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L'OPERA DEL FILOSOFO DI TAURISANO NEL GIUDIZIO DI LUIGI CORVAGLIA
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La sfinge Vanini |
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Luigi
Del Piano, Rosy Gulino
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Ebbe i natali da
Giovanbattista e dalla splendida Beatrice Lopez de Noguera. Ben presto,
ha scritto di lui Luciano Milo, "si rivelò spirito vivace,
curioso, irrequieto; avido di letture e pronto al dialogo, aperto al contatto
umano: doti che non gli verranno mai meno Visse in un'età critica,
in un'epoca che sentiva - intenso - il bisogno di uno spirito nuovo, di
una cultura diversa, che dessero uno scrollone e liberassero l'uomo da
un passato che ormai non aveva più nulla da dire. Quanto del Neoclassicismo
e dell'Età Rinascimentale poteva proiettarsi nell'arte, nella letteratura
e nelle scienze, era poca cosa. Alle porte della storia bussava il pensiero
barocco, un discutibile pensiero artistico, che avrebbe sconvolto i canoni
di un'età che pure aveva illuminato il mondo ma che avrebbe finito
quasi col contemplare se stesso, la sua astrusa bizzarria, il suo vuoto
verticale, la sua frondosa ampollosità, l'estremo compiacimento
dell'arte per l'arte; ma bussava anche il pensiero scientifico, quello
che ci avrebbe dato i momenti più alti, anticipatori della ricerca
moderna, e soprattutto che avrebbe coinvolto, per forza di cose, morale
e religione, modi di vivere e modi di credere, di sentire, di essere soggetti
razionali. Studiò giurisprudenza a Napoli, poi seguì i corsi
di teologia a Parigi. Poco più tardi, indossò l'abito dei
Carmelitani. Erano gli anni dell'imperatore Carlo Quinto: trionfavano
un sole intramontabile sui domini spagnoli e una potenza senza limiti
dell'Inquisizione. Un momento propizio, dunque, alla predicazione di una
nuova visione del mondo (e della morale, della religione), sul filo del
rasoio, sulla linea di displuvio al di qua e al di là della quale
si fondono, o confondono, profezia ed eresia. E in queste acque mescolate,
in questo magma incandescente, pescavano a piene mani i tribunali ecclesiastici.
Le testimonianze che ci restano del Vanini sono variamente (e contraddittoriamente)
interpretate. Figura ed opera restano al centro di accese polemiche. Alcuni,
sostiene Milo, ritengono Giulio Cesare Vanini uno dei primi spiriti che
affrancarono l'uomo da ogni condizionamento religioso, espressione anticipatrice
del libero pensiero, che avrebbe dominato nelle epoche successive, fino
ai nostri giorni; per altri, invece, e primi fra tutti i giudici dell'Inquisizione,
fu solo un irriducibile apostata."In effetti, in lui sono già
presenti, e in modo assai scoperto, le istanze dell'Illuminismo, le richieste
della sovranità della ragione, cioè le esigenze dell'uomo
di essere e di sentirsi al centro del mondo, artefice del proprio destino,
costruttore della vita, dominatore della natura, al di fuori - e al di
sopra - di tutto. Condizione primaria per realizzare questa supremazia
(...) l'abbattimento della morale religiosa, dunque la negazione dei valori
(...) della tradizione: in ultima analisi, la rottura, senza rimpianti,
con il passato". Vanini, infatti, si gettò a capofitto nella
lettura e nell'interpretazione dei testi sacri: "li trovò
traboccanti di oscenità (immoralità, furti, sopraffazioni,
incesti, poligamie; strutture verticali della società, oppressione
dei deboli); e ritenne che prodigi e miracoli altro non fossero che il
tributo favolistico che cementa una serie di atti contro gli esseri umani,
volti ad ottenebrare le innate facoltà razionali dell'uomo, ed
oscurarne la fantasia, a limitarne la purezza genuina, la sua naturale
