Marzo 2009

GURU, CASSANDRE E CRISI GLOBALE

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(S)Profeti

B.S.

 

 
 

Guru? Come è stato possibile sottovalutare i sintomi di un crac di portata planetaria, i rischi di contagio a livello mondiale e l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale?

 

La polemica è stata innescata a cose avvenute, e non poteva non essere così: secondo l’economista Roberto Perotti, nessuno – salvo Nouriel Roubini e Robert Shiller – ha capito che la crisi stava arrivando, e in ogni caso nessuno ha dato indicazioni sui modi per evitarla o per uscirne; e molto probabilmente, secondo l’economista Marco Fortis, ce l’aveva col ministro Tremonti, che con il suo provocatorio «Silete, economisti!» aveva
perentoriamente invitato la categoria a tacere. In questa presa di posizione incoraggiato da Giuliano Amato sulle colonne de Il Sole-24 Ore, («Ha proprio ragione il ministro, quando li invita a un pudico periodo di silenzio»), e dal professor Giovanni Sartori in un editoriale sul Corriere della Sera («Perché gli economisti non hanno adeguatamente previsto e denunciato la follia dei “subprime”, i mutui senza sufficiente copertura?»).
Ma chi aveva capito, e chi invece no, che la crisi stava sopraggiungendo? Per rispondere
a questa domanda cruciale, è necessario riferirsi alle alte personalità accademiche, politiche, economiche, che ora vanno per la maggiore: il probabile prossimo candidato al Nobel, Alberto Alesina, docente ad Harvard; il docente e columnist Francesco Giavazzi; un economista “alternativo” al pensiero unico sul primato dei mercati finanziari, del modello americano e della tecnoglobalizzazione, (la corrente di pensiero di cui gli stessi Giavazzi e Alesina sono considerati i massimi esponenti), vale a dire Marco Vitale; e lo stesso ministro dell’Economia, che va preso inevitabilmente in considerazione, dal momento che è stato al centro del dibattito (e delle polemiche) con gli economisti.

Un disoccupato in una strada di Wigan, nella Contea del Lancashire, in una foto degli anni Trenta. Orwell vi ambientò un suo romanzo, dove narrò le condizioni di vita
e di lavoro degli operai.
Un disoccupato in una strada di Wigan, nella Contea del Lancashire, in una foto degli anni Trenta. Orwell vi ambientò un suo romanzo, dove narrò le condizioni di vita e di lavoro degli operai.


E partiamo dal 2006. Esattamente il 25 luglio di quell’anno, Marco Vitale pubblica su Finanza e Mercati un articolo dal titolo emblematico: “Via dall’America, prima che sia troppo tardi”. E fra l’altro vi scrive: «La depressione immobiliare potrebbe causare una crisi dei consumi e un rallentamento di 2 punti della crescita attesa del Prodotto interno lordo americano, con un crash landing dell’economia globale».
Quanto sostenne due anni e mezzo fa Vitale dimostra che non è vero che soltanto pochi economisti stranieri avevano previsto la crisi. Anche nel nostro Paese c’è chi l’aveva lucidamente annunciata (e potremmo citare altri economisti, come il professor Mario Deaglio), mentre Alesina e Giavazzi si stavano ancora occupando di un “instant book”, Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico, sulla superiorità del modello americano di sviluppo rispetto a quello europeo.
È interessante sottolineare che nel 2006 Vitale non solo prevede la crisi statunitense, ma si sbilancia anche sulla data (il 2007- 2008) e sulle sue dimensioni, anche se queste peccano per difetto. Egli fornisce persinodelle ricette, se non ai politici, perlomeno agli investitori, attraverso i consigli di un suo amico americano, da lui citato; consigli che riassume in questo modo: «Realizzare gli investimenti in Usa, sia mobiliari che immobiliari, prendendo tutti i benefici maturati. Ridurre la leva finanziaria e porsi in una posizione più liquida possibile. Non investire nulla per ora negli Stati Uniti». Che dire poi del ministro italiano dell’Economia? In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dal titolo “Come nel ‘29: rischio crisi per l’America”, il 12 novembre 2006 affermava: «Mentre in Europa gli immobili sono soprattutto un valore patrimoniale, in America sono il centro dell’economia:
è sul valore degli immobili che le famiglie americane ottengono credito dalle banche. Oggi la crisi immobiliare negli Stati Uniti è molto forte; e questo si riflette sui grandi numeri dell’economia, che in un tempo molto breve è scesa da una crescita del 5 per cento al 2 per cento». Ma, precisa, «il 2 per cento in America non è crescita, perché corrisponde in equilibrio solo all’immigrazione e all’incremento della forza lavoro. Anche qui le ipotesi sono due. La prima: il passaggio dal boom allo sboom non ha causato il collasso, perché il
sistema finanziario è ben equilibrato, ha assorbito la crisi e può ripartire. La seconda è una crisi strutturale, tipo 1929. Io spero nella prima ipotesi, ma temo la seconda».
Dunque, anche in questo caso ci troviamo al cospetto di una previsione molto precisa. E non è che venga immaginata una “minirecessione” qualsiasi: Tremonti parlava di una crisi a breve termine, tipo ‘29, magari peccando per eccesso, ma l’obiettivo era soprattutto quello di far capire che stavamo andando incontro a qualcosa di eccezionale. Analizziamo la situazione, qual è stata esattamente un anno dopo. Siamo nell’estate 2007. La crisi dei mutui immobiliari americani è già più che evidente. La banca britannica Northern Rock e l’americana Bear Stearns sono praticamente in stato fallimentare, il che rende necessario il salvataggio dei due istituti di credito da parte dei rispettivi Stati. Le Borse mondiali incominciano a scendere, poi a cadere in picchiata. Sicché è di nuovo il momento giusto per verificare chi avesse capito, e chi no, che cosa stava realmente accadendo.

