| Ha scritto Pasquale 
          Saraceno che, a partire dal 1974, il primo aumento del prezzo del greggio 
          e altri fenomeni importanti hanno profondamente e bruscamente modificato 
          il corso di tutta l'economia mondiale, e soprattutto il sistema di rapporti 
          in cui hanno luogo l'esercizio e l'espansione delle imprese industriali. 
          Sette anni sono ormai trascorsi da quel primo evento, aggiunge Saraceno, 
          e ormai elementi sufficienti sono in nostro possesso per confermarci 
          "che le rilevanti difficoltà che si sono affrontate dopo 
          allora e quelle che sono oggi davanti a noi non sono manifestazioni 
          di una crisi che, appunto perché crisi, è destinata ad 
          essere superata per dar luogo a corsi di eventi in qualche modo riconducibili 
          alle esperienze del passato".A questo proposito, va tenuto presente che la rinuncia al termine crisi 
          è un punto rilevante ai fini di una identificazione della politica 
          meridionalistica: in situazione di crisi i problemi di ordine strutturale 
          si possono legittimamente accantonare; tale è stata in passato, 
          più volte, la sorte della questione meridionale e questo è 
          da temere possa avvenire anche nel momento attuale. La situazione è 
          ben diversa, se ci convinciamo che quanto è accaduto dopo il 
          1973 non costituisce, pur con le sue gravissime difficoltà, una 
          complicata fase di passaggio verso una situazione definibile di normalità; 
          una nuova normalità è ormai già cominciata e in 
          essa, il più possibile identificata, va gestito l'intervento 
          straordinario 1982-1991.
 La presentazione di un disegno di legge che prevede la continuazione 
          dell'intervento straordinario per un decennio costituisce per Saraceno 
          un elemento molto positivo nella situazione, sotto tanti aspetti preoccupante, 
          che presenta oggi l'economia meridionale: "positivo, ci sentiremmo 
          di aggiungere, indipendentemente dalla soluzione che il Parlamento vorrà 
          dare alle questioni, certo non di lieve momento, che sulla proposta 
          di legge sono state sollevate".
 Infatti, non ci dovrebbero essere dubbi che sono, oggi più che 
          mai, validi i motivi che portarono nel 1950 a creare l'istituto dell'intervento 
          straordinario. Giova ricordarli: in primo luogo, identificare l'ammontare 
          di risorse da assegnare all'azione nel Mezzogiorno, in aggiunta a quelle 
          dell'azione ordinaria, e garantire tale afflusso addizionale di risorse 
          per un periodo poliennale; in secondo, gestire tali risorse in una sede 
          ad hoc, con procedure più semplici di quelle proprie della Pubblica 
          Amministrazione; in terzo, coordinare in programmi azioni che andavano 
          svolte in campi diversi.
 Perché mai un tipo di intervento così motivato sarebbe 
          dovuto cessare, come pure è stato proposto? Dopo tutto, rileva 
          il meridionalista, se si considera nel suo complesso l'azione economica 
          svolta nel nostro Paese dopo la fine della guerra e il mai cessato dibattito 
          sul problema della programmazione, non si vede quale altro tipo di azione 
          pubblica abbia perseguito in concreto e tanto a lungo l'idea di programmazione, 
          con possibilità di rendiconto che non erano disponibili altrove. 
          Ed è questa una circostanza importante, se è vero che 
          un programma, che non prevede rendiconto, scende al livello di messaggio 
          (1).
 Motivo di compiacimento deve poi essere l'idea di riportare a dieci 
          anni la durata dell'intervento, rispetto ai cinque previsti dalle tre 
          ultime leggi di proroga. Interessa al riguardo auspicare che il decennio 
          sia inteso nel suo originale significato di durata del periodo per il 
          quale viene garantito all'azione meridionalistica un determinato afflusso 
          di fondi e non già del periodo al termine del quale le modalità 
          dell'intervento vanno in ogni caso poste in discussione, e, inevitabilmente, 
          mutate, come invece è avvenuto finora. Nella storia delle istituzioni 
          non vi sono, salvo errore, altri esempi di mutamenti radicali tanto 
          frequenti del modo di operare di un Ente, come è avvenuto per 
          la Cassa per il Mezzogiorno; mutamenti che finiscono in qualche mondo 
          per essere spesso errati, dato che, avvenendo a scadenza quinquennale 
          ed essendo gli obiettivi dell'Ente a lunghissima scadenza, non è 
          probabile che essi vengano decisi in base a fondate valutazioni politiche 
          ed economiche degli effetti prodotti dalla legislazione adottata quattro 
          anni prima, in occasione della precedente proroga. E si dice quattro 
          anni perché è quanto meno un anno prima della scadenza 
          che si inizia il dibattito e si cominciano ad avanzare proposte di modifica, 
          con l'effetto di indurre uno stato di grande incertezza nella gestione 
          dell'Ente. Questa incertezza si prolunga poi anche oltre il quinto anno 
          - e in questa situazione si trova oggi il Sud - se la legge di proroga 
          non viene approvata prima della scadenza. E così, l'azione straordinaria, 
          concepita a suo tempo per rendere più rapida e più incisiva 
          la politica meridionalistica, finisce per non possedere neppure le caratteristiche 
          proprie dell'azione ordinaria, caratteristiche che pure sono ancora 
          oggi ritenute insufficienti per condurre in modo coordinato e risoluto 
          le varie azioni che il Sud pressantemente richiede. Non è quindi 
          giusto attribuire solo alla natura dei pur gravi problemi meridionali 
          le insufficienze dell'azione svolta finora.
