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FOLKLORE DI VALLE D'ITRIA
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In " Il Caporizzo" di Michelangelo La Sorte |
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Enzo
Panareo
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La critica, parsimoniosa,
ma in certo qual modo rappresentativa per quel che riguarda le testate,
non omise, quando apparve Il Caporizzo di Michelangelo La Sorte, di accennare,
tuttavia senza insistervi troppo, ai valori religiosi, ma soprattutto
a quelli folkloristici, dei quali il romanzo è portatore. (1) In
realtà, tutta la vasta tessitura del racconto, nel complesso delle
drammatiche situazioni umane e di quelle ambientali, riflette dall'inizio
alla fine un'adesione per così dire commossa alla terra ed al paesaggio
umano che vi è insediato. (2) Il quale assume la terra, di per
se stessa già tipicamente connotata, come una ribalta sulla quale
svolgere, sottolineando quelle connotazioni, il dramma inesauribile dell'esistenza.
La terra è la Murgia dei Trulli, i cui centri, che nel romanzo
fanno da sfondo alla vicenda, sono Martina Franca ed Alberobello: cittadine
dall'indomita fierezza, le quali gelosamente tutelano nel proprio seno
il senso, antico e storicamente consolidato, di una vetusta identità
culturale, mai messa in discussione, sempre rinverdita e rivendicata come
il momento fondante di una personalità altera, ricca di fremiti,
aperta ad ogni arricchimento. Nell'araldica civica di Alberobello la quercia,
con straripante retorica, in fondo, cantata dal poeta Modesto Colucci,
(3) maestro di libertà di due generazioni di giovani, esprime appunto
il sentimento vigoroso di una gente che in ogni tempo s'è distinta,
all'ombra della "Selva dell'albero della guerra" - o, se più
piace, "Selva dell'albero bello" -, per la tenacia dei suoi
sentimenti, delle sue passioni irruenti, per la sua carica di civile consapevolezza
con la quale, soprattutto, s'è opposta con prodigiosa fermezza
ad ogni sorta di imposizioni e di angherie, quando, nel corso dei secoli,
in questa regione - l'Apulia petrea - il re o il feudatario hanno tentato,
con la iattanza tipica della feudalità, di prevaricare (4).Terra,
allora, questa, di uomini fisicamente e moralmente vigorosi, coraggiosi,
laboriosi; terra, si direbbe, di rudi spietratori, i quali proprio con
la pietra hanno realizzato una compiuta civiltà, l'originale civiltà
delle casedde. Il La Sorte nel romanzo esprime questo sentimento, diffusamente
prospettando dell'Apulia petrea, di questa regione estremamente pittoresca,
i tratti peculiari. Che sono quelli di una umanità pia, devota,
la quale mediante la preghiera realizza il contatto con la divinità
clemente, che ha sorretto la mano dell'uomo nell'improba fatica di soggiogare
la pietra ai propri bisogni. Si tratta, in sostanza, di una religiosità,
più che mistica o intimistica, panica e solare, si direbbe paganeggiante,
si tratta della religiosità che anima i pensieri e le opere dell'uomo
murgese - un tipo etnico, mediterraneo, sintesi d'innumeri civiltà
e culture, rigorosamente dimensionato - il quale al contatto con l'esaltante
immensità della natura avverte il senso della propria finitezza,
ma piuttosto che restarne sgomento, se la propizia, assumendola come stimolo
per procedere sulla strada dei sacrifici e delle lotte. Il sentimento
religioso diventa, in tal modo, propulsore della convalida dell'identità
etnica, la quale procede lungo il tracciato dei valori che il folklore
assume come propri. Il sentimento della terra si traduce pertanto anche
in robusto sentimento della storia. Della quale, ad Alberobello appunto,
tanta parte sono i trulli, tra i quali la luttuosa vicenda del "Caporizzo"
è calata. Una vicenda d'amore e di morte, che finisce con il diventare
emblematica e con l'assumere, si direbbe nella sua assurdità, i
fascinosi contorni del mito. Infatti, alla solenne religiosità
della Murgia, fiera e ricca di generosi ideali, dei braccianti operosi
e pieni di abnegazione, fanno riscontro, in virtù di una inesorabile
dialettica, i maneggi, quando più quando meno loschi e tutti comunque
improntati a furbizia ed a mancanza di scrupoli, di alcuni grossi borghesi
i quali comprano e vendono tutto - anche la vita della gente umile -,
contrattando senza alcuna lealtà, "... il popolo - ad un certo
momento enuncia un personaggio del romanzo - è meraviglioso, né
so per quanto ancora sopporterà questa mala genia di parassiti
che gl'intisichiscono la vita" (5). Si tratta del popolo della campagna,
quella che, nella fantasmagoria della Valle d'Idria, sollecita nello scrittore
un'orgia di colori dalle combinazioni più impensate, meno reali,
una tavolozza affabulata nella quale le tonalità più inedite
e più ardite convivono tranquillamente ed evocano un mondo fiabesco.