autonomia". Le religioni, pertanto, (e non soltanto quella cristiana,
ma tutte le religioni), secondo il pensatore taurisanese, distruggono
le capacità critiche dell'individuo con la superstizione e con
il terrorismo salutistico dell'al di là: inferno, purgatorio, paradiso,
resurrezione, reincarnazione, per Vanini sono strumenti ideologici per
rendere il pensiero umano succubo e impotente. Queste, le linee generali
della sua azione critica. Dalle quali parti Luigi Corvaglia per una serie
di ricerche e di indagini esegetiche, culminate in un "comentario"
(Sulle tracce d'un grande Salentino: Le opere di G. C. Vanini, in "Il
Salento", L'Italia Meridionale, 1930, vol. IV, pagg. 81 segg.), che
sottopose a Giovanni Gentile. "Quel che ho letto - rispose Gentilemi
basta a darmi un'eccellente impressione del suo lavoro, che mi pare condotto
con buon metodo e utilissimo a rischiarare il testo e il pensiero del
Vanini". Corvaglia sostiene che "nella storia della filosofia
(Vanini) è ancora una sfinge. Gli impacci della censura, tra i
quali si muove, il vezzo della eristica, la stessa immaturità del
suo pensiero, rendono un labirinto l'"Amphitheatrum" e il "De
Admirandis", a chi cerca di orientarsi tra gli aspetti contraddittori.
Vi concorre anche, in parte, la mancanza del maggior numero delle opere
che gli si attribuiscono. Qualsiasi sistemazione che pretenda di ordinare
la miriade degli elementi frammentari, secondo un criterio subbiettivo,
postula proprio l'unità a cui tende. E' soltanto possibile un ordine
provvisorio che non pregiudichi implicitamente il problema e si collochi,
a dir così, all'esterno". Sulla base di questo criterio, le
opere che vengono attribuite a Giulio Cesare Vanini si possono dividere
- a giudizio del Corvaglia - in due filoni o "correnti": - una che, in modo generico, si può definire "filosofica" e che comprende i Philosophici Commentarii, il De contemnenda gloria, il De vera sapientia, l'Apologia pro mosaica et christiana lege, l'Apologia pro Tridentino Concilio, I' Amphitheatrum aeternae providentiae; - un'altra, più strettamente "fisica",che include i Phisici Commentatii, i Commentarii in Aristotelis libros de generatione, i Medici Commentarii, i Commentatii super Meteor.Aristot., i Problemata, gli Astronomici libri, il Librum phisico-magicum e il De admirandis naturae. Che il Vanini - sostiene Corvaglia abbia scritte tutte queste opere si è dedotto, con una certa larghezza di interpretazione, da alcuni passi dell'"Amphitheatrum" e del "De admirandis", oltre che da alcune fonti accessorie. Tuttavia, rileva l'esegeta, non mancano fondati motivi per dubitarne. Fra i quali: - la fonte precipua di informazione è lo stesso Vanini, e l'autore, fedele al costume del suo secolo, non è granché scrupoloso neanche come scrittore; - non si riesce a spiegare, senza sforzo, come mai di tante opere siano rimaste solamente due, e proprio le ultime due, e fra queste il "De admirandis" che, per le sue proposizioni scandalosamente eterodosse, avrebbe dovuto essere maggiormente ricercato e distrutto dallo zelo dei cattolici e dei protestanti. "Ma si dirà: la maggior parte delle opere sarà rimasta manoscritta. Ebbene, valga il nostro dubbio per quelle che si danno per pubblicate. Che nessuna traccia si trovi, per esempio, dei "Libri astronomici", presso le fonti biografiche o nelle opere di altri scrittori, è cosa che non si giustifica agevolmente"; - le quattordici opere - nota Corvaglia - sono in grandissima parte molto voluminose: il "De admirandis" è di 495 pagine, l'"Amphitheatrum" in due volumi già scritti, l'"Apologia pro Tridentino Concilio" in diciotto libri, il "De vera sapientia", per lo meno, in nove libri, i "Commentarii in Arist. libros de generatione" in oltre trentanove esercitazioni, il "Librum