 La lunga esperienza compiuta dovrebbe quindi indurre a ritenere come 
          caratterizzanti dell'intervento straordinario i seguenti punti:
 a) l'intervento straordinario ha durata che solo le vicende dell'azione 
          meridionalistica possono determinare;
 b) le norme che regolano l'intervento non sono certo immutabili, specie 
          in un mondo come l'attuale, soggetto a frequenti e non prevedibili cambiamenti.
 I mutamenti, come del resto anche avviene, vengono fatti quando occorre, 
          e quindi tra l'una e l'altra proroga; e non si vede perché a 
          scadenza predeterminata, cioé all'atto della proroga, tutto venga 
          rimesso in discussione. In altre parole: le leggi di proroga vanno riferite 
          alle modalità non dell'intervento straordinario, ma del suo finanziamento, 
          nell'ipotesi plausibile che a regolare le modalità dell'intervento 
          si sia provveduto quando ciò si è reso necessario.
 Ora, non vi è dubbio che, attualmente, questa necessità 
          si è manifestata; ciò, sia a motivo del gran cambiamento 
          avvenuto a partire dal 1974 nelle condizioni in cui si svolge lo sviluppo 
          meridionale (e a questo fenomeno direttamente ci colleghiamo in queste 
          pagine) sia a motivo di nuovi indirizzi emersi nelle norme che regolano 
          la politica meridionalistica indirizzi che valgono a dare nuove soluzioni 
          al generale problema della ripartizione dei compiti tra autorità 
          centrale e altre autorità (2).
 Ogni ricerca sul futuro economico di un'area non può non partire 
          da un confronto tra sviluppo economico e sviluppo demografico, respingendo 
          il pensiero che, ove esita uno scarto rilevante tra le due previsioni, 
          sia lecito ammettere che esso possa essere solo o anche prevalentemente 
          superato con movimenti di emigrazione, se le forze di lavoro eccedono 
          nell'area le possibilità d'impiego, e di immigrazione se sono 
          ad esse inferiori. Certo la ricerca, da parte delle forze di lavoro, 
          delle più convenienti opportunità di impiego determina 
          una certa loro mobilità territoriale; e ciò è indice 
          di equilibrato progresso, non solo economico. Se però la mobilità 
          è a senso unico e costituisce la condizione che più concorre 
          a dare un'occupazione alle forze di lavoro dell'area meno sviluppata, 
          un'azione deve essere intrapresa affinché sia lo sviluppo dell'area 
          e non l'emigrazione a dare le maggiori possibilità di lavoro. 
          Ciò tanto più s'impone nel caso del Mezzogiorno, dato 
          che in quest'area si localizza oltre il 60 per cento dell'aumento della 
          forza di lavoro italiana.
 Va notato - e sottolinea Saraceno - che fu partendo da questa impostazione 
          che nel 1946 si diede vita alla Svimez, nell'ipotesi, rivelatasi poi 
          infondata, che le aree di immigrazione avrebbero col tempo, nel loro 
          interesse, accolto questa impostazione. Secondo valutazioni Svimez, 
          nel decennio 1982-91 la popolazione del Mezzogiorno passerà da 
          19,4 a 20,5 milioni, con un aumento di 1,1 milioni. Poiché la 
          popolazione del Nord dovrebbe diminuire da 36,7 a 36,3 milioni, la popolazione 
          del Paese aumenterà nel decennio di poco meno di 700 mila unità, 
          passando da 56,1 a 56,8 milioni. L'incremento della forza di lavoro 
          nel decennio si valuta in 900 mila unità, di cui 650 mila nel 
          Sud e 250 mila nel Nord. Il previsto aumento delle forze di lavoro, 
          superiore a quello della popolazione, si spiega con l'ipotesi di tendenziale 
          innalzamento dei tassi di attività femminili e con la modificazione 
          della struttura per età della popolazione, dato che acquisteranno 
          maggiore peso relativo le classi cui corrispondono tassi di attività 
          più elevati.
 Quanto alla domanda di lavoro del decennio, va considerato anzitutto 
          che, del milione e 700 mila unità in cui si valuta oggi la disoccupazione 
          italiana, si ritiene che 900 mila unità risiedano nel Nord e 
          800 mila nel Sud: troppe, queste ultime, date le proporzioni con cui 
          la popolazione italiana si ripartisce tra le due aree. Va poi tenuto 
          conto del fatto che gli occupati in agricoltura sono il 9 per cento 
          del totale nel Nord e il 25 per cento nel Sud; l'esodo dal settore primario 
          continuerà ancora in alcune aree meridionali. Sono poi da considerare 
          altre componenti della domanda di lavoro che si avrà nel Sud 
          nel corso del decennio. Vi è la perdita di posti di lavoro dovuta 
          alla conversione industriale in corso in tutti i Paesi dell'Occidente, 
          non automaticamente compensata da nuove iniziative suscitate dal sistema. 