Ed è a questo punto, peraltro, che si realizza la consonanza tra
paesaggio ed umanità che l'abita. "... Il cielo scolora: dove
s'è nascosto il sole è rosso acceso, dalla parte opposta
è grigio violaceo con cenni cinerei di vapori grevi indefiniti,
per tutto l'arco della volta immensa è un tenue sfumare del colore
di fiamma all'arancio al giallo pallido al verde azzurro turchiniccio
violastro ... " (6): sotto questo cielo la poesia dei "freschi
tappeti soffici dei fieni in fiore" (7) ed i trulli. Un personaggio
del romanzo, Donna Rita, detesta sentir paragonare le casedde a trullo
ai nuraghi sardi o alle costruzioni coniche di fango dei popoli dell'Asia
Minore o dell'Arabia. I trulli, nella fiera ed esclusiva concezione dei
murgesi, non sono un semplice modulo abitativo urbano o rurale, occasionalmente
concepito e realizzato sotto l'incalzare degli eventi storici; essi sono
un tipico dato culturale, importato o indigeno adesso non interessa, cui
i murgesi tengono consapevolmente. I trulli sono, in sostanza, una cultura,
il prodotto lungamente sedimentato di una civiltà. Ai trulli s'affiancano,
in questa ideale prospettiva, i parieti, tipici muretti a secco di pietra
calcarea con i quali sono delimitati i campi, e le lamie. I trulli, infatti,
"... li abbiamo inventati noi, come le specchie, come le centopietre,
con l'aiuto di Dio ed un granello di sale ... " (8). Per questo il
trullo, al pari della quercia, è considerato come il sereno genius
loci della Murgia pietrosa, della Valle d'Itria trascolorante in toni
fiabeschi, simbolo di fertile intelligenza, nucleo di affetti domestici
e di interessi produttivi, un po' come la masseria, quella di Reinzano,
per fare un caso, dove si svolge buona parte di E se ne vanno, il secondo
romanzo murgese del La Sorte. Racconta Vincenzo D'Amore "... I Conti
vietavano costruzioni permanenti: proibivano malta e calcina. Volete le
case? Qui c'è la pietra. Fabbricatele. I selvesi, gli alberobellesi
di quel tempo, vera preistoria locale, costruirono: muri di fortezza,
tetti a trullo, il trullo pelasgico dei millenni delle specchie, originale
creatura del genio nostro: ecco la casa. Lo spirito feudale dei predoni
d'oltralpe e d'oltre mare, ammantati d'autorità regia od imperiale,
fu gabbato dallo spirito geniale di costruire del popolo nostro ... "
(9). Può darsi che l'interpretazione storico-architettonica relativa
al trullo sia azzardata, forse viziata dal tenace municipalismo dei selvesi,
essa, tuttavia; denuncia una concezione insostituibile dell'identità
etnica e culturale. Il trullo esprime, sia nel suo originale aspetto esterno
che in quello interno, la concezione dell'intimità domestica permeata
di vetusta saggezza, di naturale giocondità, sentimenti che scaturiscono
spontaneamente dalla vita quotidiana condotta come "comunione fra
Dio e gli uomini di fede": ecco perché sembra che "sul
vertice il calice della passione offra al Cielo quella piccola particula
candida" (10) che è pegno d'amore, di fedeltà fra gli
uomini e degli uomini alla divinità. Ecco anche perché "...
