|
§
L'EMERGENZA ECONOMICA
|
Il gioco e il massacro |
|
Dario
Giustizieri, Lucio Tartaro
|
L'impressione e
che, se continuiamo ostinatamente ad applicare all'economia italiana gli
schemi logici e le razionalità dei libri di testo, finiremo un
giorno per subire delusioni cocenti. Non più di pochi mesi fa,
con l'indice dei prezzi al consumo al 17,3 per cento ed il rendimento
dei Buoni del Tesoro trimestrali al 18,65 per cento, si gridò da
più parti allo scandalo per la decisa resistenza delle autorità
monetarie a prendere atto, con una riduzione di due o tre punti del saggio
di sconto, dell'avvenuta svolta antinflazionistica. A guardare come stanno
le cose oggi, ci sarebbe da chiedersi quale disastro valutario avrebbe
colpito il nostro paese, se si fosse ceduto a quelle frettolose invocazioni
espansionistiche. Siamo scesi al di sotto del 16 per cento d'inflazione e nemmeno una risalita dei tassi (i BoT a tre mesi rendono adesso il 19, 34 per cento) ha evitato che si spendessero in poche settimane circa tre miliardi di dollari in riserve per scongiurare un'altra svalutazione del cambio che, comunque, si staglia sempre più minacciosamente all'orizzonte. I massimi storici toccati dai tassi d'interesse in Italia alla fine del 1981 verranno probabilmente superati tra non molto, anche se l'inflazione dovesse proseguire nella sua frenata lunga. In trenta mesi di ininterrotta ascesa dei tassi (contro I 16 e I 10 mesi che accorsero per superare le crisi del 1973-74 e del 1976-77) la lira ha già svalutato per ben due volte, e ciò dimostrerebbe che anche la più classica delle armi monetarie si e ormai definitivamente spuntata. Il ragionamento secondo cui tutto ciò dipenderebbe esclusivamente dalle perturbazioni del quadro internazionale, a questo punto, può non convincere più; nemmeno il fatto che il rendimento del denaro e oggi ovunque positivo basta a spiegare l'anomalia della situazione italiana. E' ormai l'intero sistema finanziario del Paese a "congiurare" contro la logica e il buon senso di un equazione stretta fra inflazione e costo del denaro. Tanto e vero che, come sosteneva recentemente un economista, "la riduzione del tasso interno di inflazione non e più condizione sufficiente per abbassare i tassi". Su questa contraddizione tecnica rischia di esplodere nei prossimi mesi una grave contraddizione economica e politica, poiché sarà incomprensibile al più il motivo di una perdurante "stretta" monetaria nel momento in cui sarebbe opportuno invece agganciare il Paese alla fase di ripresa economica internazionale. C'è, dunque, qualcuno che in Italia "scommette" sull'aumento dell'inflazione? Lo Stato innanzitutto, sembra di capire. Non potrebbe esservi altra risposta, visto che il BoT semestrale (il più richiesto tra i risparmiatori) ha perso in quattro mesi appena 81 centesimi, mentre l'inflazione e scesa di ben quattro punti percentuali. Se poi si prendono ad esempio i Cct, il "caso" appare addirittura macroscopico: la prima cedola semestrale offre un rendimento del 10 per cento, pari ad un interesse annuo del 22 per cento. Si dirà che queste remunerazioni "sudamericane" corrispondono all'esigenza di allungare la vita media del debito pubblico: ma e vero anche che l'unico risultato pratico è quello di rinviare nel tempo il rimborso del capitale con un peso specifico degli interessi alle scadenze drasticamente aumentato. La scommessa e dunque sull'inflazione in grado da sola di quadrare tutti i conti tra qualche anno? Pare di si, visto che anche gli enti pubblici e le aziende si sono buttate sui tassi astronomici per rimediare alle loro drammatiche esigenze di finanziamento. Le obbligazioni dell'Enel, per esempio, sono indicizzate addirittura sia al capitale sia agli interessi e dovrebbero rendere all'incirca il 24 per cento. La dimostrazione forse più chiara della incapacità strutturale dell'Italia (finanziaria) ad