          Si tratta di un fenomeno ovviamente coinvolgente l'intero Paese. La 
          capacità di sostituzione posseduta dal mercato, però, 
          è - com'è noto - molto minore nel Mezzogiorno. Sono infine 
          da mettere nel conto il fenomeno delle immigrazioni dall'estero, finora 
          poco chiarito nella sua natura e nelle sue dimensioni, e il possibile 
          rientro di emigrati dall'estero, eventualità da tenere presente 
          nel riguardi del solo Sud. D'altro canto, ci sarà in ogni caso 
          una certa migrazione dal Sud al Nord.
 Per quanto riguarda l'occupazione, quindi, c'è sempre una notevole 
          differenza tra la situazione del Nord e quella del Mezzogiorno. Mentre 
          nel Nord c'è oggi solo un problema di creazione di posti di lavoro 
          sostitutivi di quelli che possono venire a cessare (al che si può 
          però far fronte anche diminuendo, e al limite cessando, l'immigrazione, 
          restando sempre al Sud il ruolo di riserva di forza di lavoro a servizio 
          del Nord), nel Mezzogiorno vi è anche una necessità di 
          aumentare il numero dei posti di lavoro, un aumento che può valutarsi, 
          considerando le varie componenti su indicate, nell'ordine di 1.500.000 
          unità (3). Questo dato consente di sintetizzare il grande mutamento 
          intervenuto nel nostro Paese nel periodo trascorso dopo l'inizio dell'intervento 
          straordinario. Nel 1954, allorché, nella fase iniziale dell'intervento, 
          si procedette alla formulazione dello "schema Vanoni", si 
          valutò in quattro milioni il numero dei posti da creare in un 
          decennio, partendo da una base produttiva extra-agricola che dava lavoro 
          a 12,2 milioni di unità (4). Nel 1980, con una base produttiva 
          extra-agricola che dà lavoro a 18 milioni di unità, l'obiettivo 
          in posti di lavoro da creare, in un ideale programma nazionale di durata 
          decennale, sarebbe, come indicato sopra, di un milione e mezzo di unità.
 Appare dai dati ora esposti che il rapporto tra posti di lavoro che 
          ci si propone di creare e posti di lavoro non agricolo posseduti dalla 
          base produttiva esistente èpassato dal 36 per cento, negli anni 
          dello "schema Vanoni" (cioé all'inizio dell'intervento 
          straordinario), a poco meno del 10 per cento di oggi. Ciò significa 
          che, con un allargamento relativamente limitato che si potesse ottenere 
          nel prossimo decennio nell'occupazione non agricola - s'intende a livelli 
          moderni di produttività e supposto che questo allargamento fosse 
          ottenuto nella massima parte nel Sud - si conseguirebbe il duplice risultato, 
          di portata veramente storica, di aver costituito un capitale produttivo 
          sufficiente per conseguire anche nel Mezzogiorno un tasso di occupazione 
          europeo, normalizzando per di più la produttività del 
          lavoro agricolo rispetto a quella del lavoro extra-agricolo. Se invece 
          la ipotizzabile creazione di posti di lavoro avesse luogo in proporzioni 
          rilevanti nel Nord e riprendessero così i movimenti migratori, 
          si renderebbe necessario pensare all'assetto da dare alle aree che, 
          a seguito dell'esodo, resterebbero prive di forza di lavoro utilizzabile 
          e con un divario sensibile rispetto al resto del Paese. Questo tema 
          sarà ripreso fra poco, trattando delle differenze di, livelli 
          di sviluppo rilevabili oggi nel Sud (5).
 E' fin troppo noto che aumenti nel numero dei posti di lavoro extraagricoli 
          sono oggi più difficili da ottenere che negli anni in cui fu 
          avviato l'intervento straordinario. Vediamo perché.
 Che con il 1974 si sia aperta una nuova fase economica è indicato 
          da una considerazione degli elementi che hanno generato, e poi sostenuto, 
          nell'Occidente europeo l'espansione economica avutasi nel venticinquennio 
          seguito al termine, intorno al 1950, della ricostruzione postbellica. 
          Questi elementi sono tutti cessati senza possibilità di ripristino. 
          Elenchiamo i più rilevanti:
 1) disponibilità pressoché illimitata di forze di lavoro, 
          grazie a immigrazioni dalle aree non industrializzate; bassa conflittualità 
          e relativamente basso costo del lavoro;
 2) formazione del MEC e insorgere di nuove convenienze a investire, 
          create dalla caduta delle protezioni doganali tra gli Stati membri della 
          Comunità;
 3) espansione del commercio mondiale a condizioni convenienti per i 
          Paesi di antica industrializzazione;
 4) progresso tecnologico intenso, che però non ha impedito l'aumento 
          del l'occupazione.