quelle casette bianche, la porta ampia ad arco, il tetto a cupola conica,
grigio o rossastro, perfetto, elegante, il vertice bianco, la punta a
calice, fra il verde dei frutteti e delle vigne, un giardino fiorito intorno,
una piazzettina davanti con i sedili di pietra, sole sole o a due a due,
a tre, a dieci anche, avevano un certo tono di grazia originale, civettuola,
gioiosa, parevano fatte per l'estate e l'autunno in campagna, per rallegrare
i piccoli e per riposare i grandi, un po' case giocattolo, casette di
tre pezzi, cubo, cilindro, cono ... " (11). Di queste casette che
sembrano disegnate da un favolista i selvesi vanno fieri, tanto da ricantare
sempre con compiacimento il detto popolare:
Da la villetta
di Locorotondo Lo scenario, infatti, è incomparabilmente suggestivo per l'estenuante seduzione che suscita, ai confini dell'irreale, dove le gravose opere degli uomini assumono la dimensione dell'eterno. Non meno suggestivi degli esterni sono gli interni, in quanto l'architettura e l'arredamento che li caratterizzano par che pronuncino sommessamente terse parole di fede, quelle di una civiltà che ha affidato alla saldezza degli affetti domestici la gelosa custodia degli ideali intorno ai quali è andata crescendo la storia degli uomini. A Fiorenzo D'Albaro, genovese, durante la visita ad un trullo " ... piacque soprattutto la cucina: il gran focolare, la monumentale cappa del camino, le due grandi panche laterali di quercia massiccia e i due finestrini gli parlarono con forte e sereno linguaggio di antica poesia casalinga, rievocandogli vecchi racconti di canute nonne a lontani piccoli nipoti attenti, cose sentite dire e a lui ignote ... " (13). L'uomo venuto dal Nord, il genovese di raffinata cultura, di squisiti sentimenti, generoso e coraggioso ma anche riflessivo e temperato, da architetto tra i trulli si sente in una dimensione, non solo topografica, ma anche etica e spirituale che lo avvince e gli fa avvertire il senso miracoloso delle cose remote nel tempo e solamente immaginate, tradotte adesso in commossa realtà. E' la serenità di una vita domestica che il genovese cerca di conquistare, dopo la terribile tragedia vissuta sul golfo del Tigullio, in Puglia, al contatto con una sana, incontaminata, vita patriarcale: "... in una delle famose casedde a trullo serenità che nasce dalle cose: bianchezza di calce, lindore di bucato, grafia di cortinaggi di pizzi fatti a mano, odor di lauro, di cetronella e di spicanardo, fiori su cantoniere negli angoli, un quadro dei SS. Medici con la lampada accesa nel mezzo della parete di destra fra le due alcove dall'arco a tutto sesto, un cassettone a sinistra fra le altre due alcove, specchio e lumi barocchi di vetro colorato e tazze di caffé in semicerchio in una guantiera di vetro sul marmo bianco; di fronte il grande arco della cucina vasta, qua e là sulle pareti serie di ritratti; dal centro del soffitto a grandi travature, dipinte in celeste le tavole in arancio i travi, pende un gran lume a campana di vetro bianco; nell'angolo a sinistra entrando, una scala a piuoli infilata in una botola e agganciata per salire sul solaio, nella cupola conica del trullo; in mezzo una grande tavola, per famiglia d'una dozzina di persone ... " (14). Non si tratta, lo si intuisce subito, di un'arida elencazione di oggetti, indulgente magari ad un gusto scenografico più o meno scaltrito dall'esercizio letterario, ma della ricostruzione, la più fedele possibile, di un ambiente denso di vita interiore dai cui oggetti, essi stessi storia minuta, semplice, quotidiana, promana tutto il calore dei valori spirituali ond'è ricco il popolo genuino delle campagne. E' rilevante un dato. Malgrado tanta esuberanza descrittiva, di sapore, in certi casi, più filologico che narrativo - e non va trascurata la presenza, efficacissima, di termini tratti dal linguaggio popolare, termini cui è demandato il compito di rendere più verosimile l'atmosfera -, il La Sorte non fa mai cenno ai segni magico-cristiani presenti sull'elemento conico del trullo segni che, citati nel passato a più riprese in reportàges d'indole giornalistica, di recente sono stati oggetto di uno studio accurato intorno ai loro reconditi significati (15). Perché? Possibile che un particolare di tanta importanza sia sfuggito al La Sorte? Se