adattarsi ad un clima inflazionistico meno pesante la si e probabilmente avuta con l'emissione degli EuroBoT, denominati in Unità di Conto Europea (ECU), lanciati sul mercato al 14 per cento, quindi in posizione di apparente netta inferiorità rispetto ai titoli concorrenti. Le autorità monetarie hanno fatto allora due promesse: la prima (ragionevole) di un'inflazione calante che avrebbe finalmente reso positivo il rendimento dei nuovi titoli; la seconda (sorprendente) di uno slittamento del cambio che avrebbe permesso al risparmiatore di compensare l'eventuale tasso d'interesse troppo basso con un recupero di maggiore capitale rispetto a quanto da lui investito nel caso in cui la lira avesse nel frattempo svalutato rispetto all'ECU. Come si vede, siamo ben lontani dalla situazione nella quale si trovano gran parte degli altri Paesi, dove - sembra ovvio, ma non lo e - i tassi d'interesse assolvono soltanto al ruolo di strumento di allocazione delle risorse tra sistema finanziario e sistema produttivo, e non a quello di ammortizzatore delle debolezze e degli squilibri interni. L'Italia, dunque, e al bivio tra recessione ed espansione. Come dire: la vera emergenza economica comincia adesso. Ma che cosa hanno in mente gli lmprenditori? L'idea che ci si fa in questi tempi e quella di una Confindustria in festa: lo spettro del referendurn sulle liquidazioni e svanito, o sembra svanito, il sindacato appare paralizzato, l'economia ha ripreso in qualche modo a "tirare", i bilanci aziendali si sono chiusi uno dopo l'altro con utili che da anni non sì ricordavano sugli azionisti, per troppo tempo delusi, piove una manna di dividendi. Vittorio Merloni, presidente della Confindustria, non ha invece l'aria felice. Sta per cominciare il suo secondo biennio alla testa degli industriali italiani, ancora più preoccupato di quando, nel 1980, lasciò la metodica vita di medio imprenditore a Fabriano per gettarsi nelle acque tempestose di Roma. Dietro i grandi occhiali che nascondono a metà il suo volto corrucciato si legge un pessimismo che non può non sorprendere. Perchè? "E' facile
dire ripresa. Ripresa partita, economia decollata... Qualche movimento
c'è stato, chi lo nega? Ma dobbiamo dire grazie soltanto a fattori
interni dei quali c'è poco da gioire. Siamo ancora in crisi? "Ci sono settori Produttivi ancora in situazione di pesante recessione o di stasi degli ordini e settori che hanno migliorato un pò. Tutti i settori che producono beni di investimento se la passano male, per esempio". Ma allora, perchè si parla di imminente ripresa economica internazionale? Siamo la "pecora nera" del mondo industriale? "Il problema e come arrivare all'appuntamento con la ripresa mondiale. Faccio un esempio. Noi siamo un rimorchio lanciato insieme ad un camion con motore; finché andiamo in discesa, va bene; ma che cosa succede quando ci si rimette in salita? li camion va avanti, il rimorchio scivola a valle. Ecco quel che mi preoccupa: come facciamo ad agganciarci al camion degli altri paesi? Il fatto e che gli altri Paesi hanno fatto buon uso della recessione per sistemare alcuni problemi strutturali, come il costo del lavoro, l'innovazione tecnologica, la spesa pubblica. Noi la recessione l'abbiamo subita passivamente. Che cosa è cambiato in ltalia? Più disoccupazione, calo degli investimenti, emoraggia di risorse dall'impresa verso i consumatori. Se, per caso, la domanda mondiale riparte e i costi delle materie prime aumentano, la nostra inflazione riesploderà. In una battuta: finiremo per subire la ripresa così come abbiamo subito la recessione. Scherzi a parte, nelle condizioni in cui siamo oggi, ammesso che la ripresina si consolidi, e molto probabile che si sarà costretti ad ucciderla rapidamente o prima della svalutazione, per tentare di evitarla, o subito dopo per impedire un pericoloso rimbalzo dell'inflazione. Dunque: l'emergenza economica comincia davvero adesso. Altro che parlare di uscita dal tunnel ... " Nel vostro documento "Aggancio con la ripresa" si parla di novanta giorni utili per evitare il dramma. In termini operativi che cosa significa? "Guai se non correggiamo la rotta adesso. Dunque, fisserei tre punti: primo, riduzione dei costi di produzione; secondo, controllo della spesa pubblica; terzo, rilancio degli investimenti. Non e la solita musica. Prenda i costi industriali. C'è quel famoso 16 per cento da rispettare. Come si fa se il costo del lavoro continua a salire più che altrove e i costi finanziari sono quelli che sono? Quasi ovunque i sindacati hanno accettato negli ultimi tempi aumenti salariali inferiori al tasso d'inflazione atteso. E da noi? Tutto è rimasto come prima. Dal 1973 in poi in tutto il mondo il sindacato si è trovato di fronte all'alternativa tra difendere il salarlo e difendere l'occupazione. All'inizio ha difeso il salarlo, poi ha capito che bisognava proteggere l'occupazione. In questo nostro Paese il sindacato ancora oggi insiste nel salarlo. Sembra incredibile. In Giappone e da due anni che si sono accorti della incompatibilità dei due obiettivi; negli Stati Uniti è dal 1980; nella Repubblica Federale Tedesca, nel Regno Unito, in Olanda, almeno da dodici mesi. Qui siamo al 1982 e non la si vuole ancora capire. Non si può continuare a distribuire all'infinito più ricchezza di quanta se ne produca." La Confindustria, dunque, dice no agli aumenti salariali? "Andiamo con ordine. Il presidente della Confindustria oggi ha di fronte due interlocutori. Un mondo politico litigioso, attento ai problemi di potere, ma poco impegnato sul fronte dell'economia. Dall'altro lato, un mondo sindacale che vuole combattere l'inflazione, come dimostra almeno con le parole, ma che resta latitante sul piano concreto. I salari continuano a crescere più dei prezzi, ci sarà una riforma delle liquidazioni che avrà comunque oneri pesanti per le aziende, la scala mobile alimenta l'inflazione di continuo, la piattaforme sono in stridente contrasto con le compatibilità minime. Abbiamo chiesto al sindacato di riaprire la trattativa sul costo del lavoro, ma non ci hanno nemmeno risposto. Forse non sanno che cosa dirci ... " E allora? "Abbiamo avocato al centro, alla Confindustria, le trattative sui contratti per riannodare i fili di un discorso che investe tutti i fattori del, costo del lavoro. La giunta ha impegnato la presidenza, nel caso in cui le trattative globali sul costo del lavoro non si riaprissero, a prendere tutti i provvedimenti perché siano rispettati gli accordi del giugno 1981, quelli del "tetto sul 16 per cento". Non voglio dire con questo che decideremo senz'altro per la disdetta dell'accordo sulla scala mobile perché, stavolta, o lo facciamo davvero o nemmeno minacciamo una simile eventualità. Resta il fatto che fino a quando il governo non ci dice che quel 16 per cento non vale più, che si può andare oltre, non prenderemo alcuna decisione sui contratti. Abbiamo tutte le ragioni dalla nostra parte. Quando, il 28 giugno 1981, decidemmo di non disdettare la scala mobile, ci fu l'impegno del sindacato a sedersi al tavolo per discutere del costo del lavoro. Oggi possiamo dire che loro sono inadempienti; a parte i contratti, denunciare adesso le intese sul punto unico avrebbe comunque più valore di un anno fa. Per questo non sono affatto pentito di aver scelto la strada che allora scegliemmo. Un anno fa la disdetta sarebbe stata una decisione poco comprensibile politicamente in presenza del primo governo laico e di una non facile situazione generale del Paese. Oggi chi potrebbe darci torto? Occorre tener presente questo: noi non parliamo del 16 per cento per il 1982; parliamo del programma triennale di rientro dall'inflazione; quindi del 13 per cento del 1983 e del 10 per cento del 1984. Dobbiamo