Stirpe
di origine normanna, prese il nome da un feudo avellinese - Dalla corte
di Napoli al marchesato matinese - La vicenda di Giovan Battista, giureconsulto
e patriota.
Ultimo rampollo
dei marchesi di Matino, che discendevano da antica stirpe di origine
normanna, fu il giureconsulto e patriota Giovan Battista del Tufo.
Se è obiettivo della presente nota mettere a fuoco la sua partecipazione
alle lotte per il risorgimento politico del Mezzogiorno, si ritiene,
altresì, non inutile, per un completo profilo del personaggio,
un rapido excursus storico tra i suoi ascendenti campani e salentini.
Ercole Menaboi, che il 1045 era giunto in Italia al seguito di Roberto
Guiscardo, si vuole da Berardo Gonzaga essere stato il capostipite
della famiglia cui aveva dato italico cognome il feudo avellinese
detto Tufo.
Per l'appoggio dato agli Angioini ebbero in premio i suoi nepoti ulteriori
titoli nobiliari in Aversa e Benevento e importanti incarichi politici
in Abruzzo, Calabria e Terra d'Otranto, dove furono Giustizieri, a
cavallo dei secoli XIII e XIV, Simone, Berardo, e Andrea del Tufo.
Sotto la dinastia aragonese e il viceregno spagnolo i del Tufo si
segnalarono, non soltanto nell'arte della guerra, bensì come
diplomatici, uomini di toga, di chiesa, e di lettere.
Particolari rapporti col Salento ebbe il giurisperito Giovan Battista
che, a parte le delicate missioni politiche eseguite per Ferrante,
Alfonso, e Federico d'Aragona, fu governatore di Lecce il 1482, ascrivendo
a proprio merito la lotta efficace alla peste e la costruzione di
un (non più esistente) Palazzo del Pubblico Governo dall'architetto
Nicola Scancio edificato in Piazza degli Ammirati.
Consistente lustro ottenne la casata il 1481, dalla partecipazione
di Giovanni e di Tiberio alla campagna militare per la liberazione
di Otranto dai Turchi, e, il 1488, dalla vittoria di Giovan Battista
nella giostra che ebbe luogo a Napoli; gliene sottrassero, però,
Giovan Luigi e Giacomo, cui furono confiscati i beni per l'appoggio
dato al Loutrech durante le lotte franco-spagnole del 1528-29.
Di un altro Giambattista, garbato illustratore in rime della Napoli
cinquecentesca, Gino Doria ha scritto da par suo; così il Croce
dell'omonimo marchese di Lavello che, il 1629, recitò nella
commedia I figli ritrovati di Alfonso Torello.
Gravemente lesivo del prestigio dei del Tufo fu il feroce delitto,
consueto nella Napoli viceregnale, che fu commesso il 1660 da Camillo
del Tufo in difesa degli interessi dell'amico Diomede Carafa.
Dal puntuale racconto di Bartolomeo Capasso si viene a conoscere che
il Del Tufo aveva dato un "buffettone a mano aperta" a Francescantono
Coppola, creditore del Carafa.; lo aveva poi schernito in un comico
duello, quindi, sfuggito ai sicari del rivale, lo aveva sorpreso nottetempo
nell'ospitale monastero di Portacoeli e, "fattolo fermare dai
suoi sgherri, di maniera che non si poteva in modo alcuno dimenare,
miseramente lo scannò come se fosse stato un agnello".
Braccato dalla giustizia, Camillo si costrinse nel forzoso domicilio
di S. Agostino degli Scalzi, da cui più tardi uscì per
grazia vicereale.
Lasciamo, finalmente, l'assai vivace ambiente di Napoli e trasferiamoci
nella periferica Matino, che dolcemente s'aggrappa ad uno degli ultimi
gioghi delle serre salentine.
Ne è marchese nella seconda metà del Cinquecento Annibale
de Persona o Persone cui succede, il 1575, la figliola Fulvia. Maritandosi
costei al partenopeo Mario del Tufo, lega la signoria del proprio
feudo ai successori di lui, che ne conserveranno il possesso fino
al 1806.
I coniugi del Tufo, tuttavia, non rinunciano alla vita comoda della
capitale e, agli inizi del '600, affittano Matino a Berardino Minuti
per tremila ducati l'anno.
Diversamente dai genitori, Ascanio del Tufo ama vivere a Matino dove,
il 1640, lo si trova feudatario; il fratello suo, Giacomo Antonio,
viene invece ghermito da morte, il 1632, mentre naviga con una compagnia
d'archibugieri, alla volta della Catalogna.
