| Può sembrare 
        strano che proprio nel momento in cui si avverte una caduta di vigore 
        dell'attenzione culturale verso il problema del Mezzogiorno si afferma 
        al tempo stesso l'esigenza di un più marcato impegno politico in 
        questa direzione. E' infatti evidente che, se si vuole sottrarre l'intervento 
        nel Sud ai disagi ed alle inefficienze della burocratizzazione costruita 
        con l'apparato istituzionale finora utilizzato, occorre dare nuovo respiro 
        all'azione politica. Di fronte ad una struttura economica e sociale che 
        si va modificando c'è una struttura di potere che non corrisponde 
        alla dinamica in atto e che trova spesso nel controllo degli organismi 
        di intervento meridionali la sola ragione di esistere. Nel tentativo di superare questa prospettiva paralizzante sono state avanzate 
        in sede legislativa alcune proposte profondamente innovative del sistema 
        in atto, che ruota attorno all'attività della Cassa per il Mezzogiorno 
        e dei suoi organismi settoriali (Iasm, Formez, ecc.). Si è avvertita 
        in sostanza la necessità che, di fronte ad una realtà economica 
        resa fluida da una serie di avvenimenti tumultuosi (crisi dell'industria 
        e dell'occupazione, problemi di mobilità extraziendale, nuovo impegno 
        regionale nella qualificazione dello sviluppo e nella localizzazione industriale, 
        ecc.), non vi è grande interesse ad operare scelte strategiche, 
        che verrebbero limitate nella loro efficacia attuativa dall'attuale configurazione 
        della politica di intervento.
 Ancora una volta ci si trova di fronte alla ricerca di una effettiva "saldatura" 
        tra la questione meridionale come problema politico e sociale e le linee 
        operative di un intervento pubblico, che ha la pretesa di ridurre gli 
        squilibri impliciti nella dinamica dello sviluppo italiano.
 A noi è parso utile, nella prospettiva di un dibattito parlamentare 
        che auspichiamo seriamente impegnato, rivisitare i termini del problema 
        negli anni 1945 - 1950 e seguenti cogliendo i momenti in cui la "questione 
        meridionale" ha avuto più forte valenza politica nell'esercizio 
        dell'attività legislativa.
 La svolta degli 
          Anni '50: Cassa per il Mezzogiorno e Riforma AgrariaL'istituzione della Cassa ed i provvedimenti della Riforma Agraria adottati 
          nel 1950 (questo pacchetto di provvedimenti va letto unitariamente perchè 
          identico era l'obiettivo perseguito) costituiscono in termini operativi 
          la conseguenza logica dell'evoluzione registrata dal dibattito sulla 
          "questione meridionale" nel dopoguerra: elemento di rottura 
          su cui impostare il rinnovamento dello Stato e delle sue strutture per 
          alcuni (Napolitano, Amendola, Alicata, Ceriani Sebregondi); elemento 
          di conservazione per gli altri, nel senso che i benefici derivanti dall'intervento 
          non dovevano tradursi in riforme istituzionali (De Martino, Corbino, 
          Campilli, Jervolino). In fondo erano gli stessi argomenti che su base 
          più ampia animavano il dibattito economico dell'immediato dopoguerra 
          con riferimento all'utilità o meno della programmazione nazionale. 
          Quest'ultima ipotesi fu ben presto accantonata e contemporaneamente, 
          dall'idea di un rinnovamento della situazione meridionale e delle sue 
          strutture economiche e politiche, si approdò ad un intervento 
          "riduttivo", rivolto ad attivare il mercato potenziale del 
          Sud per favorire la ripresa dell'economia italiana. Le scelte che determinarono 
          gli interventi furono effettuate tenendo conto di valutazioni parziali 
          ed approssimate, senza approfondire in alcun modo gli effetti economici 
          complessivi di medio e lungo periodo.
 Così, dalla constatazione che essendo ancora l'Italia del '50 
          un Paese ad economia prevalentemente agricola, pareva non sussistessero 
          i presupposti per uno sviluppo spaziale delle attività industriali. 