si esclude, e bisogna escluderlo, che ai tempi in cui lo scrittore elaborava il romanzo quei segni non fossero in uso, tenendo altresì conto della precisione descrittiva del La Sorte, bisogna supporre che egli a quei segni attribuiva poca o nessuna importanza, sotto l'aspetto ideologico almeno, ritenendo in tal modo che non fosse il caso citare elementi, pur suggestivi comunque e la cui assenza nel romanzo sorprende, che scaturivano, e scaturiscono, almeno sul piano decorativo, dalla libera e feconda fantasia di coloro che il trullo abitavano. Gente dalla facile, ma densa, espressività, abituata a tradurre all'esterno i sentimenti e le opinioni: il popolo selvese che affida al canto la propria epopea, che è l'epopea della fede e del lavoro. Il racconto ha per epoca la festa dei SS. Medici, Cosma e Damiano, allorquando nelle campagne e nei paesi affaccendati si diffonde il gusto acre e dolciastro dell'uva accumulata nei tini. Tempo di vendemmia: il canto delle vendemmiatrici è un motivo costante che, in sordina si può dire, accompagna tutta la narrazione, creando il sottofondo musicale all'esplosivo cromatismo generosamente offerto dalla natura: "... La Valle d'Itria s'adagia nelle sue vaste vigne in una tinta di pampini verdebluastri spolverati di cromo fiammante. Scende dai monti di Capo di Gallo e di Galliano l'oceano di luce e proietta dalle brevi collinette lunghe ombre dai bordi dorati" (16). In questo incandescente scenario, che sembra darle vertigini per uno smemoramento che va oltre l'umano, "un lontano coro di vendemmiatrici accresce ed addolcisce lo sperdimento volontario ... " (17). E' la festa dell'opulenza bacchica, quando le anime, felici, si proiettano tutte all'esterno e si pongono in sintonia con la natura misteriosa e feconda. Fulcro intorno al quale ruota idealmente la festa della vendemmia è l'amore perché è l'amore il motore di ogni umana azione: "... La volle Platone questa fusione che l'uomo e la donna ricercano in terra, memori d'essere stati in uno stesso io prima della vita di quaggiù ... " (18). Durante il rito della vendemmia le donne cantano, i conducenti dei carri, ritmicamente, schioccano le fruste e gli altri uomini, scamiciati, urlano, in preda ad una sorta di frenesia, imitando il contrabbasso. Il senso panico della felicità raggiunge vertici sovrumani quando gli agricoltori vedono premiato dalla generosità della terra e del clima il loro lavoro. Dalla donna alla terra il passo, nella prospettiva del mondo contadino, è breve. Anzi, la donna e la terra sono assimilate in un empito di ineffabile trasporto amoroso. Ed ecco canto: Terra di Puglia
In questo contesto rientrano gli stornelli d'amore: Fior di limone,
Fior d'amaranto,
Fiore di pomo,
Ma rientrano anche, in questo contesto, gli stornelli a dispetto e rientrano infine, nell'umorosa prospettiva della tenzone politico-amministrativa, gli epigrammi salaci con i quali in una contrada s'inchioda, con un semplice riferimento verbale, con una metafora dai contorni osceni, con un volgare suono delle labbra, qualcuno al suo destino. Momento magico di questa sagra del folklore murgese, sotto il cui segno può essere assunto un romanzo come Il Caporizzo, è la festa dei Santi Protettori ad Alberobello. La festa paesana, nella sua policroma vastità, ha, nel romanzo, una dimensione magico-lirica ed etnografica nella quale si stemperano tutti gli istinti, a partire dai più ancestrali, e tutte le potenzialità etico-spirituali dell'uomo, il quale, del tutto affrancato da qualsiasi remora e pregiudizio, dà libero sfogo alla sua nativa e intensa umanità. Momento di profonda riflessione religiosa e diversivo ludico-rituale , la festa esprime la vera storia dell'uomo che riscopre in sé, ogni anno, quando la festa ricorre, i valori spirituali sui quali ha costruito la sua originale cultura. La festa paesana descritta da Michelangelo La Sorte ha un ascendente illustre nel Mastro Don Gesualdo del Verga. Al quale la festa serve per descrivere, con vivezza di particolari psicologici, emozioni e reazioni di una ristretta società, quella di casa Sganci, di grossa borghesia terriera, nella quale fa il suo ingresso Gesualdo Motta, ormai presso quella schizzinosa borghesia accreditato in virtù della sua vastissima fortuna. Gli elementi costitutivi della festa in