Più che lettere,
sono appendici di un romanzo unico ed incompleto; capitoli, pur frammentari,
di una vicenda che segue la prima, appena abbozzata, stesura della storia
post-unitaria. I personaggi s'incarnano in una narrazione a puntale
che si meteorizza nel "feuilleton" di un quotidiano sociale
che mai si presta alla convenzionale oleografia delle rivisitazioni.
Il trait-d'union del carteggio è il leccese Cosimo De Giorgi,
meteorologo e sismologo dell'Ottocento. Lo studioso di Terra d'Otranto
non è, comunque, solo una cerniera fra più persone, o
più situazioni: rappresenta anche, e soprattutto, il punto di
ritrovo concettuale di idee, di aspirazioni, di fallimenti e di successi
individuali. Se la confessione è la "psicanalisi dei poveri",
il De Giorgi si evidenzia nel ruolo dell'amico, confidente e complice,
presenza discreta, alla ribalta di un illuminismo culturale proiettato,
ormai, nel secolo delle certezze. Il novecento si materializza già
nelle ultime pagine di una storia - quella dell'Ottocento - da rileggere
con il rimorso di chi non è stato protagonista e, forse, neppure
comparsa.
Le lettere qui riportate, tutte inedite, risentono di questa frattura,
al di là delle singole aderenze culturali e politiche. Sono missive
esistenzialiste, qualcuna anche romantica, e persino byroniana.
Hanno in comune non solo il destinatario, che è necessario ricostruire
nel suo silenzio-presenza, ma anche una condizione, un'inclinazione,
dei mittenti: la denuncia di una crisi personale che sfocia nel campo
pubblico, coniugandosi con le poche verità assicurate dall'Italia
ottocentesca.
Ogni autore nasconde, dietro di sé, un "male" oscuro
e imprecisato che emerge, di volta in volta, da una tensione, non solo
espressiva, che recita, nel teatro sotterraneo dell'inconscio, un conflitto
sociale, e gli interrogativi della novità (1).
Parafrasando Pirandello, le lettere sono altrettanti personaggi in cerca
di un autore, che, benchè conosciuto ed esperimentato, nessuno
invoca a propria difesa. Sono, anche per questo, lettere di una profonda
solitudine, con l'"escamotage" di una prova d'appello sempre
rinviata ma, alla fine, inevitabile. E non è un caso che il terminale
dell'intero carteggio sia l'uomo di un Meridione disaggregato e frenato
socialmente, nonostante i suoi numerosi apporti culturali (2). In questo
senso, ogni lettera perde la precarietà dell'immediatezza e della
contiguità fisica, o geografica, per divenire romanzo e racconto:
un passo ancora, ed è già storia.
L'Epistolario degiorgiano è vasto: quattrocento lettere circa,
che ripercorrono la fine dell'Ottocento e il primo ventennio del nostro
secolo.
De Giorgi muore nel 1922. Fino ad allora mantiene stretti contatti con
scienziati e umanisti del suo tempo. Un'amicizia, virtuosa e dai toni
accesi, che è il solo banco di prova per l'uomo positivista ed
illuministicamente impegnato.
Varie le lettere, differenti i contenuti. Meteorologia, botanica, architettura,
geofisica, in un intreccio di cultura e scienza che ha punteggiato una
storia che, soprattutto meridionale, appartiene, in prospettiva, a tutta
la Penisola. Escluse le lettere convenzionali, cioè di saluti
e di ringraziamenti, l'attenzione s'incentra, invece, su quelle che
rivelano un'idea, una situazione, un "momento" che può
essere prolungato in funzione storica.


Esemplari, sotto questo aspetto, le lettere di Gioacchino Stampacchia,
poeta e letterato leccese. Esule da un Meridione che lo ha sempre rifiutato,
il suo sfogo è datato 19 giugno 1883, da Alezio.
"Carissimo
mio dilettissimo
Vuoi tu il perchè della mia frase: "forzosamente spatriato"!
Eccola. Tu senti com'io sento, e leggi nel libro del mio paese natale
com'io vi lessi e vi leggo.
Codesto mio leggere e commentare, appunto, non potea non tornare a ml'o
danno. Codesti giovani, che mi odiano, sono figli di padri che mi odiarono,
e nepoti d'avi che odiarono il Padre mio. E mi odiarono e m'odiano,
perchè seppi pensare e volere un po' più speditamente
di loro.