phisico-magicum" in oltre trentotto capitoli, e via dicendo. Lavori di così vasta mole, di tanto ampie dimensioni e proporzioni, sarebbero stati scritti, e molti anche pubblicati, "nel periodo di vita vaniniana che va dall'adolescenza, quando il Vanini scriveva i "Commentarii phisici", ed i trent'anni o giù di lì, quando componeva il suo canto del cigno, il "De admirandis". Non che non sia possibile una precocità ed una attività simile. Ma si resta pensosi, perché, in quegli stessi anni, il Vanini si addottorava prima in legge a Napoli e poi in teologia a Padova, e, mentre correva su e giù per l'Europa, in un'epoca in cui il viaggiare era ben altra impresa che non sia ai nostri giorni, doveva anche fare il pedagogo e il medico per vivere; - il Vanini, nel citare alcune delle sue opere, palesa differenze significative. Una delle Apologie è ora "pro mosayca et christiana lege", ora "pro mosayca et christiana religione"; non solo, ma diventa semplicemente "Apologia", sebbene l'autore debba avvertire il pericolo che si equivochi con l'altra Apologia che a sua volta diventa disinvoltamente "pro Tridentino Concilio" o "pro Tridentino Synodo" o "Sacrosanti Tridentini Concilii Conimentarii"; - a parte il suo valore intrinseco, incalza l'esegeta, da questa considerazione di fatto noi possiamo muovere per fare un passo avanti. "Tra i titoli citati v'è spesso una corrispondenza generica o specifica rispetto al contenuto; per esempio, tra i "Commentarii phisici" da una banda ed i "Commentarii" sui libri aristotelici della generazione e quelli sulle meteore ed i problemi, dall'altra. Ora, posto che il Vanini non cita con rigore le sue opere, non è assurdo dubitare che questi Commentarii sulla generazione e sulle meteore ed i problemi siano parte della stessa opera: i "Commentari phisici". Analogamente con l'accezione generica di libri fisici, sono di solito indicati, per Aristotele, i libri fisici propriamente detti, i libri del Cielo, i cinque della generazione e corruzione ed i quattro meteorologici. Anzi, spesso, nelle vecchie edizioni, si aggiungono anche "quae ad naturalem philosophiam spectant". Così pure il Vanini accenna nell'Anfiteatro ad un "Tractatus de libero arbitrio", che è poi inserito e sviluppato in un solo brano degli ultimi capitoli dello stesso volume. Potremmo continuare nel tentativo di ridurre l'elenco numeroso delle opere, ma non vogliamo parere di volere sviluppare, sulla base di semplici congetture, uno dei più impenetrabili problemi della storia dottrinaria e biografica di questo scrittore. I dubbi, a rigore, non sono critica, Ma se queste considerazioni possono valere soltanto come ipotesi non confermate da alcun elemento definitivo, restano tuttavia sullo stesso piano di legittimità critica sul quale si colloca la deduzione di tutti gli storici vaniniani, ai quali è bastata una semplice riga: "alnum sub aqua non corrumpi in problematibus scripsi" ("De admirandis", 304) per arricchire di un altro volume la lista degli scritti del Vanini. E' lecito invece dubitare che egli abbia voluto riferirsi ad un semplice tratto di commento ai Problemi aristotelici. Infatti egli spesso cita anche i commenti di altri scrittori con la semplice indicazione dell'opera di Aristotele a cui si riferiscono ( ). In ogni modo a noi interessava porre in rilievo gli elementi che ci inducono a considerare anche questo capitolo della storia vaniniana in termini più ampi di quelli in cui, di solito, si prospetta il problema". Di queste opere, afferma Corvaglia, sarebbero stati pubblicati i libri astronomici. Ce lo dice uno degli interlocutori del "De admirandis", Alessandro. Furono editi "argentorati, elegantissimis tipis" ("De admirandis", 31). Probabilmente, sarà stato pubblicato anche il "De vera