista noi chiediamo lumi sul futuro prossimo. Marrocco risponde così. Ed eccoci a chiedere aiuto perché il futuro spaventa, inorgoglisce ma quasi mai rassicura. E qui noi abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di stregoni, di maghi, di scienziati, di preti, di profeti, di artisti, possiamo scegliere […]. Che cosa vuol dire sacro per Marrocco? Ecco alcune opere che non voglio commentare, perché voglio arrivare alla fine del nostro percorso, sostanzialmente da dove siamo partiti. L’uomo alla ricerca di Dio, l’uomo con i suoi tentativi di guardare in alto verso il cielo per scrutarlo, analizzarlo, violentarlo. L’uomo che alza il naso oltre la sua testa, arrogante tentativo di vincere l’insondabile, oppure l’artista con la sua necessità concreta di incontrare Dio su questa terra. Marrocco è qui seduto davanti a noi. A lui, ai poeti, agli artisti, ai coraggiosi il compito di profetizzare sull’esistenza e di sanare le nostre piaghe dovute a paura, stordimento, incertezza; perché sappia, lui e gli altri come lui, sedare le angosce di un’umanità ancora e sempre più in cerca di identità.


Dall’arte concettuale
al recupero della materia

toti carpentieri

In questa sorta di esame autoptico della creatività di Marrocco, ai limiti del rischio, cosa dire? Mi voglio soffermare ancora sul tentativo di risolvere il dilemma: Marrocco artista eclettico o non eclettico. Se dobbiamo dare una definizione, dovremmo definirlo un artista anticipatore. Un esempio per tutti: recentemente, sulla scena artistica internazionale si sta affermando una tendenza, la “nan-art”, con un aggancio del termine alle nanotecnologie. Marrocco già negli anni ‘70 aveva partecipato ad una mostra dal titolo “Blow-up”, in cui si affrontava l’arte dal punto di vista infinitesimale. Nel corso degli anni, Marrocco ha dimostrato questa sua scommessa sul futuro, questa sua proiezione nel futuro: e chiaramente il presente e il futuro, ma anche il passato, si fondano sulla materia. Ecco un altro suo aspetto fondamentale: la materia. Ricordiamo che proprio su questo tema era stata scritta una tesi di laurea: “Armando Marrocco: i materiali, le idee, la creatività”. Marrocco, infatti, ha interagito con tutti i materiali, arrivando alla sublimazione di questi e di se stesso, del suo corpo inteso come materiale, cosa diversa dalla Body Art, da Gina Pane a Urs Luthi, eccetera. Per Armando il corpo è la materia, e sulla materia ha basato tutta la sua operazione. E poi, nel gioco degli opposti, alla materia si contrappone l’idea, la concettualità, ed è questo anche il percorso che lo ha visto protagonista, identificando non solo la sua attività con una serie di annotazioni anticipatrici, ma giocando anche all’interno di quella che è stata definita “Narrative Art”, molto prima che se ne parlasse in Italia, grazie anche a personaggi come Guido Le Noci e Pierre Restany. Mi riferisco a “Calendario”. Quando abbiamo fatto “Calendario”, l’operatività di Marrocco non solo funzionava come pretesto, ma come linea conduttrice di un percorso che diventava prodotto, cioè diventava contemporaneamente prodotto e idea…
Già sul finire degli anni Sessanta Marrocco si imponeva sulla scena nazionale; basti ricordare il premio Silvestro Lega, del ‘67, dove lui era accanto a Nigro e a Nannucci, dove Nigro e Nannucci erano ancora legati alla pittura, mentre Armando aveva già superato quella dimensione, anche della scultura che veniva vista in un’impaginazione progettuale, come architettura, e virtuale al tempo stesso: gli specchi di Pistoletto sarebbero venuti dopo. Ecco quindi la definizione giusta di Marrocco: un anticipatore che giocava simultaneamente con l’idea e con la materia, con le manifestazioni dell’idea e con le manifestazioni della materia. Ciò voleva dire elaborare testi, e Marrocco ne ha scritti tanti, anche sul bronzo, dunque in maniera manuale, materia, e nel cielo, quando con il laser ha unito Santa Caterina e Gallipoli, quando nell’87 con Scrimieri si son fatti i fuochi d’artificio d’artista, e nella musica con le note di Fernando Sulpizi.
Armando è testimone di un tempo in cui l’uomo gioca sulla creatività, sull’intelligenza, il che vuol dire muoversi nel tempo e con il tempo, anticipare il tempo. E alla fine questa è anche l’ideologia di “fluxus”, di Maciunas: l’ideologia di chi verrà anche dopo di noi.

 

 

   
   
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