Le perplessità
con cui, da parte di molti dei più autorevoli meridionalisti,
si accoglie ogni discorso che accenni all'opportunità di una
liquidazione della Cassa per il Mezzogiorno sono tutt'altro che ingiustificate.
E ciò almeno per due ordini di motivi. Agisce, innanzitutto,
la consapevolezza di quanto più deboli rispetto a quelli della
parte più avanzata del Paese siano la consistenza e il dinamismo,
le forze proprie e gli impulsi autonomi del Mezzogiorno. Lasciate completamente
a se stesse, alla logica spontanea delle attività economiche
e del mercato, le due Italie non vedrebbero ancora aumentare la distanza
che divide l'una dall'altra? La conclusione è ovvia. Imperfetta
e inefficace quanto si voglia, la Cassa vale, anche nella peggiore delle
ipotesi, a frenare l'automatismo di una struttura economica fatalmente
svantaggiosa per le regioni più deboli. La seconda considerazione
estende la prima sul piano della contestazione preventiva di eventuali
alternative alla Cassa. Quale compenso, si chiede, verrebbe dato al
Mezzogiorno per la soppressione della Cassa? L'azione delle Regioni?
Quella ordinaria dello Stato attraverso il Ministero del Bilancio e
gli altri suoi Organi? La risposta è nettamente pessimistica,
soprattutto per quanto riguarda le Regioni.
Sono, entrambi questi ordini di motivi, così seri e fondati da
non poterne evitare una adeguata considerazione. Va, però, detto,
intanto, che questi stessi meridionalisti riescono assai meno persuasivi
quando, a corollario delle loro tesi e delle loro preoccupazioni, adducono
giudizi relativamente rosei ed ottimistici sui trent'anni (ormai) di
"politica speciale" per il Mezzogiorno, sul cammino che esso
ha percorso in questi trent'anni e sulle sue condizioni attuali. Su
questo punto bisogna, invece, essere assai chiari. La realtà
va vista com'è. E la realtà è questa, nella sua
sostanza ultima di fondo: che in questi trent'anni l'apertura delle
forbici alle cui punte si trovano sventagliati il Nord e il Sud, è
rimasta quasi la stessa; la distanza fra le due lame non si è
ridotta che di poco. Chi potrebbe contestare che, intanto, il Mezzogiorno,
un suo cammino lo ha fatto? Ma il dato di fondo resta quello che si
è detto. Lo riconosce, del resto, Saraceno stesso. Il reddito
p ro-capite medio del Mezzogiorno, egli nota, è oggi il 59% di
quello centro-settentrionale, mentre vent'anni or sono ne era il 50%.
Ma a fronte di questo progresso davvero troppo lento sta il fatto che
nel frattempo oltre quattro milioni e mezzo di emigrati hanno svuotato
il Mezzogiorno: un quarto della sua popolazione attuale. La considerazione
di Saraceno sul reddito è eloquente, ma non è sufficiente.
Ad esso bisogna aggiungere che quel tanto di maggior reddito di cui
oggi si gode al Sud è dovuto in larghissima parte all'anormale
gonfiamento del pubblico impiego e delle pensioni sociali. Se non vi
fossero queste due grandi spinte, il reddito medio pro-capite del Mezzogiorno
sarebbe, in proporzione, addirittura minore rispetto a quello centro-settentrionale
di quanto non fosse vent'anni or sono. E lo stato attuale delle cose?