I così detti liberali de' miei tempi (non i veri, che ancor vivono
e mi amano, e morirono amandomi) mi fecero sempre guerra senza sparagno,
vile quanto accanita, dal 1848 al 1865 in guisa che per evitare ogni
attrito, ogni scontro, ebbi sempre a trincerarmi nell'accorto proponimento
di rifiutare, o dimettermi dalle molte cariche, sia offerte soltanto,
sia conferite; da Tenente della Guardia Nazionale (benchè sempre
rieletto) a Presidente della Commissione della Statistica Municipale.
Non mi si volea dalla facciata camorra in verun posto, perchè
ero saputo nemico deciso della camorra. ( ... )
Non volli più saperne di Municipio, perchè mi si voleva
strappare un voto favorevole, per una privata, illecita usurpazione
di suolo - in Piazza a danno del Comune. Mi si pregò di non intervenire
nella discussione del fatto. Intervenni, e feci ragione al diritto municipale.
Inde irae della Giunta, e mi dimisi.
Era membro della Commissione esaminatrice provinciale, anzi controllo
di essa Commissione. E bene, voleasi concedere un posto gratuito in
codesto Convitto Palmieri a chi non lo meritava, avvegnaché,
a fil d'esame, spettava a Gerolamo Congedo di Giuseppe. Il Prefetto
Murgia non accettò le conclusioni degli esaminatori, perch'io
fui assente in quella giornata, e m'indirizzarono ufficio premuroso,
invitandomi a recare il mio voto. Avvenne una riunione tempestosa, una
discussione accanita sì che chiesi l'intervento del Prefetto
e vinsi. Congedo - meritevole - venne ammesso e, il già ammesso,
respinto. Dopo ciò, le mie solite dimissioni.
Che dirti poi dei fratelli in Medicina? Quasi tutti collegati a mio
danno. Nel '60 poi la maggior parte della mia clientela - clericale
e borbonica - m'andò scemando in guisa che la borsa mia ne pianse.
Mi si chiamava per malattia e mi si attaccava in politica per progetto;
ed io a risponder franco: Italia, Vittorio Emanuele, Roma Capitale!
( ... )
Ero Medico condotto, e questa carica rendea una briciola di pane. Nossignore,
che quella briciola non dovea più, dopo 23 anni di servigi, andarmi
in ventricolo. Ciò che vado a dirti avvenne nel '49. Come fare
a togliermela? S'improvvisò una inchiesta: qualche pulce mi si
dovea alla fine trovare nella camicia, giacché etiam et justus
peccaverit santo in die. E nossignore, che quella benedetta pulce non
me la trovarono. Non potevano trovarmela... Trovarono bensì la
rogna sulla cute degli altri, ed a me solo venne mandato un ufficio
in cui mi si dava il titolo di "unico diligente". Si trovò
anzi, e me lo disse il Canonico d'Anna, ch'io provvedeva i miei poveri
infermi di soccorsi in generi e in danaro. Così, coloro che volevano
percuotermi, rimasero battuti. Che anzi, oltre della Condotta in S.
Maria della Luce, ove si moriva in ragione dell'uno e mezzo per cento,
mi si volle affidare l'altra di S. Maria della Porta, ove si moriva
a man franca, per manco d'assistenza; e, dopo un anno, tutto andò
in regola, come dimostrai con statistiche comparative, controllate dei
Parroci e cresimate dal Municipio.
Venne poi l'epidemia colerica; ed in codesti Archivi della Prefettura
devono apparire i benefici che ressi alla bella Squinzano, esponendovi
la vita, senza chiedere mercede. Anzi, mi si gratificò, togliendomi
la Condotta di S. Maria della Porta, che Sozi-Carrafa avea promessa
ad un suo favorito!".
La lettera continua
ancora sullo stesso tono. Stampacchia ha deciso già di lasciare
Lecce: gli serve solo il pretesto. Glielo fornisce il padre di una bambina
che Gioacchino aveva salvato da sicura morte. "Commosso e riconoscente",
l'uomo gli consegna un foglio di carta trovato in casa di un conoscente
comune, affinchè "apprenda cosa sono questi liberali leccesi":
"La carta contenea
una lunga filza di spie. Cominciava così:
Marchese Palmieri - spione e getta urinali.
Famiglia De Anna - spie e camorristi. Veniva poi, in ultimo:
Vito Stampacchia e figli, di equivoca condotta.