 A creare le difficoltà del periodo successivo al 1973 hanno concorso 
          soprattutto i seguenti quattro elementi:
 1) avvio della questione energetica;
 2) aumento rapido delle esportazioni industriali da parte dei Paesi 
          cosiddetti di "nuova industrializzazione", Paesi designati 
          ora con la sigla NIC (Newly industrialised countries) (6); ai nostri 
          fini, a questo gruppo di Paesi può essere associato il Giappone;
 3) intensificazione del progresso tecnico in una misura che, in presenza 
          del rallentamento dei ritmi di crescita, determina disoccupazione;
 4) inflazione.
 Il nuovo corso dell'economia mondiale inizia nel 1974, per effetto di 
          quello che doveva poi chiamarsi il "primo choc petrolifero"; 
          ad esso doveva seguirne un secondo, nel 1979-80. Ognuno di essi dà 
          luogo a due urti sull'equilibrio esistente: uno sulla bilancia dei pagamenti; 
          l'altro sugli investimenti di vario ordine, che vengono effettuati per 
          contenere la domanda di prodotti petroliferi. Le azioni volte a superare 
          i due squilibri si risolvono in riduzione di consumi, in aumenti della 
          produttività e, nella misura in cui ciò sia insufficiente, 
          in inflazione Dal primo choc petrolifero i Paesi industrializzati si 
          erano in qualche modo ripresi, per quanto riguarda il riequilibrio dei 
          loro rapporti con l'estero; restavano invece aperti tutti i problemi 
          non a breve termine suscitati dalla necessità di adattamento 
          generato per tutte le economie importatrici di petrolio dalla nuova 
          situazione dei prezzi, massimo tra essi quello del finanziamento degli 
          investimenti richiesti dalla costituzione di nuove fonti di energia. 
          Non così per il secondo choc, molto recente, ma secondo alcuni 
          anche molto più duro.
 In tema di energia si è però determinata, nel corso del 
          settennio trascorso, una situazione notevolmente diversa da quella che 
          rese possibili le ben note decisioni prese in passato, in fatto di prezzi, 
          dal gruppo dei massimi Paesi petroliferi. Hanno infatti agito e continueranno 
          ad agire tre ordini di fattori riequilibranti: l'aumento, reso conveniente 
          dai maggiori prezzi, della capacità di produzione petrolifera 
          posseduta da altri Paesi; lo sviluppo delle produzioni da fonti alternative; 
          la riduzione di consumi, a parità d'impiego, determinata dalla 
          loro razionalizzazione. Non consideriamo ovviamente le riduzioni temporanee 
          di domanda dovute, come l'attuale, e sfavorevoli congiunture. Vi è 
          poi il fatto che, ai livelli di prezzo raggiunti oggi dal petrolio, 
          vi è non solo la necessità, ma anche la convenienza di 
          agire nelle tre direzioni ricordate: aumento della produzione petrolifera, 
          sviluppo di fonti alternative, razionalizzazioni dei consumi. Tale convenienza 
          non deriva solo da un confronto di costi, ma anche dalla circostanza 
          che la formazione di fonti alternative si risolve in creazione di posti 
          di lavoro e in miglioramento della bilancia dei pagamenti: due svolgimenti 
          di grande interesse nella fase di sviluppo economico che si è 
          ora aperta. Sembra quindi dover prevalere l'opinione che altri choc 
          violenti, come i due già sofferti, non dovrebbero prodursi tanto 
          presto e che i fattori riequilibranti, che continueranno ad agire, potrebbero 
          in ogni caso renderli sempre meno probabili. In tal caso la questione 
          energetica perderebbe una buon parte della drammatica incertezza con 
          cui si è presentata a fine 1973, ovviamente restando sempre in 
          essere l'impegno da essa suscitato in tema di investimenti. Si tratta 
          di un impegno molto rilevante non solo per il suo ammontare, ma anche 
          perché l'energia ottenuta da ciascun Paese dalle varie fonti 
          sostitutive del petrolio, specie l'energia nucleare, può essere 
          prodotta in frequenti casi a costi minori di quella da petrolio. Per 
          di più, il costo medio dell'energia disponibile in ciascun Paese 
          può essere diverso, a parità di altre condizioni, a seconda 
          delle proporzioni con cui le varie fonti concorrono a formare tale disponibilità. 
          Si comprende così come il prezzo dell'energia costituirà 
          un elemento di rilievo della situazione concorrenziale che si stabilirà 
          tra le industrie dei Paesi esportatori.