sapientia", del quale il Garasse avrebbe letto alcuni passi. Per l'opera sul Concilio di Trento, lo Spampanato (Sulla soglia del Seicento, pag. 171-172) ci informa che il 28 agosto 1614 il Vanini chiedeva da Parigi al Sacro Tribunale (dell'Inquisizione) "ordinari Nuntio Apostolico in Gallia, ubi reperitur, ut permittat imprimi opus a se compositum super Concilium Tridentinum". Senonchè, "Nuntius e contra putat ei respondendum ut redeat in Italiam". Ove poi si voglia tentare una spiegazione cronologica, si può fissare soltanto il punto di partenza con i "Phisici Commentarii", che il Vanini stesso ci dice d'aver dettato da giovanetto ("De Admirandis", 159), e quello di arrivo con "De admirandis". Risalendo a ritroso, troviamo l'"Anfiteatro". Più o meno, secondo le ipotesi di Corvaglia, l'"Apologia pro mosayca et christiana lege" fu scritta prima dell'"Apologia pro Tridentino Concilio", che è opera polemico-religiosa immediatamente anteriore all'Anfiteatro; il "Librum phisico-magicum" è dello stesso tomo di tempo. "Al di là di questi confini, il buio di fa impenetrabile. Frutto di fantasia o di errore le notizie d'altre opere. Chi vuole avere notizia di questa fioritura cerchi nel Porzio ch'è il più dovizioso e geniale illustratore del Vanini (Porzio - Le Opere di Giulio Cesare Vanini. II. CLXXXI - nota l. e CLXXX - nota in fondo)". Della gran mole delle - vere o presunte -opere del Vanini ci resta completo il "De admirandis" e incompleto l'"Amphitheatrum". Questo libro dell'Anfiteatro, almeno a giudicare dal frontespizio, dovrebbe essere unico, "ma ne rappresenta soltanto il primo volume. Ciò si ricava, non solo dalla chiusa del libro, ma anche dalla introduzione, nella dedica al lettore". Il volume venne pubblicato a Lione "apud Viduam Antonii de Harsy", nella seconda metà del 1615. E' dedicato a Francesco De Castro, duca di Taurisano. Non sembra che siano state fatte edizioni successive. Nota Corvaglia: "Come per il "De admirandis", il Vanini ci dice che egli era perplesso nell'exponere hanc ingenioli ... suppellectilem nec nitidam, nec opulentam". Fu tuttavia "amicorum precibus persuasus ne dicam coactus". Ma è un vezzo, diciamolo senz'altro, vezzo retorico di tutti i tempi, che il Boccalini poneva in ridicolo nei Ragguagli di Parnaso (Dedic. vol. II ). L'esemplare dell'edizione che ho avuta sottomano è conservato nella Biblioteca Comunale di Gallipoli. Il testo è trascuratissimo. Frequenti gli errori nel corpo delle pagine e più frequenti quelli del margine superiore. Non vi sono note". Corvaglia esamina, a questo punto, le opere superstiti. L'"Amphitheatrum" è l'unico tra i libri di argomento "filosofico", così come il "De admirandis" è il solo fra i "commentarii fisici": l'uno e l'altro, afferma, indici di due correnti "e, sarei per dire, di due sistemi, se nell'uno e nell'altro non ci si aprisse la via per tentare di ambedue una dottrinaria resolutio ad unum. Ma di ciò in altro luogo. Certo, se noi potessimo assumere, a buon diritto, che l'una e l'altra opera è come un esemplare del gruppo al quale appartiene, la mancanza degli altri scritti non sarebbe danno irreparabile per la compiuta intelligenza del pensiero vaniniano. Per lo meno, però, esse pongono l'antitesi o l'apparenza delle antitesi tra gli orientamenti filosofici dello scrittore". Per quanto riguarda l'Anfiteatro, sottolinea l'esegeta, occorre l'analisi lunga e paziente delle dottrine, il più spesso collocate in una giustapposizione esasperante, piatta, senza rilievi, senza avviamenti, o disposte in mulinelli insidiosi che si perdono ora in un senso ora nell'altro, quando non si avviano, come vortici, giù nel profondo. Inoltre, è necessaria l'analisi delle fonti, di cui il Vanini copia concetti e metodi, "quando non copia passi