          I problemi di più urgente soluzione (disoccupazione, potenziamento 
          delle attività agricole e creazione di una domanda addizionale 
          di prodotti industriali) furono impostati senza valutare le proiezioni 
          economiche di lungo periodo e le interrelazioni tra le diverse variabili 
          ed affidati alla definizione di due fondamentali interventi: la Cassa 
          per il Mezzogiorno e la Riforma Agraria. Si preferì dunque l'adozione 
          di strumenti che dovevano avviare a soluzione solo le maggiori questioni 
          del momento, facendo in questo modo prevalere le tesi che in sede politica 
          e governativa erano portate avanti dai gruppi più cauti e "conservatori", 
          ispirate da un desiderio di sostanziale continuità con i termini 
          della "questione" utilizzati nel passato.
 L'approccio al problema meridionale diventò "globale" 
          soltanto nel senso che si ritenevano la Cassa e la Riforma Agraria strumenti 
          utili per colmare le carenze macroscopiche del sistema. Ma non era certo 
          "globale" nel senso di ricercare risposte corrispondenti ad 
          un approfondimento generale delle prospettive dell'economia italiana, 
          e degli effetti dell'intervento straordinario in questa direzione.
 I limiti indicati furono subito colti dai gruppi meridionalisti più 
          attenti. Uno studio Svimez del 1950, analizzando gli investimenti previsti 
          nel primo biennio di attività della Cassa, concludeva che "la 
          spesa addizionale avrebbe generato di per se stessa un trasferimento 
          al Centro-Nord di buona parte dei suoi effetti" ed auspicava l'avvio 
          di un processo di industrializzazione che "solo avrebbe potuto 
          localizzare al Sud gli effetti attesi della spesa pubblica e dare inizio 
          ad un processo di sviluppo dell'economia meridionale".
 I provvedimenti di riforma fondiaria (promulgati nel periodo che va 
          dal maggio al dicembre 1950) vanno ricondotti alla necessità 
          di riordinare lo stato drammatico dell'economia agraria (popolazione 
          impegnata in esubero, bassi salari, contratti di mezzadria e colonia 
          poco remunerativi per il lavoro agricolo). Pur ammettendo che furono 
          sollecitati dalla volontà di modificare lo schema dei rapporti 
          istituzionali che regolavano la proprietà agraria, occorre sottolineare 
          che di fatto acquistarono solo un valore persecutorio nei confronti 
          del latifondo, senza provvedere in alcun modo alle istanze vere del 
          comparto: l'organizzazione della nuova e polverizzata proprietà 
          agraria in funzione del riordino produttivo, colturale e di mercato 
          fu completamente trascurata.
 Quindi mentre la riforma fondiaria era marcata principalmente da caratteri 
          ideologici (se non demagogici), l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno 
          (Legge 10 agosto 1950, n.646) era sorretta invece da una visione più 
          pragmatica e strumentale. Strumentale rispetto alla ripresa dell'economia 
          nazionale e alla utilizzazione della capacità produttiva sottoutilizzata, 
          oltre che al rispetto dell'esigenza di ridurre la disoccupazione meridionale. 
          Quindi strumentale anche rispetto alla azione di riforma agraria e fondiaria 
          non a caso resa contemporanea alla politica degli interventi, che tra 
          le funzioni assegnate alla Cassa prevedevano anche quella di ente finanziatore 
          della riforma agraria.
 Naturalmente il tentativo pragmatico di superare le lacune delle strutture 
          amministrative locali con l'istituzione della Cassa non riuscì, 
          poichè fu influenzato e indebolito dalle stesse strutture che 
          si intendeva superare. L'apprezzamento meditato dei limiti e delle carenze 
          dell'intervento della Cassa fu il risultato di un lento lavoro di revisione 
          critica dei meccanismi posti in essere. Sempre con maggiore forza veniva 
          avvertita la necessità di una programmazione nazionale entro 
          cui collocare i singoli interventi di politica economica e quindi anche 
          gli istituti dell'intervento straordinario destinato al Mezzogiorno.
 Le prime esigenze 
          di programmazioneLo schema Vanoni (1955 - 1964) costituì il primo atto con cui 
          venne utilizzato un approccio programmatico per disegnare linee coordinate 
          di politica economica orientate verso l'espansione complessiva del sistema. 
          L'attenzione maggiore della sua analisi era centrata sulla circostanza 
          che "lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali 
          manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano". 
