| Fino alla fine degli 
        Anni '60 erano un gruppo ristretto, che preferiva, con poche eccezioni, 
        restare segregato all'interno delle Università. Ogni economista 
        vestiva la casacca di qualche Scuola e incrociava la penna con i colleghi 
        in dotte dispute teoriche. Oggi, invece, gli economisti sono davvero tanti 
        (1.500 almeno, contando solo quelli che lavorano negli Atene!) e sono 
        dappertutto: nel Governo e in Parlamento, nei Consigli di Amministrazione 
        delle imprese e alla testa di grandi Banche, nelle società di consulenza 
        e al vertice dei giornali. Anche le casacche sono quasi tutte scolorite, 
        le divisioni in Scuole sono sempre fluide e incerte. Dieci o quindici 
        anni fa, chi avesse voluto tracciare una mappa degli economisti italiani 
        poteva contare su alcuni punti di riferimento certi. C'era innanzitutto 
        la Scuola Marginalista, che puntava sull'autosufficienza dei meccanismi 
        di mercato. Tra i nomi più noti, quello di Ugo Papi. C'era però, 
        già affermato, un altro gruppo di docenti, che aveva studiato a 
        fondo la lezione di John Maynard Keynes sul ruolo dello Stato nel sostenere 
        la domanda globale e che, sia pure con nette distinzioni interne, si collocava 
        più a sinistra. Era una generazione che aveva vinto la battaglia 
        della programmazione all'inizio degli Anni '60. Qualche nome tra i più 
        illustri: Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Sergio Steve e Federico 
        Caffé. E Ferdinando Di Fenizio, il primo a introdurre Keynes nella 
        cultura italiana e tra i primi a occuparsi di programmazione. C'era, poi, a fianco di questi maestri, un'altra generazione, di professori 
        più giovani, con una forte preparazione teorica maturata quasi 
        sempre in studi all'estero, attenti alle nuove tendenze del dibattito 
        dottrinale, ma anche più pronti a un impegno diretto nella politica. 
        Gli economisti più noti si chiamavano Siro Lombardini, Luigi Spaventa, 
        Beniamino Andreatta, Mario Arcelli. Fu proprio Spaventa, all'inizio degli 
        Anni '70, a portare un attacco a fondo alla cultura tradizionale. La sede 
        prescelta fu la Società degli Economisti, da sempre roccaforte 
        del pensiero economico più tradizionale. Utilizzando soprattutto 
        le teorie di Piero Sraffa, Spaventa sostenne che non esiste un equilibrio 
        ottimale nella distribuzione della remunerazione tra i fattori della produzione: 
        possono esistere varie situazioni, che premiano maggiormente il capitale 
        o il lavoro e che dipendono dallo stato del conflitto esistente tra queste 
        due forze. Era una grossa spallata al liberismo con pericolose conseguenze 
        pratiche (e qualcuno fa discendere da questi discorsi la teorizzazione 
        del salario come variabile indipendente nel sistema economico) e a Spaventa 
        rispose con veemenza Veniero Del Punta, professore a Roma e caporedattore 
        della rivista teorica della Confindustria. Ma lo scandalo tra gli addetti 
        ai lavori fu grande e tutti si aspettavano un dibattito lungo e appassionato. 
        Invece, negli anni successivi, non accadde nulla.
 Quel che resta 
          delle ScuoleIn realtà, sia che lo facciano con lo spirito un pò avventuroso 
          e pasticcione del bricoleur, sia che lo facciano con rigore e attenzione 
          ai problemi teorici e con lo sforzo di trovare soluzioni nuove, tutti 
          gli economisti oggi chiamati a svolgere compiti pratici appartengono 
          più o meno a un'unica Scuola, cioé al grande filone keynesiano, 
          che ha avuto un tenace assertore nella scuola di Bologna guidata da 
          Andreatta. Trasferire in Italia le teorie keynesiane si è rivelato 
          difficile, perché lo strumento fiscale, che Keynes privilegia, 
          da noi é poco efficiente.
 Ai margini della grande corrente keynesiana, c'é oggi il gruppo 
          più teorico e astratto dei neoricardiani in senso stretto, che 
          hanno in Pierangelo Garegnani di Roma il loro esponente più significativo. 
          Sono il gruppo rimasto più vicino alle teorie di Sraffa e sono 
          un punto di riferimento per tutti gli altri Keynesiani che si occupano 
          di teoria, anche se con frequenti polemiche. Sono infatti accusati di 
          aver tentato una sintesi mostruosa tra autori profondamente diversi, 
          da Ricardo a Marx, da Sraffa a Keynes, ricavandone una teoria economica 
          parziale e sostanzialmente poco utile per capire la realtà.