E se non piangi, di che piager suoli E noi, intanto, patimmo manetta,
carcere, condanna di Corte Speciale e lutto amaro per l'esistenza. Esagerai,
dunque, dicendoti che mi si forzò a partire, spatriare! Ma se
fossi rimasto in Lecce, oberato di figli, che poi mi tolse la morte
ad uno ad uno!, mi si sarebbe trascinato nella miseria. ( ... )
Si ha un bel dirmi e ripetermi che, lasciando Lecce, caddi in peccato
d'ingratitudine. E l'ingratitudine importata dai Francesi all'Italia,
perché essere assorbita, despotizzata, per divenire provincia
d'un impero e fango di una repubblica. Altronde non chiedo nulla alla
mia Lecce munificente, non ho assoluzioni da chiedere, perchè
non ho colpe da confessare".
Il distacco è
avvenuto. D'ora in poi, Stampacchia parlerà di Lecce, della "sua"
Lecce, con il disinganno di chi si sente emigrato allontanato. La sua
diaspora finirà a Torino: "Stiamo benone", dirà
poi, "lieti, visitati, amati, coperti di fiori". (3)
Non è comunque, una denuncia isolata, o riconducibile, frettolosamente
allo sconforto di uomo tradito e defraudato.
Il clientelismo, la spartizione (oggi si direbbe "lottizzazione")
delle cariche sono largamente diffusi, e suscitano scandalo.
Da Roma, il 27 febbraio 1900, Filippo De Magistris così gli scrive:
"Carissimo
D. Cosimo
A te si deve se nell'Italia meridionale, quasi sconosciuta, vi è
un lembo di terra conosciuto e studiato quanto e più di tanti
altri dell'Italia settentrionale, e studiato con metodo".
Ricordando che gli
studi compiuti in Italia sono accolti favorevolmente dall'"intellighentia"
europea, De Magistris denuncia il costume di
" ... noi Italiani
che sappiamo solo di coloro che si fanno accompagnare da un eloquio
tanto più strepitante e scandaloso per quanto più vuoto
ed insulso è il cosiddetto lavoro che compiono. ( ... ) Se la
società nostra fosse diversa, e gli uomini d'Italia meno intriganti
ed affaristi, come vorrei vedere portati sempre in palma di mano, onorati,
venerati rispettati coloro che studiano e lavorano per l'Italia, per
questa maga... che dà vita a figli per la maggior parte imbevuti
ed impastati d'egoismo e di ingratitudine" (4).
Le premesse al nuovo
secolo non possono essere più fosche.
Il modo di gestire la "cosa pubblica" non può non destare
seri dubbi nell'osservatore attento e imparziale. Lorenzo Verney è
uno di questi, se scrive al Sig. Prof. De Giorgi:
"Avrà
letto un articolo della Tribuna dove si parla, tra l'altro, dell'opposizione
di alcuni giornaletti pugliesi contro l'acquedotto. Chi sa mai perché
quel diminutivo, il quale tende a diminuire l'importanza della campagna?
Che cosa si richiede, secondo la Tribuna, perché un periodico
meriti il nome di giornale e sia preso sul serio? Forse dev'essere venduto
al governo? Ma fortunatamente esiste una stampa che serba ancora il
sentimento della Dignità e dell'Onestà. Forse deve avere
una tiratura di 200.000 copie? Ma questo privilegio può appartenere,
tutt'al più, ai giornali che si pubblicano nei grandi centri.
Dunque? Dunque, secondo la Tribuna, i giornali delle Puglie debbono
dividersi in due grandi categorie: gli uni osteggiano l'acquedotto e
questi sono i giornaletti, i giornalucoli od i giornalacci; gli altri
portano ai sette cieli quest'opera, e sono i giornali seri e degni di
essere presi in considerazione".
La lettera, presumibilmente,
si riferisce a un progetto (per l'impianto di un acquedotto), che annovera
fra i suoi ideatori lo stesso De Giorgi, alternativo a quello presentato
dalla ditta appallatrice dei lavori. Il riferimento al Governo non è
casuale: si legge, tra le righe, il sospetto per connivenze tra potere
politico e potere economico, schermate da veline giornalistiche.