          Prendendo lo spunto dalla constatata inefficienza dell'intervento della 
          Cassa così com'era stato fino ad allora disposto, suggeriva una 
          ripartizione degli investimenti pubblici nei settori propulsivi per 
          il 48% al Sud e per il 52% al Nord.
 Le linee di fondo della politica meridionalista non venivano intaccate 
          ma si affermava l'esigenza che gli investimenti "venissero a costituire 
          le infrastrutture e le economie esterne di un sistema economico autopropulsivo 
          che ancora manca nel Mezzogiorno".
 Indirizzi più precisi di quelli contenuti nello "schema" 
          per una politica a favore delle aree meno sviluppate furono delineati 
          in un documento successivo (pubblicato nel 1956): "Lineamenti del 
          programma di sviluppo, dell'occupazione e del reddito in Italia", 
          che aveva come scopo di ottenere una più vasta collaborazione 
          all'attuazione dello "schema" da parte degli operatori economici. 
          Si proponeva così per la prima volta l'esigenza di promuovere 
          un processo di industrializzazione valendosi di una serie di misure 
          ad hoc: dalla creazione di istituti di credito speciale, alla predisposizione 
          di un sistema di incentivi, alla localizzazione degli investimenti delle 
          industrie a partecipazione statale.
 Fu comunque agli indirizzi emersi dallo "schema Vanoni" ed 
          ai documenti collegati che si ispirò la successiva legge per 
          il Mezzogiorno (Legge 29 Luglio 1957, n. 634) prevedendo l'istituzione 
          dei "Consorzi per le zone industriali" e la localizzazione 
          nelle regioni meridionali di una quota (60% dei nuovi investimenti e 
          40% degli investimenti globali) degli investimenti delle aziende a partecipazione 
          statale, nonchè una politica d'incentivazione diretta ad attrarre 
          le industrie private. E fu sempre al contenuto dei documenti economici 
          legati al nome di Vanoni che, a partire dal 1955, si ispirarono i primi 
          tentativi di utilizzare il programma come strumento di razionalizzazione 
          delle scelte di politica economica e di organizzazione degli interventi 
          su scala nazionale (dalle iniziative delle Regioni a statuto speciale 
          ai piani di sviluppo della Calabria e della Campania, ai più 
          generali piani di sviluppo regionale richiesti dal Ministero dell'industria 
          nel 1959). In linea con le nuove, avvertite esigenze di programmazione, 
          la specificazione dei criteri d'intervento per l'attuazione della legge 
          634 portò, con l'emissione di una circolare del Comitato dei 
          Ministri per il Mezzogiorno, alla istituzione dei "piani regolatori 
          dei Consorzi delle Aree di Sviluppo Industriale e dei nuclei di industrializzazione". 
          Va rilevata tuttavia la netta contrapposizione tra la programmazione 
          "territoriale" proposta dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno 
          e la programmazione regionale disposta dal Ministero dell'industria, 
          che mettono in evidenza la sostanziale confusione sui ruoli e sulle 
          competenze che i vari organi della Pubblica Amministrazione avrebbero 
          dovuto assumere nella definizione di una politica programmata dello 
          sviluppo.
 Non si poteva comunque ancora parlare del sussistere delle condizioni 
          per un'effettiva programmazione, poichè i piani sollecitati servivano 
          solo ad individuare mere proiezioni di aumenti del reddito e dell'occupazione 
          nelle aree considerate. Intanto il mercato meridionale, che la spesa 
          addizionale avrebbe dovuto potenziare, in realtà perdeva concorrenzialità 
          rispetto ai mercati che si andavano espandendo in altre regioni e principalmente 
          nelle aree del triangolo industriale. Si avvertì così 
          che la nuova, precaria situazione verso cui il problema del Sud andava 
          degradando doveva essere affrontata con altri strumenti d'intervento.
 Un nuovo agguerrito dibattito sulla "questione meridionale" 
          nei primi Anni '60 confermò la vitalità delle due anime 
          tradizionali e furono ancora prospettate due diverse concezioni dell'intervento 
          statale nella vita economica. Da un lato si posero i sostenitori dei 
          "tempi lunghi" (Vera Lutz, Einaudi) come dimensione necessaria 
          ad assicurare alti tassi di sviluppo al sistema, conseguibili mediante 
          la massima redditività degli investimenti destinati al Mezzogiorno 
          nel breve e medio periodo; dall'altro i sostenitori di un intervento 
          immediato e improrogabile in una situazione evolutiva, che secondo questa 
          tesi avrebbe situato il Mezzogiorno in uno stato subalterno permanente 
          senza una decisa azione di sostegno, rendendo praticamente incolmabile 
          il recupero dell'economia meridionale in quella nazionale (Pastore, 
          Spaventa, Cao Pinna).
