|  Il mito dell'industrializzazìone, 
        alimentato dagli anni Sessanta, ha dato due risultati: un'industria episodica, 
        che quasi mai ha superato il livello della piccola e piccolissima impresa; 
        e la decadenza del settore primario, il quale, invece, se fosse stato 
        adeguatamente modernizzato, avrebbe potuto rappresentare una conveniente 
        fonte di reddito.  
         Il Salento non è 
          una grande provincia: si allarga per circa 2.760 chilometri quadrati, 
          e vi risiede una popolazione di circa 697 mila unità. Il saldo 
          migratorio 1951/1971 e stato notevole: hanno abbandonato questa provincia 
          circa 79 mila unità. In novantasei comuni, la popolazione attiva 
          ammonta complessivamente a 268 mila unità circa, quella non attiva 
          sfiora le 242 mila unità. Sul complesso della popolazione attiva, 
          quella dedita al settore agricolo è pari a circa 103 mila unità, 
          quasi il doppio rispetto alla quota di unità addette all'industria. 
          Gli addetti al settore primario, dunque, rappresentano, press'a poco, 
          un quarto della popolazione attiva in agricoltura nell'intera regione, 
          che ha - invece - cinque province. Ciò significa che il Salento 
          è ancora un'area in cui il settore agricolo è considerato 
          una zona di rifugio per chi cerca lavoro. Significa anche che l'agricoltura, 
          negli ultimi venti anni, non è stata ristrutturata: sono mancati 
          gli accorpamenti, la creazione di aziende autosufficienti, la qualificazione 
          del personale, la trasformazione della conduzione dal bilancio di autoconsumo 
          al bilancio da reddito. Ora sta arrivando, molto fitta, la rete delle 
          irrigazioni: ma la proprietà è ancora frantumata, le campagne 
          sovrappopolate, le infrastrutture complementari insufficienti, la meccanizzazione 
          inadeguata, la qualificazione professionale pressoché inesistente, 
          le trasformazioni colturali lente. L'agricoltura del Salento è, 
          dunque, in crisi. Crisi vuol dire, nel significato originale, momento 
          di fermenti che preludono od una crescita. Se è così - 
          e ce lo dimostreranno i prossimi anni - non si deve perdere tempo. Già 
          l'agricoltura italiana è tributaria all'estero per la carne e 
          le derrate alimentari. La concorrenza dei Paesi del bacino mediterraneo 
          è forte, e lo diventerà ancora di più nel momento 
          in cui la Comunità economica europea si allargherà, con 
          nuovi Paesi aderenti o associati. Allora, non solo non esporteremo più, 
          ma vedremo riversarsi da noi prodotti forse migliori e certamente a 
          costi più convenienti. Già ora noi, primi produttori al 
          mondo di olio e di vino, importiamo - per una ragion politica che non 
          è facile spiegare ai produttori agricoli, i quali d'altro canto 
          avrebbero ragione di non volerlo capire - olio e vino. 
          Presentate le prime cifre, fondamentali, esaminiamo ora i dati riguardanti 
          gli addetti al settore agricolo nella provincia salentina. Sul totale 
          delle cifre distinguiamo, fra parentesi, gli addetti di sesso maschile. 
          Gli imprenditori e i liberi professionisti agricoli sono, in tutti i 
          comuni della provincia di Lecce, 189 (173 di sesso maschile); i lavoratori 
          in proprio ammontano a 11.045 (di cui 7.249 di sesso maschile); i dirigenti 
          e gli impiegati 469 (371); i lavoratori dipendenti assommano a 89.202 
          (42.652); i coadiuvanti, infine, sono 1.933 (456). 
          Si nota subito lo scarso spirito imprenditoriale, probabilmente perché 
          non si considera il settore agricolo capace di creare validi redditi 
          da lavoro, e perché per intraprendere in questo settore significa 
          disporre di grossi capitali iniziali, di investimenti a grande rischio 
          e di lungo periodo, di bilanci consuntivi che dipendono in buona parte 
          dall'andamento stagionale del tempo e dagli umori dei mercati per i 
          prezzi. 
          Un altro dato interessante è quello dei lavoratori in proprio, 
          che sono solo un decimo rispetto a quelli dipendenti. Questi ultimi 
          rappresentano il grosso delle forze di lavoro addette all'agricoltura, 
          ma rivelano un'altra stortura: su un totale di poco superiore alle 89 
          mila unità, solo 42 mila e seicento sono addetti di sesso maschile; 
          46 mila 500 e più donne lavoratrici nel settore agricolo ben 
          danno la misura della "femminiIizzazione" del lavoro nei campi. 
          Perché? Perché le donne non trovano altri impieghi in 
          settori diversi; perché l'emigrazione ha stravolto le cifre, 
          si è portata via le braccia maschili; perché, infine, 
          prevale l'economia famigliare, per la quale non incide la qualificazione 
          professionale, dal momento che può assorbire benissimo il bracciantato 
          generico. 