Ma esiste, anche, un terzo potere, altrettanto arrogante, quello del
clero. Superate, con difficoltà e in modo poco convincente, le
accuse di aver favorito il brigantaggio (6), e di ritardare la soluzione
del problema demaniale, i religiosi si arroccano sempre più in
un difensivismo esasperato delle proprie posizioni di prestigio, anche
quando la specificità di una materia consiglierebbe ben altro
comportamento. Da Spongano, il 21 agosto 1892, Filippo Bacile così
commenta:
"Mi si comunica
in questo momento dal Prefetto, quello che già avevo letto sul
Corriere Merid.: cioè, che " iI Ministero della Istruz.
Pubblica, per non pregiudicare con ulteriori ritardi il regolare andamento
dei lavori (quali lavori?) della Cattedrale di Nardò, ha ordinato
all'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti che ha sede
in Napoli, d'inviare sopra luogo un suo Ing. per la Compilazione dei
Progetto".
Ma che progetto? Di restauro? Si leggano i primi numeri delle Norme
per la conservazione dei monumenti, e si vedrà allora, osservando
lo stato attuale (!) degli avanzi di vario stile, e quindi varie epoche,
scoperti a Nardò, se sia il caso di restauri, o di riedificazioni
sulle qualsiensi traccie che ivi si osservano, come io ho già
riferito.
Ma nel tempo stesso mi si scrive da Nardò confidenzialmente e
sicuramente, che tale diposizione sia stata provocata da quel Pastore,
Mons.re Ricciardi, il quale si è doluto presso il Ministero che
il Prefetto abbia dato incarico a me per riferire su quella Chiesa.
( ... )
Ho stimato di scriverne a Voi, perché mi sembra che quel Pastore
faccia troppo afidanza con la croce che gli hanno appesa sul collo (dicono
per toglierselo via da Taranto) e giochi presso il Ministero della Pubb.
Istr. ne mercé di alcune sue conoscenze, non pure me e la Comm.ne
Leccese, prefetto incluso, ma il buon senso dei Sig.ri Neritini; i quali,
e parlo di quelli che sono i più ragguardevoli, mi fanno giungere
delle insistenze onde una risoluzione ragionata e decorosa venga per
quella Chiesa rimovendo i capitosi ostacoli di quel Pastore, il quale
vide lusingata la sua vuota vanità dalle parole di quel tale
Archeologo che gli mandò il Ministero, e che lo dichiarò
e lo fece dichiarare benemerito delle Arti per aver scoperto e conservato
un monumento unico, e che (con quelli archi e quelle ogive e nervature!)
si dice tuttodì Normanno!!! Dicessero Svevo, almeno!" (7).
Comunque, esiste anche chi, pur dovendosi occupare del "sacro",
non disdegna fugaci incursioni nel campo sperimentale, come Giuseppe
Candido, Vescovo d'Ischia che, il 4 febbraio 1900, risponde al De Giorgi,
confermandogli come "i gessetti per le lavagne si possono comporre
facilmente, impastando il bianchetto con colla di farina e di amido
(pannolo), spargendo la polvere di bianchetto su di una tavoletta, per
impedire l'adesione, e rotolandovelo sopra; se la pasta risultante sarà
troppo molIe, vi si aggiungerà del bianchetto, se troppo dura
vi si aggiungerà altra colla" (8).
Un altro religioso,
altrettanto illuminato, occupa un posto rilevante nell'Epistolario.
Si tratta dei Barnabita Francesco Denza, napoletano, fondatore deIl'Associazione
Meteorologica Italiana. le lettere dei Denza sono asetticamente scientifiche.
In alcune di esse affiora, però, l'amico-confessore:
"Sebbene per
me fosse cosa aspettata, tuttavia potete ben pensare con quale grandissimo
dolore io abbia sentito la triste novella che mi avete dato; giacché
conosco cosa vuol dire perdere la madre, la persona più affezionata
che si può avere in questo mondo, ma bisogna pur persuadersi
che oggi o domani è questa la parte di noi tutti e beati noi
che abbiamo il sollievo grande di poter pregare per i nostri cari...
Iddio vi conceda di continuare i vostri giorni tranquilli e laboriosi
e di fare ancora del bene al Paese, agli amici e a voi stesso".
Dicembre 1889. (9)
"Nel prossimo numero vedrete le conclusioni del Consiglio Direttivo;
e nel seguente la relazione della bella festicciuola fatta a Torino
mentre voi eravate nella Luna di miele.
Vi auguro felicissimo avvenire insieme colla vostra diletta sposa, a
cui ricambio di cuore gli ossequi ... " Maggio 1891 (10).