Anche qui non ci illudiamo. I fenomeni di modernità, di vigoroso
impulso aziendale, di audace e felice iniziativa sono frequentemente
riscontrabili nel Mezzogiorno, e magari più frequentemente di
quanto molti non credano. Ma essi restano marginali, restano "casi",
non connotano il sistema, non hanno una forza propulsiva determinante,
possono più difendere la propria prosperità e le proprie
fortune che avviare fortune e prosperità altrui. Ben più:
questi "casi" nella storia del Mezzogiorno non sono mancati
mai. Ignora veramente la storia meridionale chi crede che si tratti
di un fenomeno nuovo, quando, invece, alla ricorrente presenza di "casi"
del genere il Mezzogiorno deve molte delle sue pagine e del suoi aspetti
più felici. Solo che essi non hanno potuto mai far sì
che il Mezzogiorno superasse la soglia critica, l'indefinibile frontiera
oltre cui si riconosce lo sviluppo di una società industriale
(e ormai, alcuni dicono, post-industriale) moderna. E quanto all'economia
sommersa, essa porta certamente il lavoro, un reddito, e anche molto
di più, a tanti e tanti, in tanti angoli, interstizi e sottopassaggi
della vita economica. Sia la benvenuta. Ma come prospettiva di sviluppo,
come piano sul quale si possa determinare il decollo di una struttura
economica moderna, essa semplicemente non esiste. Non esiste neppure
come alternativa duratura alle soluzioni autentiche del problemi che
essa sembra risolvere. Il fatto è che lo sviluppo dei Paesi,
e tanto più quello di un Paese moderno, non avviene in immersione.
Ad esso non si addice l'apnea, ma il respiro vigoroso delle grandi trasformazioni
sociali.
E' questo, dunque, il punto fondamentale. Lo è anche per quanto
riguarda il giudizio storico sulla "politica speciale", sull'azione
della Cassa, e sui loro effetti.
Che cosa resta, allora, da fare? Si può lasciare in piedi il
"sistema" della "politica speciale", con tutti i
suoi organi e strumenti, a cominciare dalla Cassa, soltanto "vitalizzandolo",
come ha scritto Enzo Giustino, "con correttivi di carattere legislativo,
se si vuole, ma soprattutto con la consapevolezza da parte di tutti
i comprimari di utilizzare bene e con tempestività le risorse
di cui' si' dispone"? Francamente, appare piuttosto difficile concederlo.
Se anche lo si dovesse concedere, rimane il problema di come rivedete
la Legge 183 - 1975 dalla quale attualmente è retta la Cassa.
La legge - almeno questo è sicuro - non ha accontentato nessuno.
Gli elementi di rigidità procedurale, di pletoricità degli
organi, di false semplificazioni delle competenze furono, per la verità,
tempestivamente segnalati. Allora quegli allarmi non furono raccolti
e la legge ebbe un amplissimo consenso parlamentare e delle forze politiche
e sindacali. C'era la diffusa convinzione che la legge rappresentasse
"il punto di svolta per il nuovo modo di concepire l'intervento
straordinario in funzione dell'esperienza acquisita nel trentennio,
in relazione all'attuazione delle regioni". Né la cattiva
prova tecnica della legge è stata riscattata da una buona prova
politica.

Da parte comunista
si sostiene che, anche dopo la 183, la Cassa continuò ad operare
i suoi interventi coi criteri del periodo precedente, quello della presidenza
Pescatore, e cioé con una dispersione di opere pubbliche e di
iniziative sollecitate per lo più dai potentati politici locali
delle varie regioni meridionali, naturalmente individuati nelle file
democristiane. Ma vi sono anche opinioni diverse. Petriccione, ad esempio,
afferma con decisione che nell'esperienza degli ultimi anni il Pci,
per quanto riguarda la Cassa, "si è diviso fra l'atteggiamento
puntiglioso e moralista dell'economista Mariano D'Antonio, che ha finito
con favorire oggettivamente De Mita e il cinismo di destra di Napoleone
Colajanni, che voleva semplicemente spartire il potere". Perciò,
a suo parere, "il Pci ritenne che l'accordo con la Dc fosse preminente:
il patto Scotti-Colajanni tagliò fuori tutto il gruppo riformatore
della Cassa". Il giudizio è, dunque, tutt'altro che facile.
Certo è che la presidenza Cortesi, contrapposta come "tecnica"
e "manageriale" a quella "politica" di Pescatore,
non ha potuto soddisfare le aspettative per le quali era stata promossa.
Qualcuno ha addirittura rimpianto la gestione, più empirica e
"politica", ma, tutto sommato, più realizzatrice di
Pescatore.
