Esistono degli oggetti
d'uso comune, delle tecniche quotidianamente impiegate di cui nessun
libro di storia, nessuna iscrizione o descrizione in cronache e manuali
antichi, nessun punto preciso di riferimento attuale ci permette di
determinare, sia pure per approssimazione, l'anno di fabbricazione o
il periodo in cui tali tecniche sono nate all'uso. Alcuni attrezzi di
lavoro ad esempio, data la loro semplicità ed appartenenza ad
ambiti considerati sempre al di fuori della Storia, non hanno mai avuto
un cronista attento a testimoniare l'atto della loro nascita.
Può capitare così che esistano informazioni piuttosto
precise e dettagliate intorno a strumenti, oggetti o tecniche del passato
- quella della mummificazione, per esempio - di cui oggi non vi è
più pratica e che, nel contempo, ci si trovi alla presenza di
oggetti d'arte povera tuttora esistenti o di reperti archeologici di
cui non si conosce con sicurezza né l'origine né la funzione.
Penso ai menhir, tanto per proporre un altro esempio.
L'uomo contemporaneo si trova davanti ad un blocco di pietra, ad un'immagine
precisa e riprodotta quasi in serie, di cui non legge con chiarezza
i segni e non coglie con certezza il significato. Queste ed altre considerazioni
del genere mi è venuto di fare ritrovandomi davanti, dopo tanto
tempo, una serie di fotografie scattate da me stesso una ventina di
anni fa e poi quasi dimenticate. Le foto - quelle qui riprodotte mostrano
degli oggetti oggi ancora facilmente decifrabili e riconoscibili da
chiunque anche senza didascalie; ma proviamo per gioco ad immaginarle
in mano, giunte miracolosamente intatte attraverso uno o due secoli
di storia, ad un uomo del futuro. Cosa crederà che rappresentino?

Un rudimentale sistema di misurazione del tempo ad uso dei contadini
esistiti nei secoli passati? (Foto n. 1). Una tomba primitiva in cui
è tumulato un importante personaggio? (Foto n. 2).

Un cono vulcanico
da cui fuoriescono vapori sotterranei munito di scaletta per l'osservazione
dell'interno? (Foto n. 3).

La mia domanda
non è fuori luogo se si pensa, forse anche con una dinamica ingenua,
quali progressi. potrà fare la nostra civiltà, quando
la mente umana appiattisca ogni prospettiva storica e come resistano,
a volte per millenni e sotto gli occhi di tutti, oggetti e riti (la
pietra forata di San Vito) appena appena decentrati rispetto alle città,
grossi centri d'irradiazione di ogni nuova invenzione.
Apporre le didascalie a queste foto limitandone la polisemìa
mi pare quindi un obbligo: ESSE RAPPRESENTANO LE DIVERSE FASI DI PREPARAZIONE
DI UNA CARBONAIA.
L'esigenza di essere meno generico e succinto mi ha spinto poi a cercare
qualche notizia più precisa sull'argomento ed ho condotto una
ricerca in due diverse direzioni: una in biblioteca ed una sul campo.
La più fruttuosa e indubbiamente la più viva ed eccitante
è stata la ricerca condotta sul campo. Ho rintracciato così
delle persone, tutte anziane, il cui mestiere si può qui annoverare
tra quelli ritenuti ormai decisamente scomparsi: il carbonaio.
I craunari di Calimera, nei tempi passati, erano tra i più noti
di tutto il Salento. Chiamati a lavorare nelle campagne e ai limiti
dei boschi del Capo come anche del nord delle provincie di Brindisi
e di Taranto, abbandonavano le loro case e le loro famiglie per poter
guadagnare una tra le paghe più miserabili che si possano immaginare.
Tutti neri di polvere di carbone, vennero anche descritti dal De Giorgi
in una gustosa poesia satirica dal titolo "Traversando Calimera".
Con questi uomini umili, semplici, silenziosi, affamati, incredibilmente
lavoratori, geniali, scompare una delle tecniche più ingegnose:
quella della trasformazione del legno in carbone.
Quando tale tecnica sia nata e dove, io non so; né ho gli strumenti
idonei per indagare. Spetta semmai allo storico delle tecniche, e non
solo a lui, fare la storia di questa meravigliosa macchina effimera
che è la carbonaia. Ancora una volta è dal concerto di
più discipline che dobbiamo attenderci un po' di luce. Forse
non sapremo mai chi pensò per la prima volta di costruire una
tale macchina, dove fu costruita e quali bisogni urgenti la determinarono,
ma sicuramente potremo conoscere molto di più di quanto di questa
straordinaria invenzione sappiamo. lo, ora, qui posso solo sommariamente
descriverne il funzionamento in base alle informazioni generose che
ho ricevuto e, brevemente, delineare le condizioni sociali degli uomini
che intorno ad essa lavoravano con estrema dedizione e maestria. Di
essa per il futuro rimarranno solo dei documenti fotografici.