"Sono contento che voi e la vostra Amalia cara ve la passiate abbastanza
bene e che la vostra bambina prosperi in ogni cosa--- Grazie delle notizie
del terremoto che per me è importante avuto riguardo alla grande
catastrofe avvenuta a Costantinopoli". luglio 1894 (11).
Padre Denza, il
Barnabita di Moncalieri, si farà sentire fino all'ultimo:
"Anch'io, caro
de Giorgi, ho terminato i miei viaggi ed ora mi son fatto molto pigro,
anche per necessità. Fo quel poco che mi permettono le forze
e non ho più l'energia di una volta. Fate bene ad occuparvi del
ventennio delle vostre osservazioni, le quali son quelle che rimarranno.
Conserviamoci sempre amici, questo è solo ciò che mi rimane
... " (12).
E' il dicembre del
1894. In calce alla missiva, De Giorgi annota: "l'ultima lettera
direttami dal P. Denza che è morto pochi giorni dopo". Quasi
un testamento.
Autore del famosi "Bozzetti di viaggio" - "La Provincia
di Lecce" -, De Giorgi lavora al recupero del Meridione relegato
nelle nicchie di un'arida espressione geografica. E' un compito di sgrossamento
e di pura archeologia, che lo accomuna al Castromediano, al De Simone,
al Tanzarella, al Maggiulli, al Palumbo, al Pignatelli, al Barba, al
De Vincentiis.
Molte lettere riflettono questa sua situazione di ricercatore.
Da Berlino, l'8 novembre 1902, il prof. Helmaun gli chiede chiarimenti
sulla "pioggia di sangue" del marzo 1901 (13)-, nel 1909,
il Regio Commissario per i Consorzi di difesa contro la fillossera nelle
Puglie lo prega di "far risapere la vostra opinione sul modo come
evitare i disastri nei futuri terremoti" (14); Attilio Biasco,
della Cattedra Ambulante di Agricoltura, Tricase, 1910, vuole sapere
quali e quanti sono gli scrittori che hanno studiato la Quercia Vallonea,
"preziosa essenza silvana che un tempo costituiva la ricchezza
dei Tricasini" (15). Lo stesso Sottosegretario di Stato per l'Agricoltura,
l'industria e il Commercio, Alfredo Codacci Pisanelli, gli fa pervenire,
nel gennaio 1910, una nota riservata, invitandolo a Roma "per aiutarci
a preparare provvedimenti legislativi adeguali al riassetto della idrografia
pugliese" (16). Persino un avvocato di grido, il leccese Contursi,
gli chiede quali "siano le leggi che regolano la materia del ritrovamenti
archeologici in terreno municipale" (17).
Ogni lettera è una teoria di richieste, chiarimenti; gli esempi
potrebbero continuare a lungo, dimostrando che la versatilità
dello studioso salentino non è frutto di conoscenze casuali.
Esiste, comunque, un secondo De Giorgi, meno scienziato e più
uomo del quotidiano, il caro Don Cosimo, della missiva da leggere, in
veste da camera, pantofole ai piedi, accoccolato davanti al camino:
"Le streghe
nel 1868! Nel secolo del progresso, del vapore... Oh, le streghe, pei
nostri campagnoli, le sono un articolo di fede su cui non si ammette
discussioni di sorta; e guai al profano che osasse metterle in canzonatura...
O il tremendo mai d'occhio? Alla pari d'alcuni rettili dal guardo fissatore
- la strega - se dà un occhijata ad una bella creatura la uccide,
ma non d'un colpo. Come i veleni preparati nel tempo dei Borgia, il
mal d'occhio dispiega i suoi tremendi effetti più o meno prontamente,
ma immancabilmente - La bella creatura grado grado dimagra, si disfa.
Non si guarda se è realmente malata, né si chiama il medico
(che si ritiene scettico), ma convinti della tremenda guardata, s'acclama
strano consesso di donne: si disputa la cosa, e si strae che veramente
c'è il mal d'occhio. Poche gocce d'olio gettate nell'acqua, dal
modo con cui si comportano nel liquido, provano o no l'assente, e provano
- con qualche segno di croce - a disciogliere la malìa...
Oltre alle streghe ci sono gli stregoni. Pare impossibile, ma è
vero purtroppo che vi siano degli impostori, dei ciurmatori che si affibbiano
la gnome del Balsamo, del Cagliostro (senza i loro talenti) e che danno
a bere a questi poveri di spirito esser capaci di sciogliere e guarire
ogni malia. Quindi, appena qualcuno è dichiarato stregato, si
porta allo stregone e questi a suon di mormorati carmi, fa strani miscugli.