Ecco perché un rilancio puro e semplice, e magari qualche ritocco
legislativo della 183, non appaiono soddisfacenti come linea con la
quale prepararsi alla scadenza di essa. Se si ritiene che, tutto sommato,
malgrado il sostanziale insuccesso della "politica speciale",
malgrado tutte le critiche di ieri e di oggi, La Cassa non vada sciolta,
allora la si ripensi profondamente. Le opzioni di fondo della politica
per il Mezzogiorno (quelle che Saraceno giustamente sintetizza nel primato
da dare allo sviluppo industriale e nella richiesta di una politica
nazionale programmata anche in funzione delle esigenze del Mezzogiorno)
restano fuori discussione; e, per quanto generali e remote nelle loro
premesse esse possano apparire, vanno sempre richiamate. Possono restare
fuori discussione, con quei correttivi che sono dettati dalle esigenze
e dalle esperienze maturate nel frattempo, alcuni obiettivi fissati
dalla stessa 183: la scelta di "progetti speciali" come criterio
di valutazione e di definizione degli interventi; la selezione degli
incentivi per l'industrializzazione; il reale avvio dell'assistenza
tecnica alle Regioni. E restano naturalmente fuori discussione tutti
i numerosi fili che legano quelle premesse più lontane a questi
obiettivi più recenti.
Ma, per il resto, appare da ripensare un pò tutto. A cominciare
dagli strumenti che possano e debbano assicurare il collegamento fra
"politica speciale" per il Mezzogiorno e scelte nazionali
a tutti i livelli e in tutte le sedi. Le Regioni meridionali possono
avere tutti i torti immaginabili per i ritardi con i quali hanno (o
non hanno) proceduto ad attuare i loro adempimenti in rapporto alla
183. Ma Governo, Parlamento, partiti, sindacati, aziende pubbliche e
private vanno chiamati in causa per il fatto che da trent'anni a questa
parte, ma forse negli ultimi anni in misura maggiore, "ad una politica
nell'area e per l'area meridionale hanno corrisposto - come a ragione
ha notato di recente Vittore Fiore - sia una politica contraddittoria
fuori dell'area meridionale, sia una non meno incoerente politica generale
economico-finanziaria". Le scelte oggettivamente antimeridionali,
che spesso ci si vede costretti ad addebitare a sindacati e ad imprese,
hanno nella carenza del quadro generale un forte alibi e un'ottima condizione
per manifestarsi, se non per esserne sollecitate.
Andiamo, dunque, ad una franca e spregiudicata discussione sulla "politica
speciale" per il Mezzogiorno, non impostandola pregiudizialmente
come un referendum drammatico: Cassa sì, Cassa no. Che il Mezzogiorno
non ce la possa fare da sé è tanto evidente che non gli
sono giovati (anche per la grave mancanza di veri e propri collegamenti
con la politica generale) trent'anni di "politica speciale".
D'altra parte, se è vero che non possiamo dire che cosa sarebbe
accaduto "se non vi fosse stata nemmeno la Cassa", è
vero pure che è del tutto irrealistico ed antistorico il credere
che i progressi del Mezzogiorno in questi trent'anni (o altri) non si
sarebbero in qualche modo avuti anche senza la Cassa e che il Mezzogiorno
sarebbe altrimenti rimasto seduto e immobile.
L'esperienza ci consente sia di apprezzare, per quanto si può,
l'azione della Cassa, che di essere liberi da ogni forzato condizionamento
al mantenimento di essa. E' un anno di tempo, quanto manca cioé
alla scadenza della 183, è un lasso di tempo sufficiente sia
per valutare le profonde revisioni che sono, comunque, necessarie per
una finalmente soddisfacente tenuta della Cassa, se ci si decide per
la sua conservazione; sia per definire e valutare gli strumenti e gli
organi alternativi al quali, altrimenti, (e come, a più o meno
breve scadenza sia detto chiaramente anche ciò appare inevitabile),
bisognerà far ricorso per mantenere e potenziare la necessaria
politica per il Mezzogiorno. Anche se, purtroppo, (e sull'argomento
bisognerà ritornare), né ciò che si è finora
sentito per quelle revisioni, né ciò che si è sentito
per queste alternative è tale da aprire l'animo ad una reale,
grande fiducia.
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