          Altro aspetto rilevante: l'età media degli addetti all'agricoltura 
          nella penisola salentina si aggira sui 49 anni. Tenendo conto che agli 
          estremi statistici abbiamo le due età di 14 e 64 anni (fine della 
          scuola dell'obbligo, e soglia dell'età del pensionamento), e 
          che dunque l'età media perfetta si incontra a 39 anni (25 in 
          più rispetto a 14, e altrettanti in meno rispetto a 64), risulta 
          che la media salentina "sfora" di un decennio: e si tratta 
          di un calcolo ottimistico. Perché, nella realtà dei fatti, 
          la "senilizzazione" della popolazione agricola e ancora più 
          accentuata, soprattutto dopo il 1971 (censimento che abbiamo preso in 
          considerazione per i dati che riportiamo), anno in cui il problema dell'occupazione 
          giovanile si è profilato, con prospettive nel pubblico impiego, 
          nell'industria e nei servizi, ma non nell'agricoltura che, secondo una 
          diffusa quanto mistificatrice mentalità, oltre tutto non "dà 
          prestigio". 
          Com'è è utilizzata la campagna salentina? Secondo gli 
          ultimi rilevamenti, i seminativi interessano 79.243 ettari; le coltivazioni 
          permanenti legnose agrarie sono diffuse su 130.300 ettari; i prati e 
          i pascoli occupano globalmente 16.475 ettari. Si tratta di 226 mila 
          ettari, cui vanno aggiunti 2.406 ettari di superfici boscate e 95 mila 
          ettari di aree classificate di bonifica. Esaminiamo queste cifre. 
          Coltivazioni permanenti legnose agrarie: 24.871 aziende, per 31 mila 
          ettari, riguardano la vite; l'uva da vino è prodotta da 24.366 
          aziende, con 30.382 ettari; l'uva da tavola, da 680 aziende con soli 
          620 ettari; le aziende che coltivano l'olivo sono 57.090, per una superficie 
          complessiva pari a 86.209 ettari; quelle che producono agrumi e frutta 
          sono 3.391, con una superficie di 1.675 ettari. 
          Aziende con seminativi: .30.945 aziende, per una superficie di 51.907 
          ettari, producono cereali; di queste, 28.572 aziende, con una superficie 
          di 40.798 ettari, producono frumento. 
          Per quel che riguarda le coltivazioni ortive, abbiamo queste cifre: 
          11.098 aziende, per una superficie di 5.136 ettari. 
          Vediamo, ora, i tipi di conduzione aziendale. Le aziende a conduzione 
          diretta sono 60.356, e interessano una superficie di oltre 114.000 ettari; 
          quelle a conduzione con salariati e/o compartecipanti sono 14-302, per 
          una superficie di oltre ottantamila ettari. Altri tipi di aziende, 5.100, 
          per una superficie di circa 35.300 ettari. 
          Su 230.204 ettari che formano circa ottantamila aziende, la superficie 
          in proprietà è pari a 213.561 ettari; quella in affitto 
          è pari a 16.643 ettari. 
          Passiamo all'estensione aziendale: ci sono 58.432 aziende con una superficie 
          massima fino a due ettari, per un complesso di 44.410 ettari; le aziende 
          comprese fra due e cinque ettari sono 13.397, con complessivi 41.915 
          ettari; le aziende da cinque a venti ettari sono 6.204, con un ettaraggio 
          globale pari a 57.298 ettari; infine, le aziende con oltre venti ettari 
          sono 1.573, per una superficie globale pari a 86.581 ettari. 
          Come si vede, predomina la piccola e piccolissima proprietà contadina, 
          e prevale la conduzione su superfici assai modeste. Va tenuto presente 
          che, ai fini dell'imprenditorialità agricola, sia privata che 
          cooperativa, la Comunità economica europea, sulla base delle 
          esperienze statunitensi, canadesi, tedesche, francesi, olandesi, ritiene 
          che un'azienda sia autosufficiente a partire da 300 ettari in poi. 
          Sulla corte dei miracoli della campagna salentina opera un modestissimo 
          parco-macchine: 2.263 trattrici; 3.566 motocoltivatori; 10.846 motozappatrici. 
          Consistenza dell'allevamento: 4.792 aziende possiedono 26.253 capi di 
          bestiame bovino, di cui 8.159 vacche. Data l'esiguità della cifra, 
          ci pare assai eufemistico parlare di "aziende": in realtà, 
          si tratta di microscopiche proprietà domestiche, sparsa e quasi 
          disperse, che non sono assolutamente in grado di rifornire il mercato 
          locale, e dunque non danno origine a una produzione reale e ad un'economia 
          interessante. Basti pensare che la sola città di Lecce include, 
          nel suo agro, circa cinquemila capi; superano i mille capi gli agri 
          di Botrugno, Nardò e Otranto; intorno ai cinquecento capi troviamo 
          gli agri di Cavallino, Galatina, Lequile, Lizzanello, Maglie, Melendugno, 
          Mìnervino, Poggiardo, Santa Cesarea Terme, Tricase, Uggiano e 
          Vernole. Per gli altri agri si registrano cifre pressoché irrilevanti. 