Verga ci son tutti, ma sono soltanto sfondo, atmosfera. E non sarebbe poi del tutto azzardato chiamare in causa anche il D'Annunzio del Trionfo della morte con le pagine relative alla fiera di Casalbordino, la cui descrizione serve allo scrittore, che del folklore d'Abruzzo ebbe il senso profondo, anche se estremamente estetizzante, come reagente per far risaltare le peculiarità emotive dei due amanti protagonisti del romanzo. Nel La Sorte, invece, la festa è protagonista, vale per se stessa, se così può dirsi, in relazione, comunque, con la gente che l'anima. Essa, intanto, la festa, per quanto storicamente appartenga alla liturgia cristiana, conserva e proietta all'esterno un suggestivo fondo di paganesimo e gli stessi due santi celebrati, Cosma e Damiano, nella loro qualità quasi stregonesca, di guaritori, accentuano, mediante la credenza suscitata nel campo sterminato della miracolistica popolare, questo carattere paganeggiante della festa. Che, infine, attraverso l'intreccio, saldissimo, tra pubblico e privato diventa il fondale di un rito cui non resta estraneo un certo che di orgiastico suscettibile di diventare, al di là dell'essenza religiosa vera e propria, l'essenza vitale, e quindi la più vera, della festa. Protagonista della festa è la folla anonima, massa incandescente di sentimenti e sensazioni liberati dalle spinte più disparate. Obiettivo della folla è approfittare della festa per vivere intensamente una giornata di spensieratezza e di gioia: "... La solennità della festa è nello sfolgorio della luminaria dalla piazza alla Chiesa lungo il Corso; è nella innumere folla che è lieta e passeggia, spettacolo di sé a se stessa, e s'aggruppa attenta presso l'orchestra ed invade i cento e cento tavoli dei caffé per sorbire il classico gelato ... " (21). Nucleo della festa è la luce, momento mitico della religiosità popolare, riferimento immediato al divino, esaltazione della vita che s'oppone alle tenebre della morte: "... Lo stradone è decorato con archi e festoni, bandiere e orifiamme, lampadari globi e lampadine multicolori. Il sole gioca fra i vetri sfaccettati ed i fiori di latta nichelata e gli scudi dorati che rimandano luccicori e riverberano raggi fuggevoli dai colori dell'iride: pare più caldo e luminoso ... " (22). Elementi indispensabili alla resa coreografica sono, allora, la luminaria, sotto la quale si svolge la processione, momento, questo, della liturgia cristiana, che, tuttavia, esprime, con le sue manifestazioni umane, il fondo paganeggiante della festa. Infine, la festa del fuoco, cioè i fuochi pirotecnici, spettacolo e tripudio nello stesso tempo con le loro bizzarre figurazioni che suscitano esclamazioni di stupore, momento terminale con il quale, raggiunto dalla folla il massimo di tensione emozionale, la festa si conclude lasciando in coloro che vi hanno partecipato come una sorta di soddisfatta estenuazione. Il rito della processione, che si snoda lentamente attraverso le strade del paese, racchiude in sé i diversi elementi della devozione popolare, quelli, nella sostanza, che definiscono il quadro conferendogli valore di rappresentazione. La processione è "Fantasia d'antiche costumanze, bellezza d'antichi riti, espressione severa di fede ... " (23): lo spettacolo affonda radici nel tempo remoto lungo il quale si sono sedimentati i segni della devozione, quella di un popolo che ha sempre chiesto alla divinità clemenza e protezione. Gruppi di devoti contrattano per aver l'onore di portare a spalla le statue. Seguono la processione tre donne vestite di nero, con i capelli sciolti in segno di devozione. Una donna ha un velo che, in segno di penitenza, le copre la testa. Le donne di Locorotondo si distinguono perché sono vestite di giallo ed è, questo, il segno dell'appartenenza al gruppo, altre portano "lampioni ad asta ricchi di fregi e di dorature e di vetri colorati" (24), altre ancora hanno candele, torce, ceri più grossi. Si distinguono le confraternite con i loro caratteristici abbigliamenti. I confratelli di S. Cosma "... hanno il cappuccio che esce da una specie di turbante, alla moda araba. Ma chi sa poi se ai tempi di Diocleziano, quando subirono il martirio i SS. Medici, in Arabia usavano il turbante" (25), mentre "... le donne del popolo della campagna (indossano) l'abito di