Ad Ascanio subentra Giuseppe verso il 1658, e a costui un nuovo Ascanio
intorno al 1682; poi da Giambattista, titolare nel 1769, perviene
Matino in possesso dell'ultimo Ascanio padre del patriota: gliela
sottrarrà la legge bonapartista del 1806.
La periferia matinese ossida l'antico lustro dei del Tufo che non
hanno occasione di rinverdirlo e s'adagiano - per quel poco che se
ne sa - in sonnacchiosi ozi rurali, in pratiche devozionali corroborate
da frequenti legati ecclesiastici in cambio di suffragi per la propria
anima.
E', tuttavia, dovere di chi scrive accreditare all'ultimo marchese
di Matino una forte passione per i cavalli e non comune perizia ballerina.
E' notorio, difatti, che Ascanio del Tufo aveva introdotto ed allevato
in Matino, fino al 1827, una pregiata razza di cavalli, e, altresì,
che il 1797 aveva diretto le "controdanze" nella festa data
dal Preside Marulli nelle splendide sale del castello di Lecce in
onore di Re Ferdinando e della corte.
Il maturare dei grandi fatti risorgimentali rivelerà dei del
Tufo in linea coi tempi; sicché i fratelli Giovan Battista
e Giuseppe Antonio, in virtù della loro formazione giuridica
e di spiccate qualità umane, si proporranno quali protagonisti
di una realtà sociale carica di tensioni ideali e di fermenti.
Esponente emblematico della borghesia salentina e meridionale, assai
vicino ai nobili che con eccessiva leggerezza aderiscono alla rivoluzione
giacobina del 1799, e, mutati i venti, seppero rientrare nell'ombra
e perfino borbonicamente allinearsi., fu Giovan Battista del Tufo
della marchesale famiglia di Matino. Al pari di molti altri "rei
di Stato" salentini, come documenta Nicola Vacca, ebbe del Tufo
tentazioni repubblicane che si dissolsero non appena le plebi locali,
spiantati gli alberi della libertà, iniziarono la caccia agli
odiati giacobini.
Non posso affermare, tuttavia, che esistesse altra scelta in un clima
di politiche intemperanze come quello che la delirante plebaglia,
suggestionata dai falsi principi reali De Cesare e Boccheciampe e
allucinata dalla creduta indignazione di venerati simulacri, instaurò
nel Satento, ad istigazione dei borbonici, alt' indomani della fallita
rivoluzione giacobina. Eppure credo che se certo prudente trasformismo
sia comprensibile negli esponenti della nobiltà locale, non
avrebbe dovuto esser10 in quanti, sebbene espressi da quella nobiltà,
erano stati acculturati nei salotti napoletani all'illuminismo riformistico
venuto d'oltralpe e nutriti di rivendicazioni libertarie nel quotidiano
contatto con gli spiriti più generosi e le intelligenze più
elevate del Mezzogiorno! Giovò loro, evidentemente, il tranquillo
ambiente della periferia nel quale rischiarono generiche denunce e
sporadiche carcerazioni di contro agli afforcamenti subiti in Napoli
da comprovinciali quali il Massa, l'Astore, e il Falconieri.
Nato in Matino il 28 gennaio 1769 da Ascanio del Tufo e Giuseppa Raho,
Giambattista aveva studiato il Diritto ed ottenuto, il 6 marzo 1794,
il privilegio di esercitare l'avvocatura: era giusto l'anno che conduceva
sul patibolo il barese Emanuele De Deo formato alla scuola di Carlo
Lauberg, dal quale, forse, anche il del Tufo trasse alimento e aspirazioni
libertarie.
Ritornato in Matino, Giovan Battista si tenne sicuramente in contatto
coi circoli politici napoletani, diffondendo in provincia le nuove
idee e le disposizioni che gli pervenivano.
Coadiuvato dal fratello Giuseppe aveva saputo sensibilizzare, in Matino,
il padre Ascanio, il sindaco Donato Stefano, galantuomini come i rubricati
Tommaso Marra e Odoardo Mazza e perfino i famigli Giuseppe Greco e
Pasquale Nassisi.
Pervenuta notizia degli avvenimenti di Napoli, dove era stata proclamata
la Repubblica, il 10 febbraio di quel tormentato '99, del Tufo e i
suoi consorti matinesi sfilarono per le vie del Paese sfoggiando vistose
coccarde, tricolori.