 Sulla tesi "neutralista", improntata sulla fiducia esclusiva 
          accordata agli effetti autonomi e propulsivi del mercato, prevalse la 
          tesi "interventista" di coloro che ritenevano indispensabile 
          intensificare l'intervento straordinario nel Mezzogiorno, non tanto 
          per superare, ma piuttosto per non accentuare e gradualmente ridurre 
          lo squilibrio Nord - Sud (prevalsero, pertanto, anche le linee di pensiero 
          portate avanti dalla nuova classe di meridionalisti: Graziani, Compagna, 
          Fiore). Si affermò l'esigenza di rivedere le linee della politica 
          economica e dell'intervento pubblico in economia affidando in modo più 
          organico l'intera materia agli strumenti di una programmazione "Indicativa" 
          (Nota Aggiuntiva presentata dal Ministro del Bilancio al Parlamento 
          - 22 maggio 1962).
 Le funzioni di determinazione dell'indirizzo generale in tema di pianificazione 
          furono affidate ad uno speciale Comitato Interministeriale per la Programmazione 
          Economica (CIPE), che si poneva come organo sovraordinato rispetto al 
          Ministero del Bilancio ed alle sue competenze. Questo nuovo organo istituzionale 
          ebbe la sua prima, parziale attuazione In virtù del Decreto del 
          Presidente del Consiglio dei Ministri 14 aprile 1965. Quasi contemporaneamente 
          si provvedeva alla nuova configurazione dell'assetto istituzionale dell'intervento 
          pubblico nel Mezzogiorno (Legge 26 giugno 1965, n. 717).
 Politica meridionalista 
          e politica di pianoEsaurito il piano quindicennale (1950-1965), l'azione della Cassa venne 
          articolata sulla base di piani quinquennali ispirati alle linee programmatiche 
          adottate in sede governativa.
 L'esame della legge 717 può costituire un punto di riferimento 
          essenziale per esprimere un giudizio intorno alla capacità di 
          tradurre in termini operativi le impostazioni politico-economiche emerse 
          con la Nota Aggiuntiva. Si tratta in particolare di approfondire da 
          un lato il nesso fra politica economica generale e strumenti ordinari 
          d'intervento statale e speciale; dall'altro i temi del decentramento 
          amministrativo e del modo in cui le autonomie locali si inseriscono 
          nella gestione degli strumenti d'intervento statale.
 La legge 26 giugno 1965, n. 717 si propone innanzitutto l'obiettivo 
          di rendere più omogeneo ed efficace l'apparato dei pubblici poteri 
          preposti all'attuazione dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno mediante 
          l'adozione di specifici "piani pluriennali di coordinamento" 
          predisposti per coordinare gli interventi dello Stato e delle Regioni, 
          di cui è prevista la successiva costituzione. Si perviene così 
          all'unificazione degli strumenti impiegati con l'intervento ordinario 
          e straordinario ed al rafforzamento dei poteri di indirizzo e di vigilanza 
          del Governo sulla Cassa. L'attenzione per questo secondo gruppo di problemi 
          determina la costituzione di un nuovo organo istituzionale. il Ministero 
          per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, concepito come organo 
          del Governo competente ad esercitare la direzione e il controllo della 
          Cassa.
 Più arduo invece risulta l'inserimento dell'azione degli organi 
          preposti all'intervento speciale nel sistema istituzionale della programmazione 
          economica globale. Le difficoltà vanno ricondotte soprattutto 
          alla permanente incertezza in cui versa la c.d. politica di piano. In 
          mancanza di leggi vigenti (anche se molti erano i disegni di legge depositati 
          sulla materia in Parlamento), la legge 717 ritenne di trovare un valido 
          punto di riferimento nelle grandi linee dell'assetto istituzionale enunciate 
          nel Progetto di programma economico nazionale e nel Progetto sul nuovo 
          ordinamento del Ministero del Bilancio approvati dal Consiglio dei Ministri 
          (Atti Camera n. 2457 e 2606). Si spiega in questo modo il ricorso alla 
          competenza del CIR (Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, 
          in prospettiva assorbito dal CIPE) per l'approvazione dei piani pluriennali 
          di coordinamento per il Mezzogiorno.
