Giugno 2008

L’unità di due “culture”

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L’economia
nella rete matematica
Amartya Sen Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

Alcuni analisti
utilizzano
soltanto tecniche
matematiche,
rifiutandosi
di tener conto
di influenze
importanti
che tali tecniche
non riuscivano
a cogliere.

 

Il ragionamento matematico riveste una grande importanza nelle scienze sociali di oggi, soprattutto in economia. E tuttavia prosegue ancora oggi il vecchio dibattito per sapere se esse ne siano impoverite o arricchite. Forse, sono vere tutt’e due le cose.
Per Quintiliano, intellettuale romano del I secolo, c’erano due buoni motivi per studiare la geometria: fa comodo nella vita quotidiana, e allena la mente.
Perché la matematica è utile per capire e formulare ciò che vogliamo studiare? Galileo aveva già risposto nel 1623, scrivendo nel Saggiatore (a proposito della «controversia sulle comete del 1618») che il «gran libro» dell’universo è scritto «in lingua matematica ed i suoi caratteri sono triangoli, cerchi e figure geometriche, senza i qual mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto».
Nell’ambito delle scienze sociali, dobbiamo chiederci se ipotetiche relazioni economiche e sociali possiedano effettivamente caratteristiche di semplice regolarità matematica. L’economia matematica dell’800 e della prima metà del ‘900 era in larga misura dominata da concetti e tecniche venuti dalla fisica e dalla meccanica, e faceva ampio uso di calcoli e di equazioni differenziali. Diventò sempre più chiaro che questi non erano sempre strumenti appropriati per risolvere problemi di natura economica e sociale.
Ma la matematica è una disciplina dalle molte forme, e fra queste possiamo scegliere qual è la migliore, a seconda del problema da trattare. Ad esempio, il celebre teorema formulato da Kenneth Arrow nel 1950, che dimostra l’impossibilità di combinare insiemi di preferenze individuali per ottenere le decisioni sociali corrispondenti (soddisfacendo nello stesso tempo ragionevoli condizioni di aggregazione), non deriva in alcun modo dalla meccanica o dal calcolo differenziale, eppure è senza dubbio un risultato matematico: usa altri formalismi, in particolare la logica matematica o l’algebra relazionale. Non sarebbe stato possibile arrivare a quello stupendo risultato senza il ragionamento formale.

Tra la storia recente della matematica e dell’economia c’è un nesso sul quale vale la pena soffermarsi. All’inizio del Novecento, gli studi matematici presero un orientamento diverso e dopo i contributi di Bertrand Russel, Kurt Gödel e altri, ci furono importanti lavori sui fondamenti della disciplina e sulle loro implicazioni filosofiche. Molti sviluppi matematici di allora erano stati preannunciati dal grande David Hilbert, che aveva evidenziato le analogie tra le strutture formali relative a campi di indagini analitiche molto distanti tra loro.
Il nuovo interesse per gli insiemi e le relazioni, per l’analisi e la topologia, per la teoria delle decisioni e quella dei giochi, e via dicendo, si concentrava in un settore ben diverso dalla meccanica. All’inizio, la divisione tra matematica “pura” e “applicata”, quest’ultima intesa come adatta soprattutto alla fisica, era d’intralcio. Fu necessario ridefinire i confini per potersi occupare di variabili appartenenti a generi molto diversi, come quelle legate alle decisioni umane.
Oggi il Novecento può essere considerato come il periodo cardine di una doppia trasformazione: l’economia è cambiata verso la metà del secolo, seguendo gli sviluppi della matematica, avvenuti poco prima.
Un anno dopo aver formulato il teorema di impossibilità dell’aggregazione sociale, Kenneth Arrow formulò un sistema per rappresentare le relazioni del mercato in termini di interazioni competitive, senza alcune delle restrizioni imposte da precedenti inquadramenti matematici. Negli anni seguenti, si assistette a un’esplosione di ricerche matematiche in entrambe le discipline. E sempre nel 1950 John Nash, all’origine un matematico puro, e poi considerato anche un grande economista, ottenne due risultati fondamentali nella teoria dei giochi: dimostrò l’esistenza di relazioni d’equilibrio in giochi non cooperativi, e definì i termini salienti per la cooperazione tra individui. Il primo ad orientarsi verso la teoria dei giochi era stato il matematico John von Neumann, autore – insieme a Oskar Mongerstern – di un classico, Teoria dei giochi e comportamento economico (1944), che ebbe una grande influenza sull’analisi economica.
Un uso fruttuoso del ragionamento matematico in economia richiede di valutare criticamente il tipo di matematica da usare per ogni problema, e se sia il caso di ricorrere a tecniche matematiche ancora non ben sviluppate. È necessario tener conto della domanda dello scienziato sociale, insomma, e non soltanto dell’offerta del matematico.
In una certa misura, questo è accaduto. Si è fatta parecchia ricerca su strutture “meno rigide” delle relazioni e degli insiemi, ad esempio sugli ordinamenti incompleti (con ordini parziali, o semi-ordini, di diverso genere) e su classi di insiemi e di relazioni “fuzzy”. Questi lavori provengono soprattutto dalle scienze sociali, poiché molte variabili e molte relazioni economiche, sociali e politiche non possiedono l’esattezza, che è tipica di molte grandezze nelle scienze naturali.
Comunque, resta un problema. È possibile che i formalismi matematici attualmente a disposizione, anche presi nel loro insieme, siano inadeguati per trattare alcune delle complessità sociali di cui le scienze sociali devono occuparsi. Alcuni analisti si sono ostinati ad utilizzare soltanto tecniche matematiche – e in certi casi solamente alcune particolari tecniche – rifiutandosi di tener conto di influenze importanti che tali tecniche non riuscivano a cogliere. Michio Morishima, eminente economista matematico anch’egli, sostiene che l’economia sia stata molto impoverita dalla cecità di tanti economisti davanti al fatto che molte variabili sfuggivano alle strutture matematiche già esistenti.