 Meno astratto è invece il secondo filone che si richiama a Sraffa 
          e alla Scuola di Cambridge e che ha in Lunghini (Pavia) e in Gianni 
          Nardozzi (Firenze) due degli economisti più noti. Rifiutandosi 
          di interpretare la teoria economica attraverso il filtro di un solo 
          gruppo di autori, gli economisti di questa tendenza cercano di abituare 
          gli allievi a considerare l'analisi economica come uno strumento profondamente 
          influenzato dai tempi in cui fu formulato. Tipica di questo gruppo è 
          anche la grande attenzione verso gli aspetti istituzionali dei problemi 
          economicì: un contesto cui è molto attento anche Michele 
          Salvati, dell'Università di Modena. L'esperienza di Modena è 
          indicativa della crisi vissuta dalle Scuole economiche in Italia. Nell'Università 
          della città emiliana, all'inizio degli Anni '70, si riunì 
          un gruppo di economisti di sinistra - marxisti, sraffiani, keynesiani 
          puri -che intendeva dar vita a un'Università con una forte caratterizzazione 
          ideologica. Oltre a Salvati, c'erano Ferdinando Vianello, Marco Lippi, 
          Massimo Pivetti. Ma in pochi anni il tentativo fallì, perché 
          i dissensi all'interno del gruppo superavano gli elementi di coesione. 
          E ora Salvati si occupa sempre meno di teoria economica e sempre più 
          di problemi concreti, a metà strada tra l'economia e l'analisi 
          delle istituzioni.
 Al di fuori della galassia keynesiana, ci sono gli unici gruppi ai quali 
          è possibile dare un'etichetta politica definita: a sinistra i 
          marxisti puri, il cui esponente più importante è Mario 
          Nuti, e a destra i neomarginalisti, decisi a rivendicare uno spazio 
          crescente nel pensiero economico. Gli esponenti più noti sono 
          Sergio Ricossa e Domenico Tosato (Torino).
 Accanto a questi filoni, che rappresentano al momento le tendenze più 
          significative e stabili del pensiero economico, si intrecciano mode, 
          atteggiamenti, idee nuove che complicano ulteriormente il quadro. C'è, 
          per esempio, il gruppo dei monetaristi: nella politica economica italiana, 
          l'uso dello strumento monetario prevale su qualunque altro, ma nessun 
          economista che si occupi di questi problemi - né Mario Monti 
          (Bocconi), né Andreatta - è disposto a definirsi seguace 
          della Scuola di Milton Friedman, che vuole controllare la politica economica 
          esclusivamente (o quasi) attraverso il governo della quantità 
          di moneta immessa nel sistema. C'è la nuova moda della teoria 
          dell'offerta, che mira soprattutto a operare attraverso la leva fiscale 
          per elevare i livelli dell'attività produttiva (ma nessuno in 
          Italia lo propone). C'è il keynesismo rivisto a cui si ispirano 
          gli economisti socialisti, a cominciare dal loro uomo-guida, Francesco 
          Forte, che pur mantenendo fermi i capisaldi della politica economica 
          keynesiana, sottopone a rimeditazione lo Stato assistenziale per snellirne 
          e decentrarne le strutture. Ci sono le nuove teorie economiche che razionalizzano 
          anche le aspettative degli operatori e la loro influenza sui livelli 
          dei prezzi e dell'attività produttiva. Ci sono infine fiammate 
          di neoprotezionismo del ristretto gruppo di economisti (Massimo Pivetti, 
          Paolo Leon e altri), i quali ritengono che una politica di difesa delle 
          produzioni interne potrebbe consentire di elevare il livello dell'attività 
          economica e migliorare la distribuzione del reddito.
 Il boom dell'economia 
          applicataMa gran parte degli economisti, oggi, parla d'altro. Alberto Quadrio 
          Curcio (Cattolica) afferma che il 70 per cento delle ricerche che ottengono 
          un finanziamento dal Consiglio Nazionale delle Ricerche riguarda l'economia 
          applicata, anche se sempre con un risvolto teorico. Il rischio è 
          che si tratti di ricerche troppo parcellizzate, su temi troppo specifici, 
          e da cui è difficile ricavare indicazioni utili anche per far 
          progredire ulteriori ricerche. Ma la qualità della ricerca è 
          nettamente migliorata (su questo il consenso è generale) e gli 
          economisti, anche quelli che provengono da Giurisprudenza o da Scienze 
          Politiche, si sono impossessati ormai delle tecniche quantitative, con 
          largo uso della matematica. E' anche passata la fase dei grandi econometrici: 
          l'unico che funziona è quello Link di Prometeia, a Bologna, mentre 
          anche la Banca d'Italia fa uso assai limitato del suo. Si diffondono 
          invece altre ricerche econometriche, basate sulle matrici delle interdipendenze 
          settoriali, (in questo momento almeno tre Università, e cioé 
          Pavia, Venezia e Bologna, lavorano sui sistemi input-output).