Preceduto dal Marra, che reggeva la bandiera tricolore, dal Greco
e dal Nassisi che suonavano rispettivamente la tromba e la grancassa,
e seguito da un vociante codazzo di monelli che inneggiavano canti
di riscossa, il corteo raggiunse la pubblica piazza dove, tra due
"palombole di trappeto", fu piantato l'albero, simbolo di
libertà.
Il rituale, che con analoghe celebrazioni ebbe luogo in tutti i comuni
meridionali, si concluse con un Te Deum, "a premura del popolo",
e con il civico parlamento che, dichiarata decaduta la vecchia amministrazione
borbonica, nominò i nuovi membri della municipalità
repubblicana, tra i quali Ascanio e Giovan Battista del Tufo.
L'inattesa fine della Repubblica, vissuta appena lo spazio di un mattino
ed uccisa dalle orde sanfediste del cardinale Ruffo, procurò
arresti e impiccagioni, la confisca dei beni e l'esilio ai generosi
che l'avevano attestata.
In periferia, però, dove le notizie giungono ovattate ed in
ritardo, i tiepidi repubblicani non ebbero fastidi grazie a un voltafaccia
furbesco e tempestivo; così i blandi giacobini matinesi seppero
sottrarsi alle persecuzioni e al carcere.
Il mattino del 12 febbraio, a due giorni dalla farsa rappresentata
nella piazza di Matino, l'albero infame era sempre in piedi nel paesino
ignaro del sanguinoso epilogo avvenuto a Napoli e delle vendette consumate
in altri luoghi. Lo scorse, meravigliandosene, il commerciante Salvatore
Marziano di Noha, che, passando da Galatina per rifornirsi di derrate,
aveva saputo della restaurazione borbonica e delle efferatezze galatine
ai danni della malvagia insegna repubblicana.
Conoscendo il del Tufo, si recò subito ad informarlo della
novità, come risulta da una dichiarazione dal Marziano stesso
resa al notaio M. A. Luceri il 7 di novembre, vale a dire, con un
ritardo di circa nove mesi.
Il dichiarante espose testualmente che "andiede a ritrovare in
sua casa il Dr. D. Giovan Battista del Tufo di detto Matino che steva
ancora in letto e li riferì che nella città di essa
Galatina l'albore era stato spiantato, per cui il del Tufo si levò
subito dal letto, e toltasi la coccarda tricolore dal cappello, fattala
togliere a quelli calantuomini che si trovavano in sua casa, si portò
subito nel palazzo di quell'illustre marchese col quale concertò
che si menasse a terra l'albore di sopra detto, facendo spostare i
pezzi di trappeto succennati, com'esso attestante vidde eseguito circa
l'ore quindeci di detta mattina".
Per sottolineare il valore probatorio della propria testimonianza,
il Marziano aggiunse di aver udito con le proprie orecchie le decisioni
"di detto Dr. del Tufo e del marchese perché chiamato
da questo a raccontare il fatto della spiantazione di detto albore
nella città di Galatina".
Rientrato nell'ombra in attesa di tempi più propizi, Giovan
Battista del Tufo si dedicò esclusivamente alla propria attività
professionale, finché l'avvento dei napoleonidi al trono napoletano
gli offrì la possibilità di farsi apprezzare come, giudice
criminale e procuratore civile presso il tribunale di Lecce.
Il 1805 lo si ritrova componente del civico parlamento di, Matino
che e presieduto, con la qualifica di General Sindaco, dal fratello
Giuseppe; ne la parte anche l'anno dopo allorchè, nella tornata
del 7 settembre 1806, il nuovo sindaco notar Francesco Romano solleva
la spinosissima questione degli usi civici che interessa direttamente
Ascanio del Tufo, ex feudatario di Matino. Con 59 voti contro 7 il
civico consesso matinese si oppone, in conformità della legge
sull'eversione feudale, alle ingiuste pretese di Ascanio che nega
il pedaggio sui suoi beni e la raccolta della legna nella parte superiore
delle serre.
Il decennio 1806-1815, caratterizzato dalle importanti innovazioni
di Giuseppe Bonaparte e del Murat, contenenti in nuce i germi del
diritto contemporaneo, fu determinante per l'ulteriore presa di coscienza
dei patrioti meridionali di cui tollerò e secondò i
disegni e le albeggianti organizzazioni carbonare.
Giovan Battista del Tufo fu tra i principali promotori della carboneria
salentina nelle cui prime formazioni rivoluzionarie militò
al fianco di valenti giuristi, quali il mesagnese Raimondo Geofilo,
e di titolati, quali il principe di Alessano Giuseppe Cassano d'Aragona
e il marchese di Sternatia Donato Maria Granalei.
