§ Pagine di storia salentina

I DEL TUFO




Vittorio Zacchino



Stirpe di origine normanna, prese il nome da un feudo avellinese - Dalla corte di Napoli al marchesato matinese - La vicenda di Giovan Battista, giureconsulto e patriota.

Ultimo rampollo dei marchesi di Matino, che discendevano da antica stirpe di origine normanna, fu il giureconsulto e patriota Giovan Battista del Tufo.
Se è obiettivo della presente nota mettere a fuoco la sua partecipazione alle lotte per il risorgimento politico del Mezzogiorno, si ritiene, altresì, non inutile, per un completo profilo del personaggio, un rapido excursus storico tra i suoi ascendenti campani e salentini.
Ercole Menaboi, che il 1045 era giunto in Italia al seguito di Roberto Guiscardo, si vuole da Berardo Gonzaga essere stato il capostipite della famiglia cui aveva dato italico cognome il feudo avellinese detto Tufo.
Per l'appoggio dato agli Angioini ebbero in premio i suoi nepoti ulteriori titoli nobiliari in Aversa e Benevento e importanti incarichi politici in Abruzzo, Calabria e Terra d'Otranto, dove furono Giustizieri, a cavallo dei secoli XIII e XIV, Simone, Berardo, e Andrea del Tufo.
Sotto la dinastia aragonese e il viceregno spagnolo i del Tufo si segnalarono, non soltanto nell'arte della guerra, bensì come diplomatici, uomini di toga, di chiesa, e di lettere.
Particolari rapporti col Salento ebbe il giurisperito Giovan Battista che, a parte le delicate missioni politiche eseguite per Ferrante, Alfonso, e Federico d'Aragona, fu governatore di Lecce il 1482, ascrivendo a proprio merito la lotta efficace alla peste e la costruzione di un (non più esistente) Palazzo del Pubblico Governo dall'architetto Nicola Scancio edificato in Piazza degli Ammirati.
Consistente lustro ottenne la casata il 1481, dalla partecipazione di Giovanni e di Tiberio alla campagna militare per la liberazione di Otranto dai Turchi, e, il 1488, dalla vittoria di Giovan Battista nella giostra che ebbe luogo a Napoli; gliene sottrassero, però, Giovan Luigi e Giacomo, cui furono confiscati i beni per l'appoggio dato al Loutrech durante le lotte franco-spagnole del 1528-29.
Di un altro Giambattista, garbato illustratore in rime della Napoli cinquecentesca, Gino Doria ha scritto da par suo; così il Croce dell'omonimo marchese di Lavello che, il 1629, recitò nella commedia I figli ritrovati di Alfonso Torello.
Gravemente lesivo del prestigio dei del Tufo fu il feroce delitto, consueto nella Napoli viceregnale, che fu commesso il 1660 da Camillo del Tufo in difesa degli interessi dell'amico Diomede Carafa.
Dal puntuale racconto di Bartolomeo Capasso si viene a conoscere che il Del Tufo aveva dato un "buffettone a mano aperta" a Francescantono Coppola, creditore del Carafa.; lo aveva poi schernito in un comico duello, quindi, sfuggito ai sicari del rivale, lo aveva sorpreso nottetempo nell'ospitale monastero di Portacoeli e, "fattolo fermare dai suoi sgherri, di maniera che non si poteva in modo alcuno dimenare, miseramente lo scannò come se fosse stato un agnello".
Braccato dalla giustizia, Camillo si costrinse nel forzoso domicilio di S. Agostino degli Scalzi, da cui più tardi uscì per grazia vicereale.
Lasciamo, finalmente, l'assai vivace ambiente di Napoli e trasferiamoci nella periferica Matino, che dolcemente s'aggrappa ad uno degli ultimi gioghi delle serre salentine.
Ne è marchese nella seconda metà del Cinquecento Annibale de Persona o Persone cui succede, il 1575, la figliola Fulvia. Maritandosi costei al partenopeo Mario del Tufo, lega la signoria del proprio feudo ai successori di lui, che ne conserveranno il possesso fino al 1806.
I coniugi del Tufo, tuttavia, non rinunciano alla vita comoda della capitale e, agli inizi del '600, affittano Matino a Berardino Minuti per tremila ducati l'anno.
Diversamente dai genitori, Ascanio del Tufo ama vivere a Matino dove, il 1640, lo si trova feudatario; il fratello suo, Giacomo Antonio, viene invece ghermito da morte, il 1632, mentre naviga con una compagnia d'archibugieri, alla volta della Catalogna.