 Clima e rapporti 
          internazionaliNel complesso, la cultura economica nelle Università italiane 
          è fortemente cresciuta negli ultimi anni: su questo giudizio 
          il consenso dei docenti è pressoché unanime. I rapporti 
          tra le sedi universitarie sono intensi. E' in programma una grande ricerca, 
          con la partecipazione di professori' di quattordici Atenei, sullo sviluppo 
          dell'economia italiana, nei suoi aspetti reali: si tratta di un progetto 
          speciale del CNR. Ma già adesso si infittiscono le iniziative 
          di coordinamento della ricerca, attraverso comitati di docenti. E alcune 
          grandi Università si sono anche collegate per consentire un unico 
          "dottorato di ricerca". Si sono anche moltiplicati i rapporti 
          con l'estero e molti giovani si trasferiscono in Università straniere 
          per un periodo fino a tre anni: non più solo alle due Cambridge 
          o alla London School of Economics, ma ovunque ci sia un docente o una 
          Scuola che li interessi. I titoli con cui arrivano sono apprezzati, 
          e molti di loro ottengono presto il privilegio di pubblicare articoli 
          su riviste di prestigio.
 Insomma, è quasi un'età aurea per gli economisti. Ma con 
          un neo: che le strutture in grado di assorbire economisti sono ormai 
          in difficoltà. Smantellate le strutture della programmazione 
          nazionale, in fase di ridimensionamento molti centri-studi economici 
          aziendali, ormai al limite le strutture accademiche, i nuovi economisti 
          vanno spesso a lavorare in organizzazioni collaterali (centri-studi 
          regionali o sindacali), che per la loro impostazione strettamente legata 
          all'attualità non consentono di fare vera ricerca. Dice Romano 
          Prodi (Bologna): "I centri di studio e di ricerca dell'economia 
          possono anche essere esterni all'Università, come accade con 
          l'istituto Brooking di Washington. Ma allora deve trattarsi di strutture 
          durature, che garantiscano al ricercatore una situazione stabile". 
          Ma di questo tipo di struttura, finora, in Italia, c'è ben poco: 
          forse solo Nomisma, il centro di ricerca sull'economia reale promosso 
          dalla Banca Nazionale del Lavoro diretta proprio da Prodi.
 Economia italiana 
          dall'agricoltura al terziarioL'economia italiana dell'immediato dopoguerra era più agricola 
          o terziaria che industriale. Ancora nel 1951, infatti la percentuale 
          degli occupati del settore agricolo era del 44 per cento, contro il 
          29 per cento dell'industria e il 27 per cento del terziario. Il basso 
          grado di industrializzazione si accompagnava a un livello di sviluppo 
          economico modesto. Stime del reddito pro capite reale, aggiustate per 
          tenere conto del diverso potere d'acquisto delle monete, mostrano che 
          il nostro Paese raggiungeva nel 1950 un livello di reddito pro capite 
          pari a circa un quarto di quello degli Stati Uniti, a meno di un quarto 
          di quello del Regno Unito, al 54 per cento di quello francese e al 68 
          per cento di quello tedesco-federale.
 L'arretratezza economica relativa dell'Italia ha però, per alcuni 
          aspetti, facilitato la crescita economica negli Anni '50 e '60, permettendo 
          un certo recupero rispetto ai Paesi più ricchi. Sistemi economici 
          a livello intermedio di sviluppo, come erano l'Italia e il Giappone 
          in quegli anni, hanno potuto raggiungere rilevanti tassi di crescita 
          del prodotto nazionale, spostando forza-lavoro da un settore a produttività 
          bassa, come l'agricoltura, a settori a produttività più 
          alta, come l'industria, elevando così i livelli medi di produttività 
          e di prodotto dell'intero sistema.
 L'Italia nell'immediato dopoguerra aveva inoltre alcune peculiarità: 
          una elevatissima disoccupazione (più del 10 per cento della forza-lavoro), 
          un forte dualismo (tra Nord e Sud, tra salari e produttività, 
          tra le medie e grandi imprese e quelle piccole e a carattere artiginale), 
          un divario assai consistente tra i redditi degli impiegati e dei dirigenti 
          rispetto ai lavoratori manuali e una distribuzione territoriale del 
          reddito fortemente diseguale.