Vorrei venire ora al secondo motivo di cui parlava Quintiliano, al ruolo formativo della matematica. Talvolta, questa sua virtù viene contestata. A quanto riferisce Platone nella Repubblica, Glaucone disse a Socrate: «Non ho mai conosciuto un matematico che sapesse ragionare». Forse Glaucone alludeva alla tendenza di certi matematici a rinchiudersi nel ragionamento matematico, così come Michio Morishima alludeva alla mentalità ristretta di certi economisti matematici.
Nel Seicento, la stessa diagnosi faceva dire al matematico, oltre che filosofo, Blaise Pascal nei Pensieri: «I matematici, i quali altro che matematici non sono, hanno una mente esatta a condizione che ogni cosa venga spiegata loro per definizioni e assiomi; altrimenti sono imprecisi, e insopportabili, perché sono nel giusto soltanto quando i princìpi sono chiarissimi». Con questo non intendo certo schierarmi contro un’educazione matematica, bensì contro una fiducia troppo esclusiva nel ragionamento matematico.

Infine aggiungerei un terzo motivo a quelli di Quintiliano: la matematica può essere divertente. Anche se, ovviamente, è questione di gusti. C’è un bell’aneddoto, forse apocrifo, sul grande matematico indiano Bashkara, nato nel 1114 (detto anche Bashkara II, per non confonderlo con l’altro matematico, illustre anch’egli, del VII secolo a.C.). Dei tre celebri libri di matematica di Bashkara, uno è intitolato Lilavati. In sanscrito, la parola significa, tra altre cose, una certa beltà ed eleganza femminile, e pare fosse il nome della figlia dell’autore, alla quale il libro è dedicato. Dice l’aneddoto che Bashkara avrebbe cercato di convincere quella ragazzina vivace a studiare matematica, sostenendo che gli amici l’avrebbero invitata a molte feste se lei avesse saputo rallegrare i presenti offrendo loro enigmi matematici da risolvere. Non sappiamo tuttavia se Lilavati sperimentò quel sistema per assicurarsi un alto indice di gradimento e, soprattutto, se dopo averlo utilizzato sia stata invitata ad altre feste.
Oltre ad avere uno scopo edonistico, l’uso ludico della matematica influisce anche sul comportamento, sulle scelte, e persino sull’evoluzione delle materie accademiche. Qualcuno sostiene, con una certa plausibilità, che gli economisti matematici scelgono solo problemi che si prestano al formalismo matematico e che lo fanno innanzitutto per divertire i colleghi e per far colpo su di loro.
In conclusione, per molto tempo l’economia e le scienze sociali hanno tratto benefici dal ragionamento matematico, e forse ne hanno anche risentito. Tuttavia, dovrebbe esser possibile usarlo senza subirne i limiti.
Vorrei dare l’ultima parola a un altro personaggio del I secolo, di cui Roma apprezzava molto le poesie satiriche. Marziale gradiva gli elogi, ma suggerì a un estimatore dei suoi versi di «leggere altro». Il consiglio potrebbe giovare agli economisti matematici e – se ha ragione Pascal – ai matematici stessi.

 

   
   
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