ICP Milano
ICP Milano


Scriveva Alesina, su La Stampa del 20 agosto 2007: «Quella in atto è una correzione, come ce ne sono state altre. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla come quella della New Economy. Ultimamente si era esagerato un po’ a prestare denaro grazie a tassi di interesse troppo bassi, ora è in atto una forte correzione, tutto qui». E ancora lo stesso autore, su Il Sole-24 Ore del 7 settembre 2007: «Finora non è accaduto nulla di catastrofico, né a mio parere accadrà». Esattamente nello stesso periodo, sul Corriere della Sera del 4 agosto 2007, anche Giavazzi si esprimeva così: «La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda».
Di parere del tutto opposto, l’ostinato Tremonti:«In America», dice sul Corriere della
Sera dell’11 agosto 2007, «si trovano il principio e la fine di una crisi potenzialmente globale. La crisi dell’economia finanziaria diventa sempre crisi dell’economia reale. La crisi dell’America diventa sempre crisi del mondo. La cosa positiva è che governo e autorità monetarie, se lo capiscono e se lo vogliono, possono ancora intervenire». Mentre Vitale scrive sul mensile Vita del settembre 2007: «Sono preoccupato di qualcosa di cui si parla troppo poco e cioè della dimensione immensa che ha raggiunto il mercato dei derivati […]. Questa eccessiva finanziarizzazione dell’economia creerà ancora problemi».
È evidente, dunque, che c’è stato chi ha previsto tutto o molto per tempo, mentre c’è stato chi non soltanto nel 2006, ma addirittura a metà 2007, di fronte ai primi ed evidentissimi segnali di svolta dei mercati, negava ancora che la situazione americana potesse in qualche modo degenerare. Ma come è stato possibile sottovalutare fino a questo punto i sintomi di un crac di portata planetaria, i rischi di contagio a livello mondiale, e il possibile impatto della crisi finanziaria sull’economia reale?
Probabilmente – è la giustificazione addotta dai difensori d’ufficio – gli economisti sono stati presi alla sprovvista in gran parte perché la conoscenza di importanti dettagli, molto tecnici ma fondamentali, non è percolata in tempo dagli esperti di settore ai macroeconomisti. Storie! Questi eventi dimostrano che il mestiere di guru dell’economia
è proprio difficile, soprattutto in tempi di turbolenze come i nostri. Giavazzi e Alesina hanno sbagliato in pieno. E temiamo che anche la loro ultima profezia alla fine si rivelerà errata.
Nel loro nuovo libro La crisi: può la politica salvare il mondo?, infatti, sostengono che i
rischi di un nuovo statalismo e di un nuovo protezionismo, che potrebbero far precipitare
l’attuale crisi economica mondiale in un nuovo ‘29, verranno soprattutto dalle politiche che hanno in mente di adottare Nicolas Sarkozy e Tremonti.
A noi sembra invece che i rischi maggiori di un’accentuazione dello statalismo e del protezionismo possano provenire dalle decisioni che il presidente Barack Obama potrebbe
essere costretto a prendere per salvare l’America (e di conseguenza il mondo occidentale)
dal baratro.

   
   
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