 Le fasi dello 
          sviluppo economicoIl periodo della ricostruzione (1946-1950) - Gli anni dello sviluppo 
          (1951-1963) - Il periodo della ristrutturazione e del decentramento 
          produttivo (1963-1973) - La fase successiva alla crisi energetica (dal 
          1973 ai nostri giorni).
 Le due prime fasi sono state contrassegnate da una crescita del prodotto 
          nazionale e della produzione industriale molto elevata, dovuta al recupero 
          del potenziale produttivo prebellico, accompagnato dalla riconversione 
          della produzione per usi civili e a un intenso processo di rinnovamento 
          e ammodernamento degli impianti e dei macchinari.
 Nella seconda fase, l'economia italiana ha continuato a svilupparsi 
          a un ritmo assai rapido, e comunque maggiore della media dei Paesi industrializzati. 
          Il prodotto interno lordo italiano è infatti cresciuto, tra il 
          1951 e il 1963, a un tasso di incremento medio annuo del 5,4 per cento, 
          e anche gli investimenti, la produttività e le esportazioni sono 
          aumentati assai velocemente. L'occupazione totale, invece, in ascesa 
          fino al 1958, ha iniziato a ristagnare anche negli anni del boom economico, 
          poiché la crescita occupazionale nell'industria e nel terziario 
          riusciva a malapena a far fronte alla rapidissima riduzione dell'occupazione 
          agricola. Anche di qui, le forti correnti migratorie, dapprima verso 
          le aree del "triangolo", poi verso quelle dell'Europa comunitaria.
 La terza fase (1963-1973) è stata caratterizzata da una crescita 
          assai difficile e contrastata e quindi da un netto rallentamento del 
          tasso di incremento del prodotto e dell'accumulazione, da una più 
          forte e diffusa conflittualità sindacale (1969-1973) e, negli 
          Anni '70, da maggiori tensioni inflazionistiche e nei conti con l'estero.
 Il peggioramento tendenziale si è aggravato dal 1973 al 1980: 
          si è infatti quasi dimezzato, rispetto al periodo precedente, 
          il tasso di crescita del PIL (prodotto interno lordo), ma si è 
          anche bloccato il processo di accumulazione. Se inoltre, nel periodo 
          1963-73, il tassi di incremento del prodotto e della produttività 
          era stato ancora un poco superiore a quello medio degli altri Paesi 
          dell'Ocse, successivamente non è stato più così. 
          Mentre nella seconda e nella terza fase le esportazioni erano cresciute 
          assai più rapidamente che nella media degli altri Paesi industrializzati, 
          consentendo di aumentare, almeno fino al 1967, la quota italiana sul 
          mercato mondiale dei manufatti, ciò non è stato più 
          vero nella quarta fase. In quest'ultimo periodo, infatti, è aumentato 
          il tasso sia di disoccupazione sia d'inflazione. I prezzi, che fino 
          al 1972 erano saliti più o meno come nel complesso degli altri 
          Paesi industrializzati, hanno iniziato a salire assai più rapidamente 
          che all'estero, risentendo anche delle conseguenze della svalutazione 
          della divisa italiana.
 La fase della 
          ricostruzioneLa divisione del mondo in blocchi e l'inserimento dell'Italia in quello 
          occidentale, vale a dire nella sfera di influenza americana, hanno condizionato 
          fortemente le vicende politiche ed economiche successive.
 Dall'essere uno dei Paesi più chiusi agli scambi con l'estero, 
          l'Italia passerà in trent'anni a un grado di apertura assai elevato, 
          con un'impetuosa crescita delle esportazioni e delle importazioni, con 
          un interscambio indirizzato in misura maggiore verso gli altri Paesi 
          della sfera occidentale e in particolare verso quelli che entreranno 
          a far parte della Comunità Economica Europea.
 Nella seconda metà degli Anni '40 si sono inoltre verificati 
          eventi interni densi di significati e di conseguenze. L'indebolimento 
          registrato dalla sinistra, sia a livello politico sia a livello sindacale, 
          la scissione socialista e l'espulsione delle sinistre del governo, il 
          successo del partito democristiano nelle elezioni del 1948 e la divisione 
          del sindacato in tre tronconi: sono esempi importanti delle crescenti 
          difficoltà incontrate dal movimento operaio. Dal punto di vista 
          economico, gli oltre due milioni di disoccupati e la persistenza di 
          ampie fasce di sottoccupati nelle zone rurali hanno contribuito ad accentuare 
          la tendenza dall'indebolimento dei sindacati. Il quadro politico muterà 
          in modo rilevante solo verso la fine degli Anni '50 e condizionerà 
          fortemente la politica economica di fondo di quegli anni. Tale politica 
          sarà fondamentalmente liberista, ma corretta dall'intervento 
          pubblico in certi settori e zone dell'economia, realizzato soprattutto 
          attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, istituita appunto nel 1950, 
          e attraverso le imprese a partecipazione statale.
