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Dibattiti
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Il problema - Banca |
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G.
D. M.
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La polemica scoppiata
negli ultimi tempi sul costo del denaro ricorda per certi aspetti le campagne
luddistiche condotte dal sindacato e dal gruppi extraparlamentari di sinistra
nel '68-'69 contro l'impresa privata. Allora si denunciavano i profitti
dell'industria come simbolo di un capitalismo perverso e antisociale,
oggi si arriva a dire da più parti che il tasso d'interesse applicato
sul credito bancario non deve superare l'inflazione, cioé che il
capitale non va remunerato. Pur senza giungere a posizioni così
estreme, anche molti degli imprenditori che gridavano allo scandalo durante
gli autunni "caldi" di tredici o quattordici anni fa, si sono
oggi schierati dalla parte degli "anticapitalisti", come dimostra
il fatto che la polemica contro le banche viene portata avanti con toni
estremamente aspri soprattutto dalla Confindustria. Perché, dunque, questa "guerra di religione" tra schieramenti che sino ad oggi non si erano mai trovati in posizione contrapposta? La ragione fondamentale è probabilmente che l'impresa italiana ha imboccato gli Anni Ottanta in una situazione finanziaria disastrosa, con un rapporto tra debiti e mezzi propri quasi insostenibile, con margini di redditività che basterebbero appena nella gran parte dei casi a coprire la metà degli ammortamenti, con un grado di autofinanziamento così basso da imporre di fatto il blocco degli investimenti. Assorbite bene o male le due crisi energetiche e lasciate alle spalle le ultime esplosioni del costo del lavoro, l'impresa si rende dunque conto che nel prossimi anni saranno i costi finanziari a porla fuori mercato. Pronostico certamente da sottoscrivere, se in Italia il capitale continuerà ad essere pagato più del doppio rispetto a tutti i Paesi nostri concorrenti. Tuttavia, non si può pensare al costo del denaro come ad un valore assoluto, oppure come ad una variabile indipendente dell'economia che, manovrata oggi insensatamente da un gruppo di finanzieri strozzini, andrebbe programmata nella direzione dell'interesse pubblico. Se prendiamo il "prime rate" ed il tasso d'inflazione dei sette maggiori Paesi industriali, emerge chiaramente che il costo reale del denaro nel nostro Paese (4,2 per cento) è perfettamente in linea con la media internazionale, tra il "minimo" della Gran Bretagna (2,5 per cento) e il "massimo" degli Stati Uniti (6,1 per cento), pur essendo l'Italia in posizione di maggiore debolezza per quanto riguarda la bilancia dei pagamanti e il deficit dello Stato. Il costo del denaro è dunque frutto di una politica monetaria oggi senza alternative. A questo punto, l'accusa di strozzinaggio rivolta alle banche reggerebbe soltanto in due casi: 1) se si riuscisse a dimostrare che il complesso dei costi che concorrono a formare la struttura dei tassi è in Italia nettamente inferiore a quello degli altri Paesi; 2) se risultasse che l'utile netto delle banche italiane in rapporto al loro bilancio complessivo e soprattutto al costi di intermediazione e sproporzionatamente superiore a quello delle banche americane, inglesi, francesi e tedesche. Secondo tutte le ultime analisi disponibili, gli indici di redditività bancaria pongono l'Italia tra il sesto e l'ottavo posto nella graduatoria dei Paesi OCSE. I profitti lordi, in rapporto al bilancio totale, sono delle 0,46 per cento nel nostro Paese, dello 0,43 in Francia, dello 0,68 nella Repubblica Federale Tedesca, dello 0,90 negli Stati Uniti. Anche i ricavi netti (3,65 per cento in Italia, contro 3,84 per cento negli Stati Uniti e 3,06 nella Repubblica Federale Tedesca) confermano che il nostro sistema bancario è in condizioni buone, ma certamente non di ingiustificato privilegio. Più complesso è il discorso sul costi operativi in Italia, secondo i dati OCSE: essi rappresentano il 2,32 per cento del bilancio, mentre in Francia sono il 2,42 per cento, nella Repubblica Federale Tedesca l'1,61 per cento e negli Stati Uniti il 2,45 per cento. Ci troveremmo, in sostanza, attorno all'undicesima posizione nell'area industriale. Ma questo risultato è in realtà solo apparente. Il sistema bancario italiano sopporta, infatti, una infinità di oneri impropri, del tutto sconosciuti in altri Paesi. L'intermediazione