Il termine carbonaio (craunaru) comprendeva due generi di lavoratori:
i partitari e i macchialùri; ma se esistevano due termini differenti
per indicare più o meno lo stesso lavoro, per le leggi dell'economia
dovevano pur esistere, nella realtà, due ordini di lavoratori
che avrebbero presentato sicuramente differenze almeno in qualche momento
del lungo processo di trasformazione del legno in carbone.
Vediamo più da vicino con una lente linguistica.
In una delle sue accezioni il termine partita indicava ed ancora indica
una "quantità di merce che si contratta nel commercio all'ingrosso";
es.: una partita di tessuti. Per quanto riguarda il nostro campo semantico
il solo termine partita, senza alcuna aggiunta, indicava inequivocabilmente
"una certa quantità di alberi". Da partita deriva partitaru:
colui che va alla partita. Scìu alla partita. Stàe alla
partita.
Da macchia deriva macchialùru: colui che va alla macchia.
I partitari facevano le carbonaie e quindi i carboni con gli alberi:
d'ulivo, di quercia ecc. I macchialùri invece, ripuliti i boschi
degli arbusti, dei cespugli, lo facevano con questi spurghi.
Il sistema della carbonaia rimaneva identico, ma il carbone che ne derivava
era ovviamente di qualità diversa a seconda della materia prima
impiegata; e inoltre, le carbonaie dei macchialùri erano piuttosto
piccole, di 518 quintali di carbone al massimo, mentre quelle dei partitari
erano enormi e potevano arrivare anche a 150 quintali.
Queste le differenze. Vediamo ora come si svolgeva praticamente il lavoro
seguendo, per comodità, i partitari.
Innanzitutto approntavano la materia prima: il legno. Tiravano giù
gli alberi scavando intorno al colletto per far venire fuori il ceppo
con tutte le radici, poi li segavano e li dividevano nelle varie parti:
rami, tronco, radici. I pezzi di legno sezionati, in genere, misuravano
mezzo metro o anche più; la dimensione dipendeva da quanto grande
doveva essere la carbonaia. Se doveva essere di una tonnellata di legno
si potevano lasciare pezzi piuttosto massicci, pesanti anche uno o due
quintali. Per la costruzione ad arte della carbonaia occorrevano però
pezzi di misure e peso variabili: da un quintale a pochi chili. Tutte
le parti dell'albero venivano utilizzate e quindi trasformate in carbone.
Una volta pronto il legname nelle varie suddivisioni, bisognava trovare
un sito pianeggiante per poter impiantare la carbonaia. Se non esisteva
nei paraggi, bisognava allora spianarlo. Fissato con un bastoncino,
con un ramo o altro il punto centrale della carbonaia, veniva sistemato,
a corona, tutt'intorno uno strato di legname. (Foto n. 1). I pezzi grossi
verso l'esterno, i più piccoli e secchi all'interno e tutti in
senso orizzontale. Poi si alzava all'altezza di un metro circa. Dopo
di che si cominciava a sistemare l'altro legno in senso verticale, su
su fino a costruire una specie di cupola. "Come una mezza arancia".
Alla sommità si lasciava aperto un foro di una sessantina di
centimetri di diametro. Questo foro, come canna di camino, doveva essere
alto quanto tutta la carbonaia stessa e lo si praticava man mano che
la si alzava Nella costruzione si utilizzavano legni di grandezza sempre
minore man mano che si andava verso l'alto, a chiudere, in modo da non
lasciare significativi interspazi altrimenti la terra che poi si sarebbe
messa sotto non avrebbe retto. "Bisognava che alla fine somigliasse
alla cupola dell'orchestra della festa".
Prima di mettere la terra si tappavano con le radici tutti gli spazi
rimasti nella parte esterna tra pezzo di legno e pezzo di legno; poi,
sempre perché la terra non penetrasse nell'interno, si rivestiva
la calotta con delle strome (Foto n. 4). Infine, completamente ed accuratamente
perché non passasse l'aria, si copriva il tutto di terra sino
ad ottenere una specie di tumulo (Foto n. 2). Costruita in questo modo
la carbonaia, si sistemavano tutt'intorno, a circolo, delle frazzate
fino a formare una specie di riparo di una certa consistenza che avrebbe
funto, quando la carbonaia sarebbe stata messa in funzione, da ventilatore.
Per finire si praticava una scaletta di pietra e legna che sarebbe servita
per arrivare agevolmente alla sommità, ed alimentare e curare
la carbonaia (Foto n. 3). Si accendeva quindi un fuoco non molto lontano
dalla ingegnosa costruzione poi, con una pala e le carderine, lo si
trasferiva nel cuore della carbonaia attraverso il foro della sommità.
Per alimentare a seconda dell'occorrenza la brace ardente così
trasferita, si buttava dentro della legna minuta e ben secca fino a
crearvi un deposito di fuoco. Tale fuoco, di tanto in tanto, andava
accarezzato con altra legna. A questo punto si praticavano nella parte
bassa della carbonaia dei buchi. Il primo giorno venivano effettuati
ad una certa altezza; poi, man mano, più in alto, a petto d'uomo,
fino a giungere quasi alla sommità (Foto n. 5). La sera i buchi
venivano chiusi per rinforzare il legno, nel senso che, se all'interno
vi era ancora del legno verde, con il calore si asciugava, perdeva il
lattime. I buchi non si chiudevano da soli perché durante i primi
giorni da essi fuoriusciva un fumo grasso e umido che quasi cementava
la terra. "La carbonaia suda". (Foto n. 6). Se la carbonaia
era fatta d'estate bisognava intervenire ad umidificare i buchi con
dell'acqua data la notevole aridità della terra., Il secondo
giorno bisognava chiudere il primo ordine di buchi e farne un altro
ad altezza superiore. I buchi dovevano essere distanti l'uno dall'altro
una trentina di centimetri. Quando si era sicuri che finalmente la carbonaia
aveva interamente preso fuoco, si riempiva il buco centrale di legname,
poi lo si copriva con delle strome e quindi lo si chiudeva con della
terra. Man mano che il fuoco con il tempo mangiava il legname questa
terra si abbassava, scendeva dentro. Il suo livello andava controllato
di frequente perché fungeva da indice. Prima che la terra andasse
giù del tutto, si riapriva il buco con un fuste molto lungo che
serviva appunto per la sfundatura, poi si misurava quanto legno si era
consumato quindi si riattizzava il fuoco con del colpi, lo si alimentava
con nuova legna e infine si richiudeva il buco. Il fuoco, man mano che
consumava il legno, apriva qua e là altri varchi attraverso i
quali si introduceva nuovo legname. Tali buchi spontanei, in genere,
si aprivano nella parte superiore della cupola. La forza al fuoco della
carbonaia veniva data da un tiraggio che si formava tra i fori praticati
nella superficie della calotta e il riparo di strome sistemato tutt'intorno.
"Era il fuoco che guidava e insegnava dove si doveva intervenire
a metter legna". Dove la terra si avvallava, lì con il fuste
si doveva sfondare e spingere il fuoco ad andar giù in modo da
evitare di fare tizzunare.