 Gli anni dello 
          sviluppoGli anni che vanno dal 1951 al 1963 sono stati anni di sviluppo rapido 
          e relativamente stabile (si sono registrate modeste recessioni nel 1954 
          e nel 1958). Alla fine del 1963 si è aperta la crisi economica 
          che ha interrotto questa fase. Sintomi delle difficoltà esplose 
          poi nel 1963-64 si erano però già manifestati negli anni 
          del boom economico, per cui è forse più corretto parlare 
          di due sottoperiodi distinti: dal 1951 al 1958, e dal 1959 al 1963. 
          Nel primo, come nel secondo sottoperiodo, sono cresciute rapidamente 
          le esportazioni, il PIL, la produttività e gli investimenti. 
          La dinamica dell'occupazione, della forza-lavoro e dei salari è 
          stata invece nettamente difforme nei due sottoperiodi. Mentre nel primo 
          l'occupazione e la forza-lavoro aumentavano e i salari crescevano più 
          o meno in linea con la crescita della produttività, nel secondo 
          sottoperiodo si ebbero un arresto dell'occupazione totale, un calo della 
          forza-lavoro e del tasso di attività e un incremento dei salari 
          superiore all'incremento della produttività.
 La riduzione della disoccupazione, i mutamenti sociopolitici generali 
          (passaggio al centro-sinistra) e quelli interni al sindacato contribuivano 
          intanto ad aumentare la forza contrattuale dei sindacati. Il loro rafforzamento, 
          che si espresse nel periodo 1960-'63 in una maggiore conflittualità 
          nelle fabbriche, la carenza di certi tipi di forza-lavoro qualificata 
          in alcune aree del Nord industrializzato (mentre rimanevano rilevanti 
          riserve di forza-lavoro in eccesso nelle regioni meridionali) e l'aumento 
          del costo della vita contribuirono a spingere rapidamente in alto i 
          salari monetari. Le fughe di capitali e il forte aumento della domanda 
          interna, e quindi delle importazioni, conducevano intanto a un netto 
          peggioramento della bilancia dei pagamenti.
 Il deficit dei conti con l'estero e l'inflazione, giudicata per quei 
          tempi troppo elevata (era giunta all'8 per cento), indussero la Banca 
          d'Italia a mettere in atto nel secondo semestre del 1963 una stretta 
          creditizia assai severa, che fece cadere gli investimenti, il livello 
          d'attività e l'occupazione, aprendo così la strada alla 
          crisi del 1964-'65.
 Gli anni della 
          ristrutturazione e del decentramento produttivoCon la crisi del 1963-'64 si è aperta una nuova fase contrassegnata 
          da una profonda trasformazione del sistema produttivo. Un primo periodo 
          che va dal 1964 al 1968, ha visto soprattutto fenomeni di ristrutturazione, 
          riconversione e razionalizzazione produttiva all'interno delle fabbriche, 
          insieme con processi importanti di concentrazione economica e finanziaria. 
          Ciò ha permesso - una volta superato, all'inizio del 1965, il 
          fondo della crisi - di realizzare elevatissimi incrementi di produttività, 
          ma a costo dell'intensificarsi dei ritmi di lavoro e dell'espulsione 
          di 869 mila unità lavorative dal 1963 al 1966, seguita, nel triennio 
          successivo, da una quasi completa stagnazione dei livelli occupazionali. 
          In questo periodo, grazie all'indebolimento sindacale legato alla crescita 
          della disoccupazione, sono state le direzioni delle imprese a condurre 
          il gioco.
 Intanto, il processo verso l'unità sindacale si rafforzava. Aumentavano 
          nella base operaia il malcontento per i maggiori ritmi lavorativi e 
          la protesta sociale verso le promesse governative non mantenute del 
          programma economico nazionale 1966-'70. Nonostante, infatti, che il 
          ritmo reale di crescita del PIL fosse maggiore di quello previsto dal 
          piano, gli obiettivi aventi maggior contenuto sociale del piano stesso 
          (forte aumento dell'occupazione, drastica riduzione del divario Nord-Sud, 
          consistente aumento nella dotazione dei servizi sociali, numerose riforme 
          di struttura, e via dicendo) non venivano nel frattempo quasi per nulla 
          realizzati.