 La legge 717 propone anche il primo, concreto tentativo di dare corpo 
          al discorso politico attorno all'articolazione regionale della programmazione, 
          disponendo che le Regioni devono presentare proposte per gli interventi 
          da attuare nei rispettivi territori. Si può notare come molti 
          istituti vengono regolati col chiaro intento di anticipare l'impianto 
          legislativo ed organizzativo della generale politica di piano.
 L'ulteriore evoluzione della tematica meridionalista si coglie nella 
          successiva legge 6 ottobre 1971, n. 853. Vengono innanzitutto soppressi 
          i "piani poliennali di coordinamento" e sostituiti con i "progetti 
          speciali di interventi organici". La sostituzione viene spiegata 
          con l'esigenza di rendere gli interventi più elastici e adattabili 
          alle situazioni particolari, in considerazione dell'esperienza negativa 
          ricavata dal piano approvato il 1 o agosto 1966 (l'unico pubblicato), 
          che è risultato generico e di difficile attuazione; in diversi 
          punti astratto e rigido nei contenuti. Tuttavia anche l'esperienza dell'intervento 
          a mezzo dei "progetti speciali" (al 31 dicembre 1975 ne erano 
          stati approvati 30 per un importo complessivo di spesa di 1.883.184 
          milioni di lire, ma molti non furono portati a compimento per l'esaurimento 
          dei fondi) non sembra abbia pienamente soddisfatto per il loro contenuto 
          troppo particolare, che spesso si esauriva nella realizzazione di opere 
          isolate e per la mancanza di coordinamento tra i diversi progetti e 
          tra gli interventi dello Stato e quelli delle Regioni. Nè il 
          potere di indirizzo esercitato dal CIPE è riuscito a garantire 
          la centralità del problema del Mezzogiorno tra le grandi opzioni 
          di politica economica generale.
 La nuova disciplina introdotta con la legge 853 presenta comunque tre 
          caratteristiche essenziali: a) l'assunzione, in sede di principio, dello 
          sviluppo del Mezzogiorno a obiettivo fondamentale del programma economico 
          nazionale; b) la partecipazione delle regioni meridionali alla determinazione 
          ed all'attuazione degli interventi; c) la conseguente ristrutturazione 
          delle competenze degli altri organi chiamati a realizzare la politica 
          meridionalistica.
 La presenza delle Regioni a statuto speciale e la costituzione delle 
          Regioni a statuto ordinario, operante dall'aprile 1972, non hanno fatto 
          venire meno l'esigenza di guardare al Meridione come unità territoriale 
          ai fini dell'intervento straordinario, ma hanno certamente imposto una 
          nuova organizzazione amministrativa regionale.
 Si avverte in sostanza, in questo periodo, l'esigenza di elaborare un 
          accordo politico tra Stato e Regioni per definire in comune la politica 
          generale dell'intervento e l'utilizzazione delle Regioni per gli interventi 
          diretti nelle materie di loro competenza. Un tema ancora insoluto, che 
          finora ha sollecitato più azioni frenanti che stimoli promozionali 
          nell'effettivo collegamento tra le grandi scelte nazionali e le concrete 
          esigenze del Mezzogiorno.
 Anche la nuova legge sull'intervento straordinario del 2 maggio 1976, 
          n. 183 avverte chiaramente i limiti derivanti da questo problema. Viene 
          riaffermata la necessità di inquadrare neIIa pianificazione nazionale 
          lo sviluppo del Mezzogiorno utilizzando l'articolazione regionale delle 
          competenze, ma non si va oltre le generiche affermazioni di principio. 
          Viene semplicemente rafforzata e precisata la posizione del CIPE, che 
          si riconosce come organo centrale della elaborazione e dello svolgimento 
          della politica meridionalista in modo da indirizzare e coordinare gli 
          interventi con gli obiettivi della programmazione nazionale.
 Pertanto la legge 183, pur mantenendo i "progetti speciali", 
          cerca di recuperare alla programmazione i diversi interventi attraverso 
          la predisposizione di un disegno unitario espresso nel piano quinquennale. 