Ad Ascanio subentra Giuseppe verso il 1658, e a costui un nuovo Ascanio intorno al 1682; poi da Giambattista, titolare nel 1769, perviene Matino in possesso dell'ultimo Ascanio padre del patriota: gliela sottrarrà la legge bonapartista del 1806.
La periferia matinese ossida l'antico lustro dei del Tufo che non hanno occasione di rinverdirlo e s'adagiano - per quel poco che se ne sa - in sonnacchiosi ozi rurali, in pratiche devozionali corroborate da frequenti legati ecclesiastici in cambio di suffragi per la propria anima.
E', tuttavia, dovere di chi scrive accreditare all'ultimo marchese di Matino una forte passione per i cavalli e non comune perizia ballerina. E' notorio, difatti, che Ascanio del Tufo aveva introdotto ed allevato in Matino, fino al 1827, una pregiata razza di cavalli, e, altresì, che il 1797 aveva diretto le "controdanze" nella festa data dal Preside Marulli nelle splendide sale del castello di Lecce in onore di Re Ferdinando e della corte.
Il maturare dei grandi fatti risorgimentali rivelerà dei del Tufo in linea coi tempi; sicché i fratelli Giovan Battista e Giuseppe Antonio, in virtù della loro formazione giuridica e di spiccate qualità umane, si proporranno quali protagonisti di una realtà sociale carica di tensioni ideali e di fermenti.
Esponente emblematico della borghesia salentina e meridionale, assai vicino ai nobili che con eccessiva leggerezza aderiscono alla rivoluzione giacobina del 1799, e, mutati i venti, seppero rientrare nell'ombra e perfino borbonicamente allinearsi., fu Giovan Battista del Tufo della marchesale famiglia di Matino. Al pari di molti altri "rei di Stato" salentini, come documenta Nicola Vacca, ebbe del Tufo tentazioni repubblicane che si dissolsero non appena le plebi locali, spiantati gli alberi della libertà, iniziarono la caccia agli odiati giacobini.
Non posso affermare, tuttavia, che esistesse altra scelta in un clima di politiche intemperanze come quello che la delirante plebaglia, suggestionata dai falsi principi reali De Cesare e Boccheciampe e allucinata dalla creduta indignazione di venerati simulacri, instaurò nel Satento, ad istigazione dei borbonici, alt' indomani della fallita rivoluzione giacobina. Eppure credo che se certo prudente trasformismo sia comprensibile negli esponenti della nobiltà locale, non avrebbe dovuto esser10 in quanti, sebbene espressi da quella nobiltà, erano stati acculturati nei salotti napoletani all'illuminismo riformistico venuto d'oltralpe e nutriti di rivendicazioni libertarie nel quotidiano contatto con gli spiriti più generosi e le intelligenze più elevate del Mezzogiorno! Giovò loro, evidentemente, il tranquillo ambiente della periferia nel quale rischiarono generiche denunce e sporadiche carcerazioni di contro agli afforcamenti subiti in Napoli da comprovinciali quali il Massa, l'Astore, e il Falconieri.
Nato in Matino il 28 gennaio 1769 da Ascanio del Tufo e Giuseppa Raho, Giambattista aveva studiato il Diritto ed ottenuto, il 6 marzo 1794, il privilegio di esercitare l'avvocatura: era giusto l'anno che conduceva sul patibolo il barese Emanuele De Deo formato alla scuola di Carlo Lauberg, dal quale, forse, anche il del Tufo trasse alimento e aspirazioni libertarie.
Ritornato in Matino, Giovan Battista si tenne sicuramente in contatto coi circoli politici napoletani, diffondendo in provincia le nuove idee e le disposizioni che gli pervenivano.
Coadiuvato dal fratello Giuseppe aveva saputo sensibilizzare, in Matino, il padre Ascanio, il sindaco Donato Stefano, galantuomini come i rubricati Tommaso Marra e Odoardo Mazza e perfino i famigli Giuseppe Greco e Pasquale Nassisi.
Pervenuta notizia degli avvenimenti di Napoli, dove era stata proclamata la Repubblica, il 10 febbraio di quel tormentato '99, del Tufo e i suoi consorti matinesi sfilarono per le vie del Paese sfoggiando vistose coccarde, tricolori.