 Il forte aumento della conflittualità del periodo 1969-'73 (ascesa 
          della forza contrattuale dei sindacati, introduzione nelle imprese dei 
          Consigli di Fabbrica, ecc.) ha condotto a una crescita salariale nettamente 
          superiore alla crescita della produttività, a una maggiore rigidità 
          nell'utilizzo della forza-lavoro e in definitiva a una riduzione dei 
          margini di profitto. La risposta imprenditoriale all'aumento della conflittualità 
          è stata però vigorosa. Essa é passata soprattutto 
          attraverso il parziale trasferimento sui prezzi dell'aumento dei costi 
          e il largo e crescente ricorso al decentramento produttivo e all'aiuto 
          statale, mentre la difesa sindacale dei livelli occupazionali ha impedito 
          alla stretta creditizia della primavera del 1970 di trasformarsi in 
          un forte aumento della disoccupazione.
 Il decentramento produttivo, con l'aumento dell'uso del lavoro a domicilio 
          e di estese forme di lavoro nero, costituisce probabilmente la caratteristica 
          fondamentale di questo periodo. Si è fatto ricorso al lavoro 
          decentrato per diminuire il costo del lavoro (sia per i minori salari, 
          sia per la frequente evasione dei contributi sociali) e per acquisire 
          una maggiore flessibilità nell'uso della forza-lavoro, data la 
          crescente rigidità che le lotte operaie, la presenza di un forte 
          sindacato in fabbrica e l'introduzione dello Statuto dei Lavoratori 
          avevano prodotto nelle grandi e nelle medie imprese.
 La fase post-crisi 
          energeticaGli eventi esterni stavano nel frattempo scuotendo le economie occidentali. 
          Dal 1969 al 1973 si era rivelato in Italia sempre più difficile 
          mantenere sotto controllo i due vincoli della bilancia dei pagamenti 
          e dei prezzi, e ciò in parte per eventi di origine interna (aumenti 
          salariali, calo del tasso di crescita della produttività, aumento 
          dei tassi d'interesse, crescita delle fughe di capitali) e molto a causa 
          degli eventi esterni (crescita del costo delle materie prime, crisi 
          monetaria internazionale, eccetera). Va inoltre tenuto presente che 
          gli impulsi di origine esterna si producevano su un'economia di gran 
          lunga aperta agli scambi con l'estero, e quindi più esposta agli 
          effetti di trasmissione.
 Il grado di apertura dell'economia italiana, misurato dall'interscambio 
          (importazioni + esportazioni) in percentuale sul PIL, era infatti salito 
          dal 14 per cento del 1961 a oltre il 20 per cento del 1973 nè 
          la crescita sembrava essere in via di esaurimento. La necessità 
          di rispettare i due vincoli, e fra questi, soprattutto, il vincolo dei 
          conti con l'estero, aveva indotto le autorità di politica economica 
          a una politica sussultoria, con brevi fasi espansionistiche seguite 
          da bruschi colpi di freno.
 La stretta operata all'inizio del 1970 era stata seguita da una politica 
          più espansiva nel 1971-'72; ma il deterioramento dei conti con 
          l'estero, favorito anche dall'aumento delle fughe di capitali, e il 
          tentativo di ridare lato alle imprese consentendo loro di trasferire 
          più agevolmente l'incremento dei costi sui prezzi, indussero 
          la Banca d'Italia a passare nel febbraio 1973 alla fluttuazione della 
          lira, vale a dire alla svalutazione nei confronti delle altre principali 
          monete. Malauguratamente, ciò avvenne proprio in un periodo di 
          rapido aumento dei prezzi delle materie prime, che culminò nella 
          crisi energetica dell'autunno 1973. Il quadruplicamento dei prezzo del 
          petrolio, avutosi fra l'autunno 1973 e l'inizio '74, associato alla 
          svalutazione della lira, iniettò un formidabile impulso inflazionistico 
          nell'economia e condusse a un forte aumento del deficit dei conti con 
          l'estero. Continuò di conseguenza la politica di "stop and 
          go". Le drastiche misure restrittive dell'ultimo trimestre del 
          1973 e dell'inizio del 1974 precipitarono l'economia nella crisi del 
          1974-'75, la peggiore del dopoguerra.
 La ripresa successiva, agevolata dalla politica più espansiva 
          del 1975, fu tarpata dalla crisi valutaria del marzo 1976. Il deficit 
          estero e la caduta della lira indussero le autorità di politica 
          economica a un'altra severa stretta creditizia e fiscale, che portò 
          alla debole congiuntura del biennio successivo. La ripresa del 1979-'80 
          è stata infine interrotta dalla politica più restrittiva 
          condotta nella seconda metà del 1980 e soprattutto dal colpo 
          di freno monetario del 1981.