interi", perché sia reso non vano il tentativo di una integrazione e di una scelta legittima di orientamento. "Facile la scelta a chi penetra in questo sacrario per cercarvi le prove di un pensamento critico tolto a prestito o comunque preferito. E' agevole risuscitare una vita fittizia con gli echeggiamenti della propria voce, ma l'eco non è storia. E' necessario invece che il pensamento critico sorga dentro, rivissuto, rifatto in perfetta unità spirituale con lo scrittore. Per il Vanini questa unità è più remota, ma anche più intima, perché egli ha voluto, anzi ha dovuto sfibrare la trama del suo pensiero ed intesserla, disperdendola il più spesso in una tela eterogenea". L'Anfiteatro, dunque, può essere considerata opera filosofico-teologica. "Né più né meno". Vanini vuoi dimostrare che Dio esiste (Es. I), indefinibile (II), così come è indefinibile la sua Provvidenza (III), della quale si può dimostrare l'esistenza con la creazione del mondo (IV), col moto dei Cieli (V), con gli oracoli (VI), con le Sibille (VII), con i miracoli (VIII), contro Diagora e i suoi seguaci (IXXI), contro Protagora e i suoi seguaci (XII-XIX), contro Cicerone (XXXXV), contro gli Epicurei (XXVI-XXIX), secondo la dottrina aristotelica (XXX - XXXII), con la mediazione delle Intelligenze (XXXIII), contro i Peripatetici (XXXIV - XLII) e contro gli Stoici (XLIII - L). La critica superficiale dell'opera di Vanini parla di sovrabbondanza di stravaganze. Ma non conta che egli devii qua o là, o se queste deviazioni siano incisive o determinanti, perché "non trasformano certo la tetraggine pressoché uniforme del cielo teologico in cui l'opera si colloca, perché la teologia qui non è pretesto, come fu detto, ma è tutta l'opera". Questo, il primo aspetto dell'opera. Il rovescio della medaglia sarebbe sproporzionato, per il Vanini almeno, scrittore tormentato, alla misura di un proemio, a meno che non si preferiscano prefazioni che siano sommari dogmatici. "Dal punto di vista dottrinario, il Vanini fu talora sopravvalutato, tal'altra sminuito, e sempre mal compreso, propri o perché è mancata l'analisi. Guido Porzio, il risuscitatore del Taurisanese, ed il Palumbo, per citare i più costanti, hanno intesa questa difficoltà e si sono rifatti all'analisi biografica e un po' anche dottrinaria". Nota Corvaglia che, nell'introduzione dell'Anfiteatro, il Vanini avverte il lettore che frattanto prepara aliud maius et sublimius opus del quale l'Arifiteatro dev'essere tamquam tessera. Forse - come aveva già ipotizzato il Porzio - egli alludeva al "De admirandis". Ma altrettanto possibile è l'altra ipotesi, secondo la quale Vanini collegava questo con l'altro libro "Phisico-magicum", di imminente pubblicazione; o ancora, Vanini pensava a libri successivi dello stesso Anfiteatro. Comunque, dice il critico, questo semplice accenno non ci consente alcuna congettura intorno al periodo di tempo in cui fu composto. Ci è sufficiente sapere che venne stampato a Parigi, apud Adrianum Perrier, e che il primo settembre 1613 era bell'e pronto. "L'edizione di cui mi sono valso, è certamente l'unica. L'esemplare è conservato nella Biblioteca Provinciale di Lecce. E' meno trascurato dell'Anfiteatro, sebbene manchi del Dialogo XXXV. Né difettano gli errori. Non ha indici. Ha note in margine. Il libro è dedicato al Bassompierre. Come per l'Anfiteatro, il Vanini ci offre il solito spunto di falsa reticenza, dichiarando che il libro fu stampato, non proprio col suo consenso ( ... ). Ma qui non si tratta soltanto di un vezzo. Nel "De admirandis" il Vanini ha bisogno di prepararsi una scappatoia per caso che quel po' po' di contrabbando capiti sotto gli occhi degli inquisitori ... ". Che cos'è il "De admirandis"? Un'opera fisico-eterodossa. Per questo