sposa, conservato gelosamente intatto, una due volte all'anno, per la festa del Patrono, San Cosma, o nelle cerimonie eccezionali, nozze, battesimi" (25). Intanto le mongolfiere di carta si levano, gonfie, e sui quattro lati hanno effigiati i SS. Medici, il Santissimo, la Madonna, lo stemma di Alberobello in alto, mentre otto uomini seguono la processione ognuno di essi reggendo un cero enorme che li affatica visibilmente. C'è un richiamo alla tradizionale sagra dei "gigli" di Nola, costruzioni alte fino a 30 metri che vengono portate a spalla in processione la domenica successiva al 22 giugno, festa di S. Paolino (27). Ad Alberobello "... sono otto uomini: ognuno d'essi regge a malapena e con visibile sforzo, legato da tiranti e da cinghie acconce, un enorme cero: peserà mezzo quintale il più grosso, gli altri poco meno" (28). Non mancano, naturalmente, i combattenti con le loro uniformi stinte dalla trincea e sul corpo i segni lasciati dalla furia disumana della guerra. I combattenti, in realtà, non sono folklore, è chiaro, ma il segno di un dolore profondo che pervade l'intera popolazione e la induce a riflettere sui mali del mondo. Le descrizioni sono realizzate sul filo di un'orgia di colori e di forme, sul filo, inoltre, di una gestualità concitata e di una sonorità assordante nelle cui pause è possibile cogliere gli eventi personali, quelli che formano il vero e proprio asse narrativo, accanto al quale altri, minori ma non per ciò meno significativi, se ne distendono onde coagulare intorno al dato umano la rappresentatività della festa. Il La Sorte attinge, il più delle volte, al senso più profondo della materialità dell'immagine rappresentata con le parole e con i colori secondo un modulo espressionistico nel quale consiste l'idea tragica della festa. Come per i fuochi pirotecnici: "... La batteria s'infoca: razzi altissimi, scoppi luminosi, raggiere di luce d'iride, comete dai fulgori che abbagliano, fiamme rosse e verdi, gialle e azzurre che creano e distruggono con successioni vertiginose paesaggi di fate e di sogno, ritmi tambureggiati da crepitii a serie graduate con crescendo ininterrotto, brontolii di tuono, rombi, rimbombi ... " (29): è perfino ovvio il riferimento al modulo futurista impiegato dal La Sorte in queste descrizioni, in alcune delle quali, infine sono impiegate le rappresentazioni grafiche, tipiche del futurismo marinettiano, per indicare i rumori prodotti dagli scoppi dei fuochi pirotecnici. A proposito dei quali sono proposte analogie con le armi da guerra, dato, in realtà, che è ancora vivo nei combattenti che seguono la processione il ricordo del conflitto e dei rumori strazianti prodotti dalle varie armi. E' inutile aggiungere che pantagrueliche mangiate punteggiano la descrizione della festa, durante le quali sono celebrate le specialità gastronomiche del posto: "... Glomerelli e fegatini d'agnello e di capretto allo spiedo o in pignatta. Montagne di sedani. Provoloni piccanti. Cacio punto. Provoloni affumicati. Noci, mandorle e nocelle. Bevi che ti bevo. Se si può, il tocco, lo zumparello, la passatella.."(30): c'è tutta la Valle d'Itria con la sua beata opulenza! La festa del fuoco e della luce diventa, nella versione del La Sorte, fantasmagoria di luci e di suoni, sottolineatura espressionistica del rito cristiano, della liturgia popolare. Ma questa liturgia tanto accesa, dai toni tanto affocati aveva bisogno di una vera e propria vittima sacrificale ed è, questa, più che non appaia, il "Caporizzo", l'uomo della campagna, il combattente che dopo aver versato il sangue innocente nelle amare trincee della prima guerra mondiale lascia la vita in uno scellerato agguato di masnadieri politici. Si recava ad Alberobello per approfittare degli estremi bagliori della festa, ché ad un povero proletario altro non restava che raccogliere le briciole definitive della festa popolare: lo fermò una mano omicida, anzi una mano fratricida e cadde vittima inconsapevole di un gioco perverso nel quale riluttava ad entrare. Al di fuori dello scenario della festa, ormai quasi sardonico pleonasmo in tanta disgregazione sociale, Martino De Martino diventava, morendo, e rispettando la tradizione pagana, l'ostia viva da sacrificare. Sull'altare dell'odio di parte!
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