 Questo andamento sussultorio della politica e dell'economia si è 
          quindi tradotto in un rallentamento del trend di sviluppo e in un ritorno 
          alla disoccupazione di massa.
 I nuovi problemi 
          della politica economicaLa via d'uscita da una situazione di questo genere non può essere 
          solamente trovata nella manipolazione degli usuali strumenti macroeconomici 
          della politica economica a breve, né questo deve sorprendere. 
          I problemi da affrontare sono ora infatti, per molti versi, più 
          complessi di quanto lo fossero negli Anni '50 e '60, in particolare 
          quelli connessi all'inflazione e alla bilancia dei pagamenti. La riduzione 
          della crescita dei prezzi e, soprattutto, il riequilibrio dei conti 
          con l'estero non sono più, se mai lo sono stati, un semplice 
          vincolo della politica economica, ma divengono gli obiettivi primari 
          della politica a breve, a cui tutti gli altri obiettivi, incluso quello 
          della piena occupazione, sono stati in realtà pesantemente subordinati. 
          Da qui nasce l'esigenza di una politica di medio-lungo periodo che rimuova, 
          o almeno riduca drasticamente, l'importanza del vincolo estero e attenui 
          l'inflazione.
 Come risolvere quindi questi due problemi non trascurando allo stesso 
          tempo le questioni dell'occupazione e del Mezzogiorno, resi ancor più 
          drammatici dalla crisi economica e dalle conseguenze del terremoto? 
          Non vi è, ovviamente, una ricetta unitaria e miracolosa, ma si 
          può tentare di seguire diverse vie, fra loro collegate, alcune 
          delle quali parzialmente previste, ma finora per nulla realizzate, nel 
          piano a medio termine 1981-'83 (ora divenuto piano 1982-'84).
 La prima via consiste nel tentare di aggredire i punti di maggiore debolezza 
          strutturale dei conti con l'estero, vale a dire l'energia, i prodotti 
          forestali e agricolo-alimentari, la chimica. La seconda via consiste 
          nel concentrare soprattutto nelle regioni meridionali molte di queste 
          attività produttive e soprattutto nello sviluppare le potenzialità 
          agricole e turistiche del Sud, dando un contributo importante alla bilancia 
          agricoloalimentare e all'afflusso di valuta estera.
 Una terza via potrebbe far leva sullo sviluppo dell'industria. I programmi 
          di industrializzazione dovrebbero peraltro rivolgersi in modo particolare 
          a quei comparti in cui la dinamica del valore aggiunto è maggiore, 
          ma in cui il rapporto capitalellavoro non è eccessivo. Ma una 
          politica di questo tipo presuppone un drammatico impulso pubblico e 
          privato alle spese per la ricerca e lo sviluppo, senza il quale sarebbe 
          impossibile penetrare con successo in settori come l'elettronica e la 
          chimica fine.
 Resta il fatto che, in un'ottica di medio-lungo periodo, sia la riduzione 
          del vincolo estero sia la compressione dell'inflazione richiedono in 
          ogni caso un vasto e articolato intervento pubblico. Il costo dell'intervento 
          per ridurre il vincolo estero e l'inflazione, sommato al costo dell'intervento 
          per il Mezzogiorno, sarebbe inoltre proibitivo per le risorse nazionali, 
          per cui deriva la necessità di un'ampia intersezione fra i due 
          tipi di intervento. E' assai probabile, comunque, che, tanto sul versante 
          economico quanto su quello politico, solo riformando lo Stato e vincendo 
          la scommessa per il Mezzogiorno sia possibile vincere la scommessa Italia. 
          I nuovi economisti, dunque, hanno materia a sufficienza per lavorare 
          e per confrontarsi.
 Le analisi degli 
          economistiL'interpretazione forse più famosa, ma assai controversa, sugli 
          Anni '50, fu quella avanzata da Vera Lutz, che fondò la sua analisi 
          sul "dualismo economico italiano", ipotizzando che un ridotto 
          aumento salariale nel settore delle grandi e medie imprese può 
          favorire l'accumulazione del capitale e l'occupazione, mentre il contrario 
          accade se l'eccessiva forza contrattuale dei sindacati tiene alti i 
          salari di questo settore dell'economia. Questa interpretazione venne 
          correttamente criticata dai vari autori italiani (come Luigi Spaventa), 
          che mostrarono i limiti dell'approccio di tipo statico fondato su una 
          funzione di produzione di breve periodo, usata nei contributi della 
          Lutz.