volume, conferma Corvaglia, gli umori sono uniformi. L'apparenza della conformità della dottrina con i canoni è così superficiale che si riduce ad un'ironia. L'opera ha la forma di un interminabile dialogo che dura, addirittura, dalla mattina alla sera. Un bel giorno il Vanini, che è il Giulio Cesare del dialogo, se ne sta in casa, insieme con alcuni fanciulli, alcuni discepoli, alcuni servi, in una fredda regione (83), forse non a Parigi (72), quando si vede comparire di buon'ora Alessandro. L'introduzione ricorda il Protagora, con Ippocrate che si reca da Socrate. "A giudicare da un passo (...), si sarebbe tentati di attribuire a quest'interlocutore una parte fissa di peripatetico, ma per via costui si adatta a tutti i mestieri". Il dialogo, contrariamente a quanto affermano alcuni critici, non si svolge in estate, né nel mese di marzo, ma dopo le ferie pasquali, molto probabilmente nel mese di aprile. I fanciulli sono presenti al dialogo, ma non intervengono, ad eccezione di Tarsio, "equivoca figura di puer poculis, discepolo di liete speranze". Il dialogo si snoda dapprima in casa; dopo una colazione, all'aperto, nel pomarium, presso un lauro, tra i roseti. E si discorre fino all'ora di cena, con l'intermezzo di un pranzo luculliano e di una merenda. Presso la tavola c'è un cagnolino."La scena ha toni gai di epicureismo arcaico. In fondo sorge l'amari aliquid della inanità dell'amaro sapere". Durante il cicaleccio, mette in rilievo Corvaglia, i due principali interlocutori fanno a gara a risolvere problemi fisici, ma Giulio Cesare pontifica. Per via è buono ogni appiglio "per farsi addosso al soprannaturale e dissolverlo, sempre s'intende con tutto il rispetto per la Sacrosanta Chiesa Cattolica, a cui si rende omaggio di questa ridicola "salvezza" e di una ricorrente untuosa compunzione che lubrifica le cinquantanove scardassature dialogiche". Dio? Meglio lasciar perdere: prende il suo posto una "Natura che è Dio, che è egli medesimo Natura". La Natura di Vanini è buona, signora dell'universo, amica, e regina incontrastata delle cose del mondo. La visione naturalistica è originale. Occorrerà attendere, secoli dopo, il pensiero di Nietzsche per ritrovare una "critica altrettanto spietata del Cristianesimo, considerato (molto probabilmente per l'altezza di certi suoi valori) religione superiore, e dunque più temibile, cioè più menzognera" (la citazione dal Milo). Il Cristianesimo, sostiene Vanini, è la maledizione della carne; fa degli uomini un allevamento di idioti; forza e violenta le naturali, buone inclinazioni dell'anima umana; e poi turba profondamente e sconvolge - con la falsa prospettiva della vita eterna - il pensiero di chi, proprio grazie alla natura, deve godersi la vita; costringe milioni di uomini a sacrificarsi di fronte all'immagine dominante della superstizione e a quella dell'illusione: "Scrutate la natura -sintetizza il Mio - penetrate i suoi misteri che attendono di essere conosciuti, leggete i suoi fenomeni, conclama Vanini: la natura redime l'uomo su questa terra, mentre religione e teologia lo vogliono inerte, massificato, passivo". Il tribunale ecclesiastico lo ritenne ateo e bestemmiatore. Si aprì una caccia senza quartiere. Vanini fu costretto a fuggire e a nascondersi. Un'avventura che non ebbe lunga durata. Venne catturato nella città di Tolosa il 9 novembre 1619. Fu sottoposto a una tortura che culminò con lo strangolamento. Emblematicamente, gli venne mozzata la lingua, poi il corpo fu reso irriconoscibile. La gettarono al rogo. Le sue ceneri, disperse. Fu cancellato l'uomo. Rimase Il frutto del suo pensiero, che anticipò a modo suo l'età della ragione e, forse, anche quella - attuale - dell'inquietudine. |
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