Preceduto dal Marra, che reggeva la bandiera tricolore, dal Greco e dal Nassisi che suonavano rispettivamente la tromba e la grancassa, e seguito da un vociante codazzo di monelli che inneggiavano canti di riscossa, il corteo raggiunse la pubblica piazza dove, tra due "palombole di trappeto", fu piantato l'albero, simbolo di libertà.
Il rituale, che con analoghe celebrazioni ebbe luogo in tutti i comuni meridionali, si concluse con un Te Deum, "a premura del popolo", e con il civico parlamento che, dichiarata decaduta la vecchia amministrazione borbonica, nominò i nuovi membri della municipalità repubblicana, tra i quali Ascanio e Giovan Battista del Tufo.
L'inattesa fine della Repubblica, vissuta appena lo spazio di un mattino ed uccisa dalle orde sanfediste del cardinale Ruffo, procurò arresti e impiccagioni, la confisca dei beni e l'esilio ai generosi che l'avevano attestata.
In periferia, però, dove le notizie giungono ovattate ed in ritardo, i tiepidi repubblicani non ebbero fastidi grazie a un voltafaccia furbesco e tempestivo; così i blandi giacobini matinesi seppero sottrarsi alle persecuzioni e al carcere.
Il mattino del 12 febbraio, a due giorni dalla farsa rappresentata nella piazza di Matino, l'albero infame era sempre in piedi nel paesino ignaro del sanguinoso epilogo avvenuto a Napoli e delle vendette consumate in altri luoghi. Lo scorse, meravigliandosene, il commerciante Salvatore Marziano di Noha, che, passando da Galatina per rifornirsi di derrate, aveva saputo della restaurazione borbonica e delle efferatezze galatine ai danni della malvagia insegna repubblicana.
Conoscendo il del Tufo, si recò subito ad informarlo della novità, come risulta da una dichiarazione dal Marziano stesso resa al notaio M. A. Luceri il 7 di novembre, vale a dire, con un ritardo di circa nove mesi.
Il dichiarante espose testualmente che "andiede a ritrovare in sua casa il Dr. D. Giovan Battista del Tufo di detto Matino che steva ancora in letto e li riferì che nella città di essa Galatina l'albore era stato spiantato, per cui il del Tufo si levò subito dal letto, e toltasi la coccarda tricolore dal cappello, fattala togliere a quelli calantuomini che si trovavano in sua casa, si portò subito nel palazzo di quell'illustre marchese col quale concertò che si menasse a terra l'albore di sopra detto, facendo spostare i pezzi di trappeto succennati, com'esso attestante vidde eseguito circa l'ore quindeci di detta mattina".
Per sottolineare il valore probatorio della propria testimonianza, il Marziano aggiunse di aver udito con le proprie orecchie le decisioni "di detto Dr. del Tufo e del marchese perché chiamato da questo a raccontare il fatto della spiantazione di detto albore nella città di Galatina".
Rientrato nell'ombra in attesa di tempi più propizi, Giovan Battista del Tufo si dedicò esclusivamente alla propria attività professionale, finché l'avvento dei napoleonidi al trono napoletano gli offrì la possibilità di farsi apprezzare come, giudice criminale e procuratore civile presso il tribunale di Lecce.
Il 1805 lo si ritrova componente del civico parlamento di, Matino che e presieduto, con la qualifica di General Sindaco, dal fratello Giuseppe; ne la parte anche l'anno dopo allorchè, nella tornata del 7 settembre 1806, il nuovo sindaco notar Francesco Romano solleva la spinosissima questione degli usi civici che interessa direttamente Ascanio del Tufo, ex feudatario di Matino. Con 59 voti contro 7 il civico consesso matinese si oppone, in conformità della legge sull'eversione feudale, alle ingiuste pretese di Ascanio che nega il pedaggio sui suoi beni e la raccolta della legna nella parte superiore delle serre.
Il decennio 1806-1815, caratterizzato dalle importanti innovazioni di Giuseppe Bonaparte e del Murat, contenenti in nuce i germi del diritto contemporaneo, fu determinante per l'ulteriore presa di coscienza dei patrioti meridionali di cui tollerò e secondò i disegni e le albeggianti organizzazioni carbonare.
Giovan Battista del Tufo fu tra i principali promotori della carboneria salentina nelle cui prime formazioni rivoluzionarie militò al fianco di valenti giuristi, quali il mesagnese Raimondo Geofilo, e di titolati, quali il principe di Alessano Giuseppe Cassano d'Aragona e il marchese di Sternatia Donato Maria Granalei.