è da noi caricata di fiscalità che ancora oggi è difficile calcolare esattamente in tutte le sue subdole componenti; i vincoli amministrativi che regolano la raccolta aggiungono fattori di costo molto pesanti (e basti pensare alla riserva obbligatoria remunerata al 5,5 per cento). Franco Mattei ha recentemente calcolato che, su un deposito all'interesse nominale del 15 per cento, vi è allo stato attuale un prelievo fiscale esplicito di 3,2 punti percentuali ed uno "sommerso" di 2-2,5 punti. Per ogni cento lire depositate in banche, venti vengono "prelevate" soltanto per coprire forzosamente il disavanzo pubblico. E' dunque vero quel che sostengono le banche, e cioè (come si legge in un pregevole studio condotto della Banca Nazionale del Lavoro sull'argomento) che "i vincoli alla libertà del sistema provocano modificazioni non solo quantitative, ma anche di prezzo del credito". Ma c'è da chiedersi a questo punto se, una volta assodata la responsabilità dello stato nell'aver costretto all'inefficienza l'apparato finanziario e stabilito che l'Italia non può oggi, concedersi il lusso di una politica monetaria più blanda, le banche possano andare assolte con formula piena dell'accusa ricorrente di fornire al Paese un credito scarso, costoso, e spesso poco specializzato. E' stato autorevolmente scritto che il rapporto banca-Stato-impresa è sempre stato in realtà un rapporto di reciproca strumentalizzazione, nel quale nessuna delle parti ha disdegnato il garantismo e il protezionismo che l'intreccio di questa alleanza triangolare offriva. Con il risultato evidente che la ricerca dell'efficienza necessaria per ottenere sempre i costi più bassi possibili di intermediazione finanziaria e passata colpevolmente in secondo piano. Spesso e volentieri la convergenza di interessi tra Stato e banca è andata persino nella direzione di ostacolare palesemente un processo che potesse introdurre all'interno del sistema finanziario un grado sia pur minimo di concorrenza. La rete di protezioni e di garanzie e servita così ad instaurare un gigantesco éncadrement du credit (i francesi la sanno lunga in. proposito), un meccanismo di imbrigliamento dei flussi finanziari di cui hanno beneficiato largamente l'amministrazione pubblica, ma anche molte imprese private, fin quando il costo per il Paese di tanta scarsa trasparenza non é apparso in tutta la sua insopportabile pesantezza. Cattive abitudini dure a morire, ma che non cadranno certo sotto i colpi di polemiche contrapposizioni di interessi. E d'altro canto, le resistenze interne che hanno impedito all'Associazione Bancaria Italiana di andare al di là della encomiabile ed importante decisione di rendere noto il "top rate" dimostrano che ancora oggi per molti banchieri (soprattutto quelli medio-piccoli, che incontrario difficoltà maggiori) il concetto di concorrenza è saldamente associato al timore di perdere spazi di mercato e, di conseguenza capacità operative. Ma gli imprenditori italiani possono impartire lezioni di concorrenza? Non va forse dimenticato che una larga fetta degli interessi attivi delle banche sono imputabili ad oltre seimila miliardi di crediti (il 4 per cento degli impieghi complessivi) che le imprese non potranno mai materialmente rimborsare e che, se avessimo vissuto in un regime di vera concorrenza industriale, non sarebbero probabilmente mai stati concessi, per il semplice fatto che quelle imprese decotte sarebbero fallite prima. Non basta l'intesa Tesoro-Bankitalia La Banca d'Italia
ha accettato di assorbire una parte dei Bot che il governo è
costretto ad emettere per finanziare lo spaventoso deficit dì
bilancio. Così, scrive Siro Lombardini, é finito il divorzio
tra Tesoro e Banca d'Italia. Un evento che al "Forum" dell'economia
di Saint Vincent dello scorso anno, aggiunge l'economista, era stato
previsto come inevitabile. "Ad un certo punto, continuando il divorzio,
l'incapacità del governo di controllare la spesa avrebbe reso
necessario l'aumento dei tassi a livelli tali da distruggere ogni possibilità
di crescita del settore industriale. Questa era la mia. convinzione:
se il divorzio ci sarà, esso sarà seguito dal concubinaggio
tra il Tesoro e la Banca d'Italia che si renderà necessario per
evitare il massacro del sistema produttivo. Ma allora se concubinaggio
ci ha da essere, lo preferisco che continui il rapporto, diciamo così,
normale di matrimonio" |
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