 Passiamo ora al secondo elemento di difficoltà, che è 
          insorto in seguito all'aumento delle esportazioni industriali dei NIC 
          e della politica di esportazione seguita dal Giappone. Il modello di 
          sviluppo di questi Paesi - che chiameremo Paesi industrializzati del 
          Terzo Mondo - riflette il fatto che ogni progresso economico si risolve, 
          per quei Paesi, in aumento di importazioni a saggi che sono il doppio 
          e anche più del saggio di aumento del prodotto interno. Sviluppo 
          vuoi dire infatti maggiore domanda di cibo, di materie prime, di beni 
          strumentali, domanda che nei Paesi di nuova industrializzazione solo 
          per una parte, in genere piccola, può essere soddisfatta dalla 
          produzione interna. Piccola è poi anche la parte dei beni da 
          importare che può essere pagata con il ricavo di prestiti internazionali, 
          quando questi prestiti vengono concessi. Nei modelli di sviluppo dei 
          Paesi in questione si deve quindi dare una priorità assoluta 
          all'acquisizione, con esportazioni, di un ammontare crescente di mezzi 
          di pagamento dall'estero: pena, in caso d'insuccesso, la contrazione 
          brusca e anche l'arresto dei loro programmi. E' nel l'esportazione dei 
          prodotti industriali che questi Paesi cercano, e ancor più cercheranno, 
          la soluzione dei loro problemi, con interventi sui costi e sui prezzi 
          non riconducibili a relazioni tra costi e prezzi, quali sono quelle 
          che in complesso ancora regolano i comportamenti di mercato dei paesi 
          occidentali.
 Nei riguardi di esportazioni fatte a prezzi non sopportabili dal livello 
          e dalla struttura dei costi dell'Occidente industrializzato, lo strumento 
          protezionistico non sembra possa essere sistematicamente utilizzato. 
          E non tanto perché sarebbe in contraddizione con il proposito 
          espresso da anni, in tante sedi, dai Paesi ad alto reddito di volere 
          favorire lo sviluppo dei Paesi a minore reddito; vi è anche da 
          considerare che la crescita dei Paesi industrializzati del Terzo Mondo 
          insieme a quella dei Paesi esportatori di petrolio dovrebbe creare vasti 
          mercati per la produzione manifatturiera dei Paesi che, come il nostro, 
          sono di più antica industrializzazione. Una protezione nei riguardi 
          di quelle produzioni non sarebbe quindi neppure conveniente. Le vie 
          aperte a quei Paesi sono allora altre due: porsi in grado, aumentando 
          la produttività del sistema esistente, di sostenere la concorrenza 
          dei nuovi venuti; oppure passare a nuove produzioni che, in quanto a 
          più alta tecnologia, non sono soggette a quella concorrenza. 
          Ora, i mutamenti intervenuti nella composizione delle esportazioni dei 
          Paesi di antica industrializzazione sembrano indicare che la seconda 
          strada è percorribile e che per i Paesi a più alto reddito 
          rappresenta anzi l'elemento determinante ai fini del conseguimento di 
          ulteriori progressi rispetto ai livelli di reddito già raggiunti.
 Il posto che nei prossimi anni prenderanno i NIC e il Giappone sul mercato 
          internazionale della produzione manifatturiera è peraltro piuttosto 
          controverso. Si farà più aggressiva la loro presenza o 
          avranno essi pure, o parecchi di essi, difficoltà e anche regressi? 
          I NIC si porteranno rapidamente su posizioni tecnologicamente molto 
          avanzate seguendo l'esempio del Giappone, oppure resteranno a lungo 
          su produzioni di livello tecnico non elevato? (7). Al numero oggi non 
          grande di NIC si aggiungeranno altri? Queste incertezze riguardano però 
          solo il breve, e in qualche misura, il medio termine; in una prospettiva 
          decennale, com'è la nostra, sembra di poter prevedere che la 
          presenza sui mercati mondiali dei Paesi in questione sarà nel 
          complesso crescente, specie se farà buoni progressi la riorganizzazione 
          del mercato internazionale dei capitali. Dalla capacità di reazione 
          dei Paesi di antica industrializzazione all'insieme di questi fenomeni 
          dipenderà, a lungo andare, il loro livello di reddito.
 Questa prospettiva comporta gravi impegni, ma non manca di aspetti positivi. 
          Per la prima volta nella storia si va costruendo un mercato veramente 
          mondiale, la cui dimensione apre possibilità di avanzamento, 
          possiamo dire, a tutti i Paesi dotati di un'industria capace di progresso. 
          L'interesse per un simile svolgimento è poi accresciuto dal relativo 
          ristagno delle economie dei Paesi di antica industrializzazione e dall'emergere 
          tra essi di concorrenze e di reciproci protezionismi. Ciò significa 
          che è fuori dall'Europa che vengono oggi i maggiori impulsi allo 
          sviluppo industriale. Ed è in riferimento a questo grande quadro 
          che va considerato anche il problema meridionale.