Nella sua abitazione matinese, collegata da un sotterraneo alla serra retrostante, e nella sua casina rurale sita in contrada "Mimmo" -contrassegnata dalla dotta iscrizione APERTA AI BUONI / CHIUSA AI CATTIVI, evidente parafrasi del NEMO MALUS INTRET già inciso sul prospetto dell'Accademia leccese fondata dal Galateo - si vuole convenissero i cospiratori amici di del Tufo e del fratello, tra i quali, certamente, il tavianese Deodato Margiotta.
Il 25 novembre 1817 il Nostro partecipò alla famosa dieta di Gatatina, portandovi il contributo delle proprie idee moderate e influendo sulle decisioni dell'assemblea che, come è noto, non accolse l'invocata unificazione delle sette ed optò per il negoziato col generale Riccardo Church nella convinzione di non poter opporre una valida resistenza alle milizie borboniche da quello comandate.
Ha pesato su del Tufo, come sull'Astuti, il Metraia, il Granafei, il Cassano e gli altri capisetta salentini, l'accusa di aver tradito la causa con l'aggravante di cospicui foraggiamenti all'emissario di Ferdinando in cambio della propria impunità. Una più acuta ed aggiornata disamina dell'episodio consente, tuttavia, di affermare che il preteso "tradimento" dei capi fu, in realtà, un saggio ripiego tattico, che garantì, con l'arresto e l'esecuzione del feroce bandito Annicchiarico, la bonifica del brigantaggio organizzato e l'intatta preservazione delle forze carbonare per le lotte del 1820 e del 1821.
La penuria di documenti sulle attività settarie dell'antico distretto di Gallipoli vieta di conoscere il ruolo svolto da del Tufo negli anni ruggenti che fruttarono quella Costituzione che il fedifrago borbone di lì a poco rinnegò.
Denunciato l'8 marzo 1822, per segreti abboccamenti tenuti in Lecce con patrioti greci, Giovan Battista fu destituito dalle funzioni di magistrato e, quasi non bastasse, fu segnalato al fanatico intendente Ferdinando Cito, in una delazione del 14 agosto 1824, come uno di quegli "atei conosciutissimi" che, ad opinione dell'anonimo ricorrente. nonostante avessero tradito il Re nel 1799, 1806, 1815, 1817, 1820, avevano ricoperto le più importanti cariche della provincia.
Dalla solerte inquisizione del Cito emerse che il matinese e gli altri denunziati "erano stati cattivi in tutti i tempi", e, altresì, che "non ardivano riunirsi in setta, ma col peso della loro influenza seminavano il seme del malcontento".
Risibile capo d'accusa sufficiente tuttavia, a procurargli l'esilio a Napoli, da dove seguitò a corrispondere con i settari leccesi Vincenzo Russo, Luigi Mastracchi, Gennaro Petruzzi, Pasquale Ferrante, il marchese Vinchiaturo, il sacerdote Salvatore Nervegna, ed inoltre, con Angelo Bax confinato a Bari ed il futuro ministro dell'interno Liborio Romano, che era astretto in Trani.
Si sussurrò che il 1826 manovrasse per il trasferimento del bieco Cito e che allo scopo raccogliesse del denaro.
Dopo la partenza di Cito, il 1828, del Tufo e gli altri esuli ritornarono in provincia.
Non è possibile congetturare, ex silentio chartarum, circa l'attività politica dei suoi ultimi anni, che trascorse in Matino, discreto e riservato, coltivando il Diritto e beneficiando il prossimo.
Lo colse la morte il 27 novembre 1842.
Con testamento olografo, rogato dal notaio Nicola Cherillo di Tuglie il 27 luglio 1837, lasciò alla sorella Maria ed ai figli di lei, Giuseppe, Saverio, Napoleone e Teresa del fu Nicola Piccinni, la somma di 24 mila ducati ed immobili vari in Matino, Mesagne, Ruffano.
Non trascurò vitalizi in favore dei servitori e legati ecclesiastici.
Donò al clero di Matino la collezione di Diritto Canonico, la Biblioteca di Lucio Ferrari e le opere di Paolo Sarpi, al cugino Giuseppe Stelanachi la collezione di Diritto Romano, e i libri di ascetica al sacerdote Salvatore Nassisi, cui raccomandò una periodica lettura del Croiset e de La manna dell'anima del Padre Segneri.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000