E così, con mille attenzioni ed accorgimenti, si andava avanti
per giorni, a seconda della terra, a seconda delle stagioni. D'estate,
una carbonaia di 50/60 quintali veniva fatta in una diecina di giorni.
La stessa, d'inverno, aveva bisogno di una quindicina.
Gli elementi che davano il segno che la carbonaia era fatta erano: la
terra e il fumo.
Quando la terra si cuoceva, in genere, cedeva; allora voleva dire che
il fuoco era arrivato in superficie e che quindi tutto il legno era
ormai carbone. Dove la terra era cotta si chiudevano i buchi. Il colore
del fumo variava nei giorni. Agli inizi, quando ancora c'era tutto legno
fresco, il fumo era bianco, lattiginoso. Quando il fuoco stava per arrivare
in superficie il fumo diventava turchino; diventava viola quando era
di carbone. I carbonai non avevano mai paura della terra. "Terra
fa carboni" dicevano e la osservavano, la toccavano, la curavano
giorno e notte.
"Ma quando la carbonaia era pronta - chiedo a Nino Tommasi di Calimera,
uno dei miei più importanti informatori -da dove cominciavate
a disfarla?". Ecco la risposta in tutta la sua immediatezza.
"Da dove voleva la cranara Essa comandava, non tu. Da dove cadeva
la terra, da dove si sfondava, da lì cominciavamo. Ma non era
un lavoro che si faceva tutto in un giorno. Se non era tutta cotta la
si ricopriva immediatamente e si andava avanti a far cuocere la parte
rimasta, facendo altri buchi. Quando tutta la cranara era cotta bisognava
rinfrescarla; e allora si toglieva il mantagno di fascine che la proteggeva
dal vento. Il forte vento alterava il fuoco e il carbone veniva mangiato.
Dunque, si toglieva la terra dalle frazzate che in genere non erano
consumate e si divideva la cranara in quattro
smancate che si pulivano quarto per quarto chiudendo tutto dopo ogni
quarto. Con i raschi si puliva e si tirava fuori il carbone (Foto n.
7). Tante volte ci poteva essere ancora il fuoco. Ed erano dolori. Ma
già la stessa terra scottava; se poi era terra argillosa non
ne parliamo! Tanti svenivano per il troppo caldo. Poi formavamo dei
cavalli di carbone pulito e scelto a seconda della qualità -
c'era la rimonda, il canciulàno la munda vecchia ecc. - e infine
riempivamo i sacchi per quelli che li dovevano caricare e portare via".
(Foto n. 8). Dalla descrizione, anche se approssimativa, di questo equilibratissimo
procedimento si può intuire quale fatica e quale arte si richiedeva
ai lavoratori del carbone: partitari o macchialùri che fossero.
Una carbonaia grossa esigeva intorno a sé sei o sette persone
fisse.