 Quanto alla intensificazione del progresso tecnologico rispetto a quello 
          già rilevante avutosi prima del 1974 (terzo dei mutamenti indicati 
          in principio), si riconosce generalmente che su questo terreno il nostro 
          Paese si trova in notevole ritardo: il recupero di quei ritardo si presenta 
          in sostanza come un problema di far conseguire al sistema produttivo 
          esistente una struttura più vicina a quella degli altri Paesi 
          di antica industrializzazione. Non sembra però che sia stato 
          preso in considerazione il fatto che il fenomeno ora in esame comporta 
          anche l'identificazione dei modi con cui, nella nostra situazione, può 
          continuare l'industrializzazione del Sud. Non si può certo pensare 
          che produzioni da abbandonare al Nord, perché non suscettibili 
          di essere competitive, possano essere avviate al Sud e in generale non 
          si può fare affidamento, per la soluzione della questione meridionale, 
          sullo sviluppo di produzioni tradizionali. Si darebbe così vita 
          a un nuovo tipo di dualismo (8).
 Veniamo ora alla quarta, grave difficoltà che incontra il progresso 
          economico dei Paesi dell'Occidente europeo: l'inflazione.
 Già negli anni lontani dell'inflazione post-bellica, le ricerche 
          della Svimez misero in rilievo che la società meridionale è, 
          nel nostro Paese, la maggior vittima dell'inflazione. Ciò per 
          due motivi: in primo luogo, vi è il maggior valore che la componente 
          "spesa pubblica" assume nell'economia meridionale; l'ammontare 
          delle risorse destinate a tale spesa non è ovviamente presidiato 
          dalla scala mobile, e in tempo di inflazione il suo valore reale inevitabilmente 
          diminuisce. Vi è, in secondo luogo, il fatto che l'ammontare 
          dei redditi personali fissi (stipendi e pensioni soprattutto) assume 
          nel Sud una proporzione più elevata che nel Nord. Infine, per 
          le aree meno sviluppate, la difesa del valore economico dei patrimoni 
          personali è più difficile che nelle aree sviluppate; e 
          quando questa difesa può essere ottenuta, in gran parte essa 
          si risolve in un trasferimento di capitali verso le aree ricche; in 
          queste, invece, sono rilevanti i profitti da inflazione. In conclusione, 
          in tempo d'inflazione si mette in moto un insieme di forze che determinano 
          un aumento del divario; per converso, la diminuzione del saggio di inflazione 
          è fattore che concorre alla sua riduzione.
 Quanto ai rapporti intercorrenti tra politiche antiflazionistiche e 
          entità del divario, ci imbattiamo di nuovo in un mutamento molto 
          rilevante rispetto alla fase iniziale dell'intervento straordinario. 
          A quel tempo un'azione antiflazionistica si esauriva, se sorretta da 
          una decisa volontà politica, entro un breve periodo. Si ricordi 
          l'intervento effettuato nel nostro Paese nel 1947, che in pochi mesi 
          ricondusse il dollaro da oltre 900 a 625 lire essendosi superata, in 
          quei mesi, anche l'inevitabile crisi di stabilizzazione. Altri numerosi 
          casi del genere si potrebbero ricordare in molti Paesi a partire dal 
          primo dopoguerra, cioé dall'inizio stesso di quella tormentata 
          fase dell'economia mondiale che è caratterizzata dal manifestarsi 
          delle inflazioni e in genere dall'incertezza monetaria.
 Le politiche antinflazionistiche di oggi devono invece svolgersi in 
          modo diverso; il loro successo può essere ottenuto solo modificando 
          condizioni fondamentali di un tipo di processo di sviluppo che comporta 
          inflazione. Per ottenere tali modifiche occorre operare in tre direzioni: 
          contenere l'aumento della spesa pubblica; ottenere determinati comportamenti 
          della forza sindacale; aumentare la produttività di determinate 
          sezioni del sistema. Oggi, dunque, si deve operare non tanto sul terreno 
          monetario, quanto su quello delle scelte politiche. Contenere la spesa 
          pubblica significa effettuare scelte tra settori cui si devono chiedere 
          determinati sacrifici: assistenza sanitaria o istruzione o difesa o 
          protezione di determinate categorie di cittadini, eccetera. Si potrebbe 
          forse dire che, paradossalmente, in una fase della storia del pensiero 
          economico che si caratterizza per l'importanza che viene data alla questione 
          monetaria, sembra ci si sia ridotti al punto che, operando sulla moneta, 
          non si riesce a risanare neppure la moneta. Una simile azione in genere 
          non ha pieno successo in tutte le direzioni in cui viene inizialmente 
          avviata, e in ogni caso richiede del tempo. E infatti, per conseguire 
          il risanamento monetario, si redigono piani a medio termine che sono 
          denominati "piani antinflazionistici" o "di rientro dell'inflazione" 
          o in altro modo, ma che altro non sono che i particolari piani di sviluppo 
          richiesti dal fatto che è menomata, o addirittura caduta, la 
          condizione prima di un durevole sviluppo: la stabilità monetaria.