          Ma l'inadeguatezza dello strumento prescelto è palesemente avvertibile 
          nei progetti di riassetto dei maggiori centri urbani: Napoli e Palermo.
 La Cassa subisce alcune modificazioni e si qualifica sempre più 
          come strumento tecnico-esecutivo dell'intervento statale. In questa 
          nuova configurazione risultano affievoliti i compiti d'istituto. La 
          sua attività viene concentrata esclusivamente nella realizzazione 
          dei "progetti speciali", nell'attività di studio, consulenza 
          e assistenza tecnica alle regioni meridionali, nella realizzazione di 
          Interventi infrastrutturali e di carattere finanziario. Di riflesso 
          è prevista anche la riorganizzazione delle funzioni dei principali 
          Enti ad essa collegati: Insud, Finam, lasm, Formez, Fime. In realtà 
          le disposizioni occorrenti avrebbero dovuto essere emanate dal Governo 
          in sede delegata, entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge 
          (cioè entro il 9 agosto 1976) e, non essendo avvenuto, la delega 
          è da considerarsi decaduta.
 Relativamente alle competenze delle regioni meridionali, la legge 183 
          prevede che esse partecipino sia all'elaborazione dei programmi sia 
          all'attuazione degli interventi. La partecipazione si realizza in modi 
          diversi. Innanzitutto, per le deliberazioni riguardanti gli interventi 
          straordinari, il CIPE è integrato di volta in volta dal Presidente 
          della Regione direttamente interessata (si tratta di una partecipazione 
          a carattere consultivo, non deliberante, altrimenti si verrebbe a modificare 
          la formazione dell'organo e quindi la competenza del Governo). In secondo 
          luogo, il CIPE deve tenere conto, nella elaborazione del programma, 
          delle indicazioni e delle proposte del "Comitato dei rappresentanti 
          delle regioni meridionali". Oltre al contributo per la redazione 
          del piano quinquennale, il Comitato esprime, entro 40 giorni dalla richiesta, 
          pareri sulle iniziative legislative e su tutte le decisioni da sottoporre 
          al CIPE. La sua competenza è dunque particolarmente ampia e sarebbe 
          stato opportuno precisarne la portata. Si tratta di una competenza consultiva 
          che non vincola il CIPE; ma è evidente che quest'organo non può 
          decidere prima dei 40 giorni, se non giunge il parere del Comitato: 
          circostanza che in pratica si traduce in un rallentamento delle pratiche, 
          come nel caso in cui viene richiesto il parere di conformità 
          per la concessione degli aiuti finanziari. La disciplina degli aspetti 
          istituzionali e funzionali dell'intervento straordinario risulta in 
          sostanza fortemente mutata rispetto ai contenuti originari. Le direttive 
          di attuazione sono ormai attribuite con competenze non sempre chiare 
          al Governo, al Parlamento ed alle Regioni, anche se in alcuni organi 
          viene accentuata la funzione amministrativa (Governo), in altri quella 
          consultiva (Regioni) ed in altri ancora quella di controllo (Parlamento).
 Si è dunque in presenza di una multiforme articolazione delle 
          competenze, che attendono di essere meglio precisate e coordinate per 
          uscire dallo stato confusionale e paralizzante della legislazione attuale.
 Le prospettive 
          della nuova disciplinaLa problematica meridionalista si avvia pertanto ad acquistare nuovo 
          vigore nel momento in cui si può considerare concluso il ciclo 
          dell'intervento aggiuntivo, inteso come fattore modificativo dell'assetto 
          statale in funzione di un mitico modello nazionale di sviluppo egalitario. 
          Bisogna prendere atto che la complessa evoluzione legislativa fin qui 
          prodotta (sia per orientare lo sviluppo generale dell'economia sia per 
          stimolare più specificatamente la crescita del Mezzogiorno) ha 
          avuto il merito di collocare il problema meridionale in una sistematica 
          visione normativa di tipo unitario, cui però non ha corrisposto 
          un altrettanto fervore unitario in sede di gestione amministrativa e 
          di concrete direttive di politica economica. L'obiettivo di una evoluzione 
          omogenea della crescita su scala nazionale resta ancora insoluto.