Nella sua abitazione matinese, collegata da un sotterraneo alla serra
retrostante, e nella sua casina rurale sita in contrada "Mimmo"
-contrassegnata dalla dotta iscrizione APERTA AI BUONI / CHIUSA AI
CATTIVI, evidente parafrasi del NEMO MALUS INTRET già inciso
sul prospetto dell'Accademia leccese fondata dal Galateo - si vuole
convenissero i cospiratori amici di del Tufo e del fratello, tra i
quali, certamente, il tavianese Deodato Margiotta.
Il 25 novembre 1817 il Nostro partecipò alla famosa dieta di
Gatatina, portandovi il contributo delle proprie idee moderate e influendo
sulle decisioni dell'assemblea che, come è noto, non accolse
l'invocata unificazione delle sette ed optò per il negoziato
col generale Riccardo Church nella convinzione di non poter opporre
una valida resistenza alle milizie borboniche da quello comandate.
Ha pesato su del Tufo, come sull'Astuti, il Metraia, il Granafei,
il Cassano e gli altri capisetta salentini, l'accusa di aver tradito
la causa con l'aggravante di cospicui foraggiamenti all'emissario
di Ferdinando in cambio della propria impunità. Una più
acuta ed aggiornata disamina dell'episodio consente, tuttavia, di
affermare che il preteso "tradimento" dei capi fu, in realtà,
un saggio ripiego tattico, che garantì, con l'arresto e l'esecuzione
del feroce bandito Annicchiarico, la bonifica del brigantaggio organizzato
e l'intatta preservazione delle forze carbonare per le lotte del 1820
e del 1821.
La penuria di documenti sulle attività settarie dell'antico
distretto di Gallipoli vieta di conoscere il ruolo svolto da del Tufo
negli anni ruggenti che fruttarono quella Costituzione che il fedifrago
borbone di lì a poco rinnegò.
Denunciato l'8 marzo 1822, per segreti abboccamenti tenuti in Lecce
con patrioti greci, Giovan Battista fu destituito dalle funzioni di
magistrato e, quasi non bastasse, fu segnalato al fanatico intendente
Ferdinando Cito, in una delazione del 14 agosto 1824, come uno di
quegli "atei conosciutissimi" che, ad opinione dell'anonimo
ricorrente. nonostante avessero tradito il Re nel 1799, 1806, 1815,
1817, 1820, avevano ricoperto le più importanti cariche della
provincia.
Dalla solerte inquisizione del Cito emerse che il matinese e gli altri
denunziati "erano stati cattivi in tutti i tempi", e, altresì,
che "non ardivano riunirsi in setta, ma col peso della loro influenza
seminavano il seme del malcontento".
Risibile capo d'accusa sufficiente tuttavia, a procurargli l'esilio
a Napoli, da dove seguitò a corrispondere con i settari leccesi
Vincenzo Russo, Luigi Mastracchi, Gennaro Petruzzi, Pasquale Ferrante,
il marchese Vinchiaturo, il sacerdote Salvatore Nervegna, ed inoltre,
con Angelo Bax confinato a Bari ed il futuro ministro dell'interno
Liborio Romano, che era astretto in Trani.
Si sussurrò che il 1826 manovrasse per il trasferimento del
bieco Cito e che allo scopo raccogliesse del denaro.
Dopo la partenza di Cito, il 1828, del Tufo e gli altri esuli ritornarono
in provincia.
Non è possibile congetturare, ex silentio chartarum, circa
l'attività politica dei suoi ultimi anni, che trascorse in
Matino, discreto e riservato, coltivando il Diritto e beneficiando
il prossimo.
Lo colse la morte il 27 novembre 1842.
Con testamento olografo, rogato dal notaio Nicola Cherillo di Tuglie
il 27 luglio 1837, lasciò alla sorella Maria ed ai figli di
lei, Giuseppe, Saverio, Napoleone e Teresa del fu Nicola Piccinni,
la somma di 24 mila ducati ed immobili vari in Matino, Mesagne, Ruffano.
Non trascurò vitalizi in favore dei servitori e legati ecclesiastici.
Donò al clero di Matino la collezione di Diritto Canonico,
la Biblioteca di Lucio Ferrari e le opere di Paolo Sarpi, al cugino
Giuseppe Stelanachi la collezione di Diritto Romano, e i libri di
ascetica al sacerdote Salvatore Nassisi, cui raccomandò una
periodica lettura del Croiset e de La manna dell'anima del Padre Segneri.