perciò valutare quale effetto avrebbero certe concessioni fatte adesso sui prossimi due anni. Siccome gli automatismi salariali e quel che ci costerà la riforma delle liquidazioni anche senza il referendum portano già al 16 per cento, non ci sono spazi per i contratti. E poi: mettiamo pure che la proposta del governo sulle liquidazioni comporti maggiori costi inferiori al 16 per cento per quest'anno; che cosa succede l'anno prossimo, quando il tetto fissato è quello del 13 per cento? E nell'84, con un limite del 10 per cento? Dovremmo fare una battaglia per salvare quel che resta, i pochi mesi rimasti, quando sappiamo che dal primo gennaio 1983 siamo già fuori dai limiti? Che senso avrebbe? A meno che il governo non svaluti la lira, diciamo del 7 per cento, e ci dica: signori imprenditori, potete arrivare fino al 23 per cento di aumento dei Ma è una decisione che non ci compete, riguarda il capo del governo, il ministro del tesoro e il Governatore della Banca d'Italia. E infine, che cosa otterrebbero i lavoratori? Un pò più di lire svalutate ... "
Ma la produttività sta aumentando fortemente, e i profitti aziendali anche. Dunque? "La produttività
è aumentata in alcune grandi aziende dove le strozzature erano
maggiori, dove gli operai hanno assunto spontaneamente comportamenti
diversi dalle rappresentanze sindacali, dove la mobilità e gli
organici erano bloccati. Ma nella gran parte delle imprese, produttività
e assenteismo sono invariati. Gli utili? Allora rivolgo Io una domanda:
è sceso il costo del lavoro? No, è ancora superiore all'inflazione.
E' sceso il costo del denaro? No, è più alto di dieci
punti rispetto al tasso d'inflazione. E' sceso il costo dell'energia?
Sì, ma soltanto artificialmente, come dimostra il deficit dell'Enel.
Gli utili che si vedono scritti sulla carta sono un'illusione ottica.
Per questo gli industriali cominciano a chiedere l'intervento del governo e dello Stato per rimettere in modo gli investimenti? "Non è che l'impresa italiana non abbia più possibilità di muoversi, ma i tempi per realizzare gli investimenti minimi necessari in proprio sono di circa cinque - sei anni. Gli imprenditori non possono aspettare tanto. Nel giro di sei mesi può essere troppo tardi. Se decolla l'economia internazionale, e può sempre accadere nel giro di poche settimane o di qualche mese, le nostre aziende rischiano di rimanere spiazzate, di perdere i maggiori spazi di mercato che si apriranno. Occorre dunque mettere in moto quella massa di manovra, quel programmi di investimento che allo stato attuale sono bloccati dalla mancanza di incentivazioni all'ingresso del risparmio in Borsa dalla pesantezza dell'imposizione fiscale, dallo scarso coordinamento dei flussi finanziari, e anche dal basso volume degli investimenti pubblici, e dal costo del denaro. O si parte subito, oppure questa volta non riusciremo più ad agganciarci al carro degli altri Paesi industriali".
5) Una grave novità:
anche al Centro-Nord la crisi dell'occupazione ha cominciato a far sentire
un forte peso: dall'80 all'81, ben 155.000 disoccupati "epliciti"
in più (pari a un boom del 20% in dodici mesi); in tutto, oltre
un milione di inoccupati "ufficiali" e quasi un milione e
mezzo di veri e propri disoccupati; l'allargarsi a macchia d'olio di
quella forma di sottoccupazione che e la cassa integrazione (mezzo milione
di ore l'anno scorso!); un forte calo dell'occupazione industriale (-100.000
dipendenti dalle imprese di ogni dimensione, cioè - 1,6% che
sale però a -3% nelle imprese maggiori); in ultima analisi, l'indebolirsi
di interi comparti della media e grande industria manifatturiera che,
una volta venuto meno il "freno" della cassa integrazione,
rischierà di tradursi in crolli d'occupazione, per i quali la
crescita del terziario (che continua) non e e non sarà una risposta
sufficiente. |
![]() Tutti i diritti riservati © 2000 |