 La concezione di un intervento nel Mezzogiorno non più prioritario 
          in termini di recupero economico, ma centrale nel l'articolazione del 
          riordino produttivo e dello sviluppo complessivo del sistema, sembra 
          acquisita dalla coscienza politica. A ciò dovrebbe corrispondere 
          l'abbandono della struttura macchinosa degli incentivi a carattere "aggiuntivo", 
          posta in essere dalla legislazione iniziale (e mai abbandonata), per 
          fare spazio a misure di sostegno settoriali e territoriali anche di 
          tipo speciale, che vengano offerte alle imprese per ragioni di mera 
          convenienza economica. Quindi l'uso articolato della politica fiscale 
          e creditizia in primo luogo. La riduzione del divario Nord - Sud va 
          intesa non come esigenza esclusiva di carattere sociale (difesa e aumento 
          dell'occupazione), ma come necessaria forza propulsiva del nuovo ordine 
          economico nazionale, che si cerca di accreditare. Se questa tesi (propugnata 
          nel dopoguerra dai meridionalisti più lungimiranti) avesse prevalso 
          in passato, le attuali prospettive economiche generali sarebbero pro 
          a i mente meno oscure, poichè si sarebbe già costituito 
          un tessuto economico omogeneo che avrebbe reso meno profondi i cambiamenti, 
          che in un contesto di crisi generalizzata ora si devono realizzare.
 Le incognite del sistema attuale com'è noto sono numerose: attraverso 
          la ristrutturazione e riconversione dell'apparato produttivo si realizzano 
          nuove strategie d'impresa e quindi un nuovo ordine economico. E' un 
          passaggio imposto dall'avvento dell'elettronica e dalla rivoluzione 
          tecnologica che ne consegue.
 In questo tumultuoso e dinamico rinnovamento della logica mercantile 
          bisogna evitare che il dinamismo spontaneo espresso dal tessuto sociale 
          meridionale venga di nuovo ingabbiato in una società burocratica, 
          economicamente stagnante, ad emigrazione crescente e ricchezza calante. 
          Una impostazione in termini nuovi della "questione" è 
          possibile purchè a tutti i livelli si avverta l'obbligo di situare 
          le linee del futuro sviluppo economico del Mezzogiorno all'interno dell'evoluzione 
          del sistema, ponendole come condizione per l'attuazione delle tendenze 
          che esso esprime.
 I costi economici e sociali della concezione padanocentrica dello sviluppo 
          industriale sono ora evidenziati da almeno tre ordini di problemi: gli 
          effetti negativi della congestione aziendale sull'insufficiente produttività 
          del sistema, la scarsa diversificazione delle attività produttive, 
          i disagi dell'eccessiva urbanizzazione nelle aree metropolitane delle 
          città industriali.
 Questa negativa esperienza suggerisce l'avvio di un processo durevole 
          di riduzione del divario Nord - Sud, ricercato come necessaria opzione 
          tecnico-economica che consenta alle regioni meridionali di acquisire 
          un grado di efficienza operativa in armonia con l'evoluzione generale 
          del sistema. In primo luogo occorre rimuovere alcune idee frustranti 
          che circolano con insistenza nella società meridionale. Ad esempio 
          la convinzione che i limiti dello sviluppo al Sud siano imposti dal 
          grado di dipendenza che la sua economia ha rispetto a quella del Nord. 
          Va preso atto che una dipendenza in questo senso c'è sempre stata 
          (e non poteva essere altrimenti) e, per certi aspetti, ha segnato i 
          tratti caratteristici della "questione". I rischi impliciti 
          in questa posizione sono dati dalla ricerca di una indistinta unità 
          "meridionalistica" che tende a situarsi in posizione contrapposta 
          alla cultura del Nord industriale. In questo modo si finisce per restare 
          indifferenti, se non estranei, di fronte ad episodi di portata dirompente, 
          come la ristrutturazione e riconversione industriale che stiamo vivendo. 
          Occorre invece avere chiara consapevolezza del fatto che l'industrializzazione 
          del Mezzogiorno e la riconversione industriale sono sinonimi (Purtroppo 
          la Legge 675 del 12 agosto 1977 e seguenti, che disciplinano la materia, 
          sono in chiaro contrasto con la logica meridionalistica per il disposto 
          frazionamento dei centri decisionali e delle riserve disponibili) e 
          che questo risultato può essere conseguito soltanto con una concreta 
          politica unitaria di programmazione, che risulta peraltro ampiamente 
          istituzionalizzata nelle sedi tecniche.