Ed ecco com'era organizzato il lavoro. I craunari venivano assunti da
un padrone. Questi in genere acquistava delle partite d'alberi - potevano
essere d'ulivo o di quercia - e una volta ottenuto il carbone lo distribuiva
ai commercianti perla vendita o l'esportazione in altre regioni. I tempi
d'ingaggio erano proporzionali al numero delle carbonaie da fare e quindi
alla importanza della partita. Sul posto di lavoro si recavano in bicicletta,
raramente con altri mezzi e lì vi rimanevano per tutto il tempo
necessario. Se il periodo di occupazione era lungo veniva loro permesso
di tornare a casa ogni 15 giorni oppure, a seconda della distanza del
luogo di lavoro da quello di residenza ogni 22. Il più delle
volte però, passati 15 o 20 giorni, terminava il loro ingaggio
e i craunari si ritrovavano nuovamente senza lavoro. Vivevano sia d'estate
che d'inverno accampati generalmente negli 'mbracchi vicini alle carbonaie
(Foto n. 9 e 10).
La ditta offriva la "pignata": piselli, fagioli o ceci, compreso
il condimento dell'olio. Il pane e il vino erano invece a carico dei
lavoratori i quali, ogni otto giorni, ricevevano dai propri familiari,
portata da un traino apposito, la sacchetta contenente roba da mangiare
- frise, recce, pucce, -, biancheria pulita, qualche sigaretta.
La pignata la si consumava generalmente di sera quando, al buio, non
si potevano neanche vedere i falaùri: la carne dei piselli.
Al tramonto del sole era permesso un breve intervallo per fumare una
sigaretta.

Le ore di lavoro non si contavano.
Un informatore richiesto di quante ore aveva lavorato al giorno ha risposto:
"De sòle 'n sòle", precisando successivamente:
da prima che nascesse il sole fino a dopo il tramonto del sole. Questo
lavoro svolto in condizioni disumane e retribuito con salario appena
sufficiente a mantenere in vita una famiglia, ora, per ragioni di progresso
che tutti conosciamo, non esiste più. Bene. Della carbonaia,
straordinaria macchina effimera costruita con mani sapienti da partitari
e macchialùri, per la sua stessa provvisorietà congenita,
si sta ormai perdendo qualsiasi traccia. Male. I giovani di oggi anche
se, probabilmente, ne conoscono il termine, pur vivendo in zone rurali
non ne hanno mai vista una.
Era una macchina perfetta in cui ingegneria, chimica e fisica si trovavano
insieme per trasformare artificialmente in carbone il legno, usando
come mezzo il fuoco, l'elemento distruttore e consumatore per eccellenza.
Un'invenzione degna di Leonardo da Vinci!
Gli artefici di quest'opera erano, poveri tra poveri, disprezzati e
ritenuti lavoratori di seconda categoria. Nel linguaggio corrente infatti,
i termini partitaru e macchialùru indicavano sì un mestiere
ma quasi sempre erano connotati negativamente. Ho chiesto ad uno di
loro se conosceva la nomenclatura greca o romanda di quanto andava spiegandomi
con mille circonlocuzioni e con termini non sempre dello stesso campo
semantico, ecco la risposta.
"No. Noi mettiamo ... noi facciamo. Adesso ne stiamo parlando,
ma noi facciamo ... costruiamo ... mettiamo una cosa sull'altra. Sono
cose usuali. Non abbiamo bisogno di parlare".
e una "sapienza repressa"; a loro non è stato neppure
concesso di imparare ad esprimersi. Silenzi come questo, spesso, stanno
dietro a tanti mestieri ed arti della vita popolare.
Le fotografie qui proposte, con questa breve nota ricondotte semanticamente
ed inequivocabiImente alla loro essenza, testimonieranno per l'uomo
dei futuro la realtà e la saggezza di tante generazioni di uomini
senza gloria e senza parola, neanche quella necessaria per raccontare
la propria tragedia. Il mondo che queste foto tacitamente raccontano,
come abbiamo visto, è un mondo di lavoro estremamente complesso
e non basta certo questo scritto a definirlo. Tuttavia io mi auguro
che serva a scuotere l'interesse di studiosi di settori più specifici
e, se non altro, almeno il nostro rispetto per queste sapienze che sono,
spesso, fondamento della nostra Cultura.
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