E assicura guarito il malato...

Spesso è il prete che, con una benedizione, una messa, una prece
(mantenendo l'ignoranza a favore della santa bottega), li assicura guariti:
ma lo stregone è in generale più potente di tutti, e crepan
tutti quelli che vi ricorsero tardi... Capirai facilmente che alla pari
delle Streghe, il Diavolo e li Spiriti sono un altro domma di fede,
e qui sì che le più curiose novelle si narrano e si ascoltano
con tanto d'occhi, e con un diluvio di segni di croce...
Ecco i frutti dell'ignoranza, della superstizione, mantenuta per sempre
dal clero, che ha per tanti secoli diretto l'educazione del nostro popolo.
Speriamo che a poco a poco le tenebre che ne offuscano ancora la mente
si dilegueranno. Intanto è assai deplorabile l'ignoranza attuale,
che si estende non solo a chi veste male, ma anche a molti che vestono
all'ultima moda. Proprio diceva bene Bartolini: "il volgo non è
soltanto chi ha l'abito rosso e scucito'!!": così un suo
amico, forse medico, nel 1868 (18).
Un secolo muore
per mano delle streghe, ma il Novecento non convince per le innovazioni
che porta con sé. Dubbioso e irritato, tra gli altri, Filippo
Bacile:
"Intanto un
giornale di Lecce annunzia che nella Chiesa dei Benedettini siasi tolto
dall'altare dov'era, il dipinto del S. Girolamo dell'imperato, per sostituirlo
con una di queste bambocciate di carta pesta che ora ottengono il favore
facile di tutti coloro che si dilettano del nuovo, o bello o brutto
che si fosse, purché si sostituisca a roba vecchia...
E dove si è messo il dipinto? Non si dice, né io ne ho
più letto nulla. Ma quale che siasi il luogo dove sia stato trasferito,
è sempre male. Non può aversi dritto da nessuno, a rimuovere
un dipinto dal luogo per il quale fu lavorato ed al quale era destinato,
e che ne sarebbe il sito natale, come ho detto. La stessa Trasfigurazione
del sommo Raffaello sta a disagio nelle sale del Museo Vaticano, e ben
reclama la sua culla che è S. Pietro in Montorio. Un geniale
scrittore francese nella Revue des deux Mondes, chiamò assai
bene, e molto giustamente i Musei, Les prisons de l'Art ... " (19).
I parametri di giudizio
sono stravolti. La "nuova" civiltà, con i supporti
etici di un capitalismo crescente, non può permettersi (e non
permette) soste, come rileva lo stesso Bacile nel novembre 1906:
"Ma intanto,
è mai possibile, è umano, è decente, che a fare
almeno galleggiare questa barca sdrucita, e carica di monumenti ed opere
d'Arte della nostra dormiente Provincia, non vi sieno che due soli a
vogare, dannatisi da sé al remo, Voi ed io?... Ma prima io, quindi
Voi, spariremo; e che lasceremo? L'apatia di tutti? E' mai possibile,
che non dirò chi abbia le mania regger la Provincia, ma almeno
il famoso terzo potere, non si scuota alle nostre parole... Ma sorge
l'altra meraviglia: e nessuno dei mortali del Salento ha sensi da essere
spinto a considerare arte, Storia, Antichità, come cose obbiettive,
onorifiche, civili, e averne amore, e prenderne difesa, ed emettere
parole a proposito... perché quaggiù né si capisce,
e quindi non si ama nulla di questa roba..." (20).
Lettere che segnano
il tempo con i rintocchi della storia, come i poveri eroi nerudiani
(21), con la stessa, sottomessa, immobilità. Parole che vengono
da lontano, accompagnano una vita, si sfaldano in polvere di segni,
con la cristallina trasparenza dell'ultimo brindisi:
"Eccoti un'altra
volta in queste mura che son prolungamento del tuo tetto, ove la santa
gioia e la sciagura trovan il pan degli angeli: l'affetto. Ben venuto
fra noi, giovin cortese, desiderio d'Idrunto: il mio Paese!
Fa tanto bene quel sapersi amato, e sia d'oltr'Alpe e sia d'oltre Appennino:
ma amor che tange illumina il creato, Amor che dice con labbro divino.
