Marzo 2008

Dalle voci del popolo
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Spartiti per un riscatto
Sergio Bello
 
 
 

 

 

 

 

 

Un risvolto quanto mai intrigante:
i due fratelli
erano analfabeti
musicali, non sanno leggere
gli spartiti, ancora oggi compongono a orecchio,
cantando
e suonando
per ore e ore.

 

Ne ha parlato con entusiasmo Goffredo Fofi, ipotizzando che qualcuno li può ricordare in una scena di Il talento di mister Ripley, «l’ambiguo “giallo” di Patricia Highsmith portato sullo schermo da Anthony Minghella, in una scena di processione in cui cantavano una loro composizione, Bella Maria». Qualcun altro può averli incontrati e ascoltati a teatro, nell’ottima Medea siciliana di Emma Dante. O ancora: più di uno avrà sentito i loro dischi, quelli di produzione nazionale, nel senso di italiana, (per esempio, Sutera, dedicato al loro paese d’origine, che sta al confine tra la provincia nissena e quella agrigentina, che è come dire nel cuore dell’isola); oppure quelli di produzione iberica (Nesci Maria, che prende il titolo da una delle più splendide creazioni, per una Madonna tra religiosa e pagana, o Romances de all’y de acà, o ancora lo stupendo e più recente Trazzeri); oppure ancora quelli di produzione nordamericana (Italian Odissey), «di incontro e sintesi fra tradizione e innovazione, e tra sperimentazioni vecchie e nuove».
Moltissimi, infine, li avranno ascoltati dal vivo, in piazze e in strade, in chiese e su sagrati, e persino in accademie, in Italia o in Francia, in Spagna o in Germania, in Gran Bretagna o in Canada o negli Stati Uniti d’America. Ed è necessario parlare dell’Inghilterra, perché è proprio in questo Paese che i due fratelli Enzo (Vincenzo) e Lorenzo Mancuso, oggi intorno ai quarant’anni di età, emigrarono a metà degli anni Settanta, abbandonando il loro bianco villaggio contadino e artigiano per trasferirsi oltre le bianche scogliere di Dover e andare a lavorare nei grigi complessi industriali del settore metalmeccanico, trovando però nella musica il riscatto dalle quotidiane fatiche e dalle altrettanto quotidiane alienazioni indotte dal nuovo ambiente, dalle radici almeno superficialmente tagliate, dalla solidarietà vicinale sostituita dai rapporti formali (se non addirittura algidi, e anche improntati alla diffidenza per l’altro, per il nuovo, per l’estraneo).

In sostanza, la musica divenne il fulcro dei loro interessi, il baricentro della loro esistenza. Ma con un risvolto quanto mai intrigante: i due fratelli siciliani erano (e restano) analfabeti musicali, non sanno leggere gli spartiti, non sanno scrivere le note, ancora oggi, dunque, compongono a orecchio, provando e riprovando senza soluzione di continuità, cantando e suonando per ore e ore; ma attualmente, trascorso un lungo periodo di sacrifici, valicati coraggiosamente tutti gli ostacoli, sono diventati celebri, e li si ritiene a buon diritto raffinati concertisti, «amati da studiosi eccellenti della musica più rara, da esecutori che hanno amato unirsi a loro in questa o in quella occasione».

Su quali dati si basa questa loro fortuna? Enzo e Lorenzo hanno portato avanti una grande storia, prestando orecchio alle grida dei venditori ambulanti e dei banditori di paese, alle melopee e ai “canti d’invettiva” dei carrettieri, alle nenie dei contadini e ai cori dei minatori, vale a dire a tutti i repertori della tradizione melodica popolare del Sud continentale e insulare, in gran parte andati perduti (anche nella memoria), e soltanto in piccola misura salvati da raccolte rarissime di amanti del folk. E vien da pensare con rammarico a tutti gli echi dei canti popolari che emergevano dalle campagne e dalle strade (ma anche, soprattutto nelle sere primaverili ed estive, dalle “puteche” paesane del Salento), che non riusciamo più a sentire: e mi pare che sia stato un innamorato di questo mondo particolare, Brizio Montinaro, a raccogliere e pubblicare in 33 giri un certo numero di bellissimi brani musicali registrati dal vivo.
Fra l’altro materiale repertato nello scrigno della memoria, i due fratelli hanno incluso il canto sacro delle devote di vari santi e sante. Delle novene dei Natali (ad esempio, nella loro Sutera, quelle dei suonatori ciechi migranti di paese in paese) e nei funebri lamenti, e inoltre le esplosioni di gioia delle Pasque, precedute dai canti dolorosamente cupi delle Passioni, quali anche noi abbiamo conosciuto, e per fortuna in parte conservato, con i cantori in lingua grica che erano attivi fino a qualche anno fa soltanto nella Grecìa Salentina.
Giustamente Fofi ricorda che i due Mancuso hanno fatto tesoro della lezione poetica e musicale dei Ciccio Busacca, degli Ignazio Buttitta, delle Rosa Balistreri, che essi hanno fatto in tempo a conoscere e a frequentare: e questo ha decisamente contribuito a farli distaccare dai più “impegnati”, per il rifiuto di qualsiasi concessione retorica (anche di qualunque compromissione stilistica), e dalla ortodossia del canto popolare «per la voglia di cambiare e di portare nella musica antica sonorità nuove e azzardi inediti».

È ormai acquisito che attualmente i due fratelli siciliani sono ugualmente apprezzati sia dai cultori della musica colta che da quelli della musica folk, per il loro rispetto delle lezioni del passato popolare e della tradizione religiosa più radicata; ma anche per il coraggio che hanno avuto di mediarle senza tradirle, e portando nel loro rispetto e nelle loro dissonanze, come essi stessi sostengono, «un suono osseo, un suono di pietra». Le loro composizioni prendono corpo poco alla volta, parola dopo parola, musica (cantata) dopo musica: provando e riprovando. Come è stato notato, in questo modo con loro il canto religioso diventa laico, e quello laico si trasforma miracolosamente in canto religioso.
L’identità riconquistata tanti anni fa grazie alla musica «dal dentro dell’anonimato della vita in fabbrica» ha generato frutti inattesi, e le lacerazioni che hanno inizialmente espresso si sono ricomposte in una liberazione di cui nel nostro Paese e tra gli italiani non ci sono esempi minimamente paragonabili. Anche se sono rintracciabili nel mondo, e in qualche modo cominciano a verificarsi tra noi ad opera esclusiva di musicisti immigrati. Cantano Timidi l’isuli su’, in una delle loro più ammalianti composizioni, questi due coltissimi, straordinari analfabeti musicali: ed è una canzone che parla di isole concrete e di isole metaforiche, degli arcipelaghi delle nuove comunità. Fuse, autobiografia e nostalgia, in un fondale semantico originale, per noi ancora tutto da scandagliare.

 

   
   
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