          Su 96 comuni della provincia, 35 sono compresi in aree classificate 
          di bonifica. Riportiamo i nomi di questi centri, e, tra parentesi, gli 
          ettari inclusi nella bonifica: Acquarica (930); Alezio (673); Alliste 
          (1.025); Carpignano (71); Casarano (150); Castrignano del Capo (1.600 
          ); Copertino (419); Galatone (200); Gallipoli (2.067); Giuggianello 
          (240); Giurdignano (1.285); Guagnano (2.473); Lecce (17.055); Leverano 
          (2,773); Matino (301); Melendugno (4.720); Melissano (603); Minervino 
          (900); Morciano (650); Nardò (22.515); Otranto (7.615); Patù 
          (850); Presicce (1.684); Racale (1.047), Salice (2.216); Salve (2.954): 
          Sannicola (33), Santa Cesarea Terme (2.645); Squinzano (70); Surbo (1.290); 
          Taviano (1.900); Ugento (6.107); Uggiano La Chiesa (1.265); Veglie (2.364); 
          Vernole (2.840). 
          Infine, se si escludono i territori di Alezio, Bagnolo, Botrugno, Campi 
          Salentina, Caprarica, Giurdignano, Guagnano, Leverano, San Donato, Sogliano 
          Cavour, Spongano, Squinzano, Sternatia e Surbo, tutte le altre aree 
          comunali risultano possedere delle superfici boscate, con Vernole, Nardò, 
          Otranto, Gallipoli, Lecce, Melendugno e Ugento ai primi posti della 
          graduatoria provinciale. Ma si tratta pur sempre di superfici minime, 
          tutt'altro che apprezzabili ai fini delle produzioni di legno da reddito. 
          Cioè, in meno di un secolo si è capovolta una situazione 
          che vedeva Salento e Puglia fra le regioni più boscose dell'intera 
          penisola. Il disboscamento, storicamente, è stato determinato 
          da due cause: una più clamorosa, la lotta al brigantaggio, l'altra 
          più concreta, e certamente, nelle sue manifestazioni massime, 
          più vicina alla realtà: la ricerca, da parte delle popolazioni 
          salentine, di sempre nuove superfici coltivabili, in tempi in cui, cessato 
          lo stato di semi-anarchia borbonica, era subentrata la rigida legislazione 
          piemontese, e in cui le fonti e gli scarsi redditi nel Salento erano 
          basati quasi esclusivamente sull'agricoltura, l'artigianato e il commercio. 
          Si va verso gli anni Ottanta, che sono anni ,di frontiera. Gli anni, 
          cioé, in cui sarà necessario riorganizzare tutte le risorse, 
          trovarne delle nuove, sfruttarle razionalmente. L'emigrazione scenderà 
          a vista d'occhio, crescerà la domanda di lavoro e crescerà 
          la domanda di beni e servizi. Dall'altra parte, sarà necessario 
          tenere a freno proprio i consumi, e dunque le importazioni, altrimenti 
          il nostro Paese - che già oggi viene comunemente ritenuto sulla 
          linea di demarcazione tra Paesi industrializzati e Paesi del Terzo Mondo 
          - varcherà il confine, e sarà nei primi posti delle aree 
          sottosviluppate. 
          Da una recente indagine condotta dalla Exxon abbiamo appreso che le 
          fonti di energia (gas naturale, petrolio, olii combustibili, elettricità) 
          dovranno essere limitate al massimo, perché le materie prime 
          non sono inesauribili, e perché -almeno finora - non vi sono 
          fonti alternative in grado di sostituirle, e quelle che ci sono o si 
          prospettano (uranio, plutonio, energia atomica, energia solare) o sono 
          troppo costose, o sono incontrollabili dal punto di vista ecologico 
          e della salute pubblica. 
          Il settore primario gioca, in questa visione globale, un ruolo determinante. 
          Aver creato l'illusione di un'industria diffusa, capace di risolvere 
          tutti i problemi, di creare posti di lavoro e redditi per tutti, è 
          stato un errore politico e di politica economica gravissimo. Ci si è 
          accorti, anche se con ritardo, e ora si deve correre ai ripari. L'agricoltura, 
          non più considerata come rifugio, per forze di lavoro respinte 
          dagli altri settori, ma come area produttiva efficiente, moderna dal 
          punto di vista imprenditoriale, e soprattutto di "prestigio" 
          per le iniziative che può comportare (colture specializzate, 
          allevamenti, sperimentazioni, esportazioni), può essere un punto 
          di riferimento cardinale di questa frontiera.
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