Oh, ch'io ti senta! dimmi la parola che il petto allarga e l'animo consola.
Tu la sai dir cotanto bella; sai dirla armoniosa, concitata, altiera
sì, che concilia e non divide mai e, com'ivi, s'impone e la bufera:
che s'entro il dubbio e il dolor t'offende, lieto il tuo fronte e la
pupilla splende.
Dimmi d'Italia mia; dimmi se l'ora verrà che suoni i suoi alti
destini; dimmi se il ciel di Bice e di Leonora pioverà sempre
guelfi e ghibellini... Se i mari affratellati e l'Alpi amiche disperderanno
le vergogne antiche. Di' se la balda gioventù che viene, non
più figlia di schiavi e non più schiava, se i campi cimentosi
e le carene saprà pugnar, saprà morir da brava; se vale
a misurar la lunga via che menò da Marsala a Porta Pia. Di' se
l'ire fraterne e la procace fame d'una falange tralignata de la discordia
spegnerà la face su l'ara de la Patria dilaniata; se, spezzando
i pugnali catalani, forte dell'oggi penserà il domani: l'oggi
che suda meditando e trova nuovi tesori per la Scienza e l'Arte; il
domani che irrompe e che rinnova l'àule a Minerva e le lorìche
a Marte, e una fede non cieca o vaticana.
Fede de l'avvenir, fede italiana. Ch'io t'oda ancor! Quando sarai lontano,
fiacca mi giungerà la tua favella, né stringermi di là
potrai la mano de la stretta che i palpiti affratella: Dimmi, se il
sai, che non verrà disusa la canzone del Sommo di Valchiusa.
Povero è il desco mio, modesto il loco che ti chiamava a fraternal
convito.
Ma qui v'ha core, e verginale è il foco che bacia in fronte il
tuo genio fiorito. Vivi a l'Italia mia, vivi a te stesso, al sole della
Scienza e del Progresso, e né di noi non ti scodar giammai, di
noi, che d'Amor l'alito nutriva: E Amor qui ti sorride, e Amore, il
sai, è il Dio di santa religione antica. Un Amico gli chiesi
e a lui lo devo; ed ecco, al nome tuo, Cosimo, io bevol". Gioacchino
Stampacchia, primo giorno dell'autunno 1881, a Torino (22).
NOTE
1) Cfr., in questo senso, Fedor Dostoevskij "Ricordi dal sottosuolo",
Milano, 1975. Interessante, nella introduzione a cura di Alberto Moravia,
l'accostamento del "male", individuale e collettivo, all'"inconscio",
soggettivo, di derivazione freudiana.
2) Il fenomeno sarà confermato solo dopo molti anni, da Antonio
Gramsci: "Gli intellettuali meridionali sono uno strato sociale
dei più interessanti e dei più importanti nella vita nazionale
italiana. Basta pensare che più di 3/5 della burocrazia statale
è costituita di meridionali per convincersene", in "Alcuni
temi della questione meridionale", riportato da "Stato operaio",
gennaio 1930.
3) Epistolario, Vol. 165, pp. 95-102.
4) Epistolario, Vol. 165. p. 609.
5) Epistolario, Vol. 163, p. 667.
6) Giuseppe Massari, "Il brigantaggio nelle province napoletane",
Napoli, 1863, pp. 14-15.
7) Epistolario, Vol. 164, pp. 17-20. (8) Epistolario, Vol. 163, p. 107.
9) Epistolario, Vol. 163, pp. 37-38.
10) Epistolario, Vol. 163, pp. 405-406. (11)Epistolario, Vol. 163, p.
61-63.
12) Epistolario, Vol. 163, p. 80.
13) Epistolario, Vol. 163, p. 55
14) Epistolario, Vol. 164, pp. 505-507.
15) Epistolario, Vol. 164, p. 81.
16) Epistolario, Vol. 163, pp. 249-250.
17) Epistolario, Vol. 164, p. 101.
18) Epistolario, Vol. 157, p. 15-22.
19) Epistolario, Vol. 164, pp. 41-44.
20) Epistolario, Vol. 164, pp. 33-35.
21) "Povero, povero campanaro, che mette in fuga la solitudine
a colpi di battacchio. La scampanata trapassa l'aria e cade velocemente.
Rimani solo, arrampicato sul le tue campane, lassù in alto".
Pablo Neruda, "Per nascere son nato", Milano, 1980, p. 24.
22) Epistolario, Vol. 159, pp. 83-85.
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