 Per gli anni dello sviluppo (1951-'63), le interpretazioni più 
          note sono probabilmente quella di Antonio Graziani e quella di Kindleberger. 
          Per Graziani, in quegli anni avrebbe operato in Italia un modello di 
          sviluppo legato alle esportazioni. L'aumento degli scambi con l'estero 
          avrebbe indotto una rapida crescita del PIL e della produttività, 
          favorendo la concorrenzialità delle industrie nazionali. Questo 
          tipo di sviluppo avrebbe però acuito le contraddizioni di fondo 
          dell'economia italiana (dualismo Nord-Sud, dualismo tra settori dinamici 
          e stagnanti dell'industria, migrazioni e loro costo sociale ed economico, 
          congestione urbana, ecc.). Secondo Kindleberger al sistema italiano 
          potrebbe applicarsi abbastanza bene per quegli anni il modello di sviluppo 
          di Lewis, basato sull'offerta illimitata di forza-lavoro proveniente 
          dall'agricoltura e impiegata nell'industria e nel terziario moderno. 
          Numerosi autori, fra i quali Mariano D'Antonio, ne hanno criticato i 
          presupposti teorici ed empirici. La Banca d'Italia e Paolo Sylos Labini 
          hanno invece soprattutto guardato al rapporto tra i margini di profitto, 
          l'accumulazione e lo sviluppo economico. Per gli Anni '60 e '70, molti 
          contributi hanno infine messo l'accento, con angolature diverse, sul 
          conflitto tra capitale e lavoro (Antonio Graziani, 1975; Michele Salvati, 
          1975; Giorgio Fuà, 1976), nonché sulle relazioni di tali 
          conflitti con i mutamenti nel grado di apertura e nel mercato del lavoro 
          (Vittorio Valli, 1979). In un recente contributo, Fuà ha assimilato 
          l'Italia ad altri Paesi di più recente industrializzazione (come 
          Spagna, Grecia, ecc.), mostrando le difficoltà che hanno questi 
          Paesi a sviluppo tardivo ad avvicinarsi ai Paesi di più antica 
          industrializzazione.
 Sedici teorie 
          dello sviluppoI testi a carattere generale sull'evoluzione economica italiana del 
          dopoguerra sono molto numerosi. A titolo esemplificativo, si ricordano 
          i seguenti contributi fondamentali:
 Alle K. Stevenson A., Introduzione all'economia italiana, Il Mulino, 
          Bologna, 1976.
 Bagnasco A., Tre Italie: la problematica territoriale dello sviluppo 
          italiano, Il Mulino, Bologna, 1977.
 Ciocca P., Filosa R., Rey G.M., Introduzione e sviluppo dell'economia 
          italiana nell'ultimo ventennio: un riesame critico, in Banca d'Italia 
          "Contributo alla ricerca economica n. 3", Roma, 1973.
 D'Antonio M., Sviluppo e crisi del capitalismo italiano: 1945-1972, 
          De Donato, Bari, 1973.
 Fuà G. (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, F. Angeli, 
          Milano, 1969, vol. II e III; seconda ediz. 1974, vol. I, 1981.
 Fuà G., Occupazione e capacità produttive: la realtà 
          italiana, Il Mulino, Bologna, 1976.
 Fuà G., Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Il Mulino, 
          Bologna, 1980.
 Graziani A. (a cura di), L'economia italiana dal 1945 ad oggi, Il Mulino, 
          Bologna, prima ediz. 1972, seconda ediz. 1979.
 Kindleberger C.P., Lo sviluppo economico europeo ed il mercato del lavoro, 
          Etas Libri, Milano, 1967.
 Lutz V., Italy: A Study in Economic Development, Oxford University Press, 
          London, 1962.
 Marzano F., Un'integrazione del processo di sviluppo economico dualistico 
          in Italia, Giuffré, Milano, 1969.
 Podbielski G., Storia dell'economia italiana: 1945-1974, Laterza, Bari, 
          1975.
 Salvati M. Il sistema economico italiano. Analisi di una crisi, Il Mulino, 
          Bologna, 1975.
 Spaventa L., Dualism in Economic Growth, in "Banca Nazionale del 
          Lavoro Quarterly Review", dicembre 1979.
 Sylos Labini P., Aspetti dello sviluppo economico italiano, in "Problemi 
          dello sviluppo economico", Laterza, Bari, 1970, pp. 105-178.
 Valli V., L'economia e la politica economica italiana: 1945-1979, nuova 
          edizione, Etas Libri, Milano, 1980.
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