 Come si colloca in un simile quadro l'azione meridionalistica, e in 
          particolare l'intervento straordinario? Per dare risposta a questo interrogativo 
          occorre partire da un giudizio di ordine politico, che l'esperienza 
          ci dice non essere facilmente recepibile nel nostro Paese: si tratta 
          del fatto che la spesa destinata al Sud, e quindi anche quella relativa 
          all'intervento straordinario, dato il tipo di divario esistente e data 
          la necessità di evitare che esso produca tensioni intollerabili, 
          è una spesa che sarà sempre meno governabile dalle autorità 
          di governo, ove il divario non diminuisca in modo deciso, quanto meno 
          nelle aree nelle quali esso è più rilevante (9). La spesa 
          pubblica, anche quella corrente, non potrà quindi essere facilmente 
          diminuita; essa potrà però essere qualificata orientandola 
          allo sviluppo. Se si avrà, poi, riduzione del divario, significherà 
          che la spesa, razionalizzata, si è per una certa quota convertita 
          da spesa per assistenza in spesa che produce gli effetti di un investimento; 
          in tal caso essa sì classifica tra le spese dirette ad aumentare 
          la produttività del sistema.
 Questa posizione del meridionalismo, secondo la quale la spesa per il 
          Sud, se svolta razionalmente, è investimento e non assistenza, 
          ha oggi maggiori probabilità di essere accolta dal pensiero politico 
          ed economico dei Paesi industrializzati, e quindi anche da noi. Nella 
          situazione che si è delineata nell'economia mondiale dopo il 
          1973, è andato guadagnando favore il pensiero che è all'offerta, 
          e non alla domanda, che va dato il sostegno della politica economica. 
          A questo riguardo va osservato che solo nella breve fase seguita alla 
          fine della guerra, quando nei Paesi di antica industrializzazione vi 
          erano molti disoccupati e, insieme, impianti inattivi, si giustificava 
          una politica di sostegno della domanda così come, tra le due 
          guerre, era giustificata dalla vasta disoccupazione e dalla rilevanza 
          di capitale industriale inutilizzato. Nel dopoguerra, raggiunta una 
          situazione di pieno impiego, il sostegno della domanda al quale, si 
          badi bene, concorreva anche l'azione sindacale - non poteva che promuovere 
          immigrazioni dalle aree sottosviluppate e quindi aggravare in quelle 
          aree le situazioni appunto di sottosviluppo. Un tale svolgimento è 
          osservabile anche nel nostro Paese, se si considerano l'entità 
          del flusso migratorio che si è svolto dal Sud al Nord (10) e 
          il permanere della questione meridionale in un periodo in cui il prodotto 
          nazionale si accresceva con una intensità che non aveva precedenti. 
          Il meridionalismo, con la proposta dell'intervento straordinario, con 
          lo "schema Vanoni", con la richiesta di utilizzo dei tre strumenti 
          dell'incentivo a investire, del credito agevolato e dell'impresa a partecipazione 
          statale, si è, dal dopoguerra, mosso sulla linea dell'offerta, 
          assumendo cioé le posizioni prese poi in tutti i Paesi poveri.
 Questa confluenza sulla linea dell'offerta intesa come adeguamento e 
          potenziamento della struttura produttiva, cui i Paesi ad alto reddito 
          sono stati costretti dagli effetti prodotti sull'economia mondiale dagli 
          choc petroliferi e dall'affermarsi dei NIC, potrebbe però risolversi 
          nel nostro Paese in una concorrenza tra Nord e Sud di cui è facile 
          prevedere l'esito. Ciò potrà evitarsi solo se il modello 
          di sviluppo, che da oltre un secolo (cioé dall'unificazione politica 
          in poi) governa la nostra economia, verrà modificato nel senso 
          di considerare l'esistenza dei divari come il massimo dei nostri problemi.
 Dopo la fine dell'ultimo conflitto, determinati aumenti del prodotto 
          nazionale sono stati a lungo, anche nei programmi di governo, punti 
          di partenza di ogni discorso in tema di sviluppo. Ancora una volta, 
          a tale proposito, lo "schema Vanoni" può essere utilmente 
          ricordato. Si ritenne allora che per il decennio 1955-64 si poteva ipotizzare 
          con fondamento un saggio annuo di aumento del prodotto del 5 per cento. 
          Giova ora precisare che una simile previsione né fu il risultato 
          di complesse elaborazioni, né sollevò grandi incertezze 
          o apprezzabili divergenze in coloro che la effettuarono. Eppure, non 
          vi erano precedenti, anche fuori del nostro Paese, di un progresso tanto 
          intenso per un periodo così lungo. Va aggiunto che non si ebbero 
          in quel decennio particolari politiche ispirate al conseguimento del 
          saggio annuo indicato nello "schema"; eppure, al termine del 
          decennio risultò che, nel periodo, il saggio medio di aumento 
          del prodotto era stato del 5,5 per cento.
 Tutto che indica che un saggio medio annuo del 5 per cento era senza 
          molte difficoltà deducibile da una attenta osservazione della 
          situazione di quel periodo. Lo "schema", che nasce nell'ambiente 
          meridionalistico della Svimez, era in sostanza un avvertimento, che 
          le circostanze successive dovevano mostrare molto fondato, inteso a 
          far presente che per la nostra economia si era iniziato un periodo eccezionalmente 
          favorevole e che, di conseguenza, opportunità senza precedenti 
          si sarebbero offerte per avviare e portare decisamente avanti la riduzione 
          del divario Nord-Sud. Un alto ritmo di aumento del reddito si produsse 
          del resto anche in altre economie industrializzate; non vi fu quindi 
          miracolo economico;
 un miracolo si sarebbe avuto, se in quello slancio dell'economia di 
          cui beneficiavano tutti i Paesi industrializzati si fosse inserita, 
          nel nostro Paese, una decisa e conseguente politica meridionalistica 
          (11).
 La riconsiderazione dell'esperienza dello "schema Vanoni", 
          che risale ai primi anni dell'intervento straordinario, mostra quanto 
          grande sia il mutamento intervenuto rispetto a quel tempo. Adottare 
          schemi di ragionamento quale quello ora esposto è impensabile 
          nella situazione attuale. Nella nuova normalità, che si è 
          delineata dopo il 1973, tutto ciò che le politiche economiche 
          possono cercare di ottenere nel perseguimento dei loro programmi è 
          di trarre il maggior beneficio possibile, ovvero di ridurre il più 
          possibile i danni di accadimenti esterni che profondamente incidono 
          sull'economia del Paese, ma che non sono né prevedibili, né 
          influenzabili, operando nello stesso tempo per il contenimento dell'inflazione. 
          La massimizzazione del prodotto continuerà, ovviamente, a orientare 
          tutte queste azioni con un risultato, in termini appunto di prodotto, 
          che è quello, non prevedibile, consentito dal sovrapporsi di 
          diverse azioni. Previsioni sull'andamento del prodotto non sono dunque 
          possibili, neppure a breve termine. Vi è però un procedimento 
          che è applicabile nei processi decisionali che si svolgono nelle 
          condizioni ora descritte; esso consiste nella valutazione degli estremi 
          entro i quali l'aumento del prodotto può ragionevolmente collocarsi 
          e nel considerare i diversi sviluppi che, tra questi estremi, possono 
          aver luogo.
 Quanto ai valori che nell'arco decennale possono essere attribuiti ai 
          due estremi, va considerato che i due grandi cambiamenti - aumento del 
          prezzo del petrolio e intensità del progresso industriale di 
          alcuni Paesi extra-europei (12) - che hanno tanto sconvolto l'economia 
          mondiale, dovrebbero dar luogo a una rilevante e durevole espansione 
          della domanda di importazione di prodotti industriali. Come abbiamo 
          già detto (13), i mercati dei Paesi dell'Occidente europeo, che 
          a suo tempo fornirono impulsi tanto rilevanti alla nostra espansione 
          industriale, possono invece offrire solo uno sbocco di proporzioni minori 
          rispetto a quelle del passato. In Europa la nostra industria troverà 
          protezionismi, più che ulteriori integrazioni. Per di più, 
          i Paesi europei saranno tra i nostri più temibili concorrenti 
          sui mercati extra-europei nell'offerta di prodotti di alta tecnologia, 
          che per un volume crescente saranno richiesti, presumibilmente, nei 
          prossimi anni.
 Comunque, pur nel declino del mercato europeo, il volume complessivo 
          del commercio internazionale dei prodotti industriali dovrebbe accrescersi 
          - anche se, è da ritenere, ad un ritmo meno intenso di quello 
          degli anni precedenti il 1974 - soprattutto dopo superate le conseguenze 
          del secondo choc petrolifero; crisi nei singoli Paesi esportatori di 
          prodotti industriali saranno quindi conseguenze non tanto di mancanza 
          di sbocchi, quanto di insufficiente capacità di acquisizione 
          di quote di un mercato che sarà in espansione.
 Ciò premesso, quanto al futuro aumento del nostro prodotto interno, 
          sia l'esperienza compiuta nei sette anni trascorsi dal primo choc petrolifero, 
          sia la natura dei problemi che più impegnano oggi l'Occidente 
          europeo fanno ritenere plausibile l'ipotesi che esso non possa aumentare, 
          nel decennio 1982-91, a un saggio in media superiore al 4 per cento. 
          Non dovrebbe, però, neppure diminuire rispetto ai livelli attuali. 
          Quali aumenti di occupazione si possono attendere da svolgimenti compresi 
          tra questi due estremi? Data la situazione di concorrenza in cui sarà 
          posto il nostro Paese, per rispondere a questo interrogativo dobbiamo 
          considerare prima i vincoli che ci sono posti dalle questioni di produttività.
 Nel settennio 1974-80 la produttività del sistema è aumentata, 
          nel nostro Paese, al saggio medio del 2 per cento; l'aumento fu lievemente 
          inferiore (1,8 per cento) nel Sud. Un saggio simile e rilevabile, in 
          media, anche nel complesso degli altri Paesi della CEE. Per la Francia 
          il saggio fu del 2,5 per cento e per la Germania Federale del 3 per 
          cento. Poiché nel complesso dei Paesi CEE l'occupazione non ècerto 
          aumentata, si può in prima approssimazione ritenere che il nostro 