 Un altro equivoco ricorrente attiene al rinnovamento del Mezzogiorno, 
          cercato attraverso "meccanismi autonomi di sviluppo". Anche 
          questo concetto nasconde in fondo tentazioni separatiste (velleitarie) 
          che serpeggiano in vasti strati della società meridionale. In 
          realtà il ritmo e l'ampiezza dello sviluppo non sono mai autonomi, 
          poichè alla loro realizzazione concorrono fattori endogeni ed 
          esogeni che stimolano e orientano le direttrici dell'industrializzazione, 
          dello sviluppo agricolo e del terziario (la cui qualificazione non è 
          sostitutiva, ma complementare, rispetto alla crescita industriale).
 La riflessione sullo stadio attuale della "questione" passa 
          quindi attraverso la revisione critica di alcuni assunti e miti, che 
          finora l'hanno egemonizzata, per consentire l'adozione di un quadro 
          interpretativo capace di dare contributi reali alla battaglia nazionale, 
          che verrà condotta negli Anni '80 per la nuova articolazione 
          dello sviluppo. Si tratta di porsi di fronte alle esigenze d'intervento 
          delle regioni meridionali utilizzando criteri di valutazione scientifici 
          e razionali, più che sterili rivendicazioni emotive di rivalsa.
 Se l'aumento del reddito nazionale si annuncia vicino allo zero, se 
          una quota rilevante di capitali dovrà essere manovrata per rinnovare 
          l'attuale apparato produttivo, se si restringono i margini dell'intervento 
          pubblico per gli effetti destabilizzanti provocati dall'inflazione, 
          non per questo deve diminuire l'impegno a perseguire la riduzione del 
          divario. Tale impegno va sicuramente riqualificato per eliminare la 
          politica dei sussidi improduttivi e potenziare le forze di rinnovamento 
          dell'economia attraverso il conseguimento dell'obiettivo meridionalistico.
 Essendo pertanto situati il Centro-Nord e il Mezzogiorno in posizione 
          concorrenziale rispetto all'utilizzo degli stessi strumenti e delle 
          stesse risorse (fondo per gli investimenti e l'occupazione, fondo per 
          la riconversione, fondo regionale per lo sviluppo), non si può 
          più commettere l'errore di definire le linee generali della crescita 
          secondo le direttrici di minore resistenza formulate dai centri direzionali 
          delle imprese ed avallate in sede politica, per poi adottare residue 
          misure di sostegno volte a ridurre il divario. Il futuro dell'industria 
          nazionale va impostato oggi nel suo insieme e collocato in un quadro 
          macroeconomico che veda diminuire la popolazione nel Nord ed aumentare 
          quella del Sud.
 Questa divaricazione non è di poco conto e di per sè sarebbe 
          sufficiente a polarizzare l'attenzione sulla "questione meridionale" 
          per rapportare ad essa i disegni strategici della crescita complessiva, 
          se a ciò non concorressero anche utili programmi di attività 
          industriale in riordino o in espansione.
 Le grandi decisioni di politica economica e finanziaria devono essere 
          dunque finalizzate in prevalenza allo sviluppo del Mezzogiorno (per 
          la maggiore concentrazione della domanda di lavoro e per il potenziale 
          superiore di redditività degli investimenti nel medio periodo, 
          ed in questa prospettiva assume grande rilievo il coordinamento delle 
          azioni conseguenti, che dovrà essere attuato dalle singole amministrazioni 
          centrali e regionali.
 La nuova disciplina (Camera dei Deputati: Disegni di Legge n. 1973, 
          2261, 2844), proiettata nel prossimo decennio, pur mantenendo l'istituto 
          dei "progetti speciali" come strumento prioritario d'intervento, 
          tende ad operare una distinzione tra progetti interregionali (la cui 
          attuazione verrebbe affidata alla Cassa) e progetti regionali (affidati 
          invece direttamente alle Regioni o ad altri Enti minori con l'assistenza 
          della Cassa per la progettazione e l'esecuzione delle opere). A nostro 
          avviso rimane però ancora macchinoso il meccanismo decisionale, 
          in cui si accavallano competenze centrali e regionali, con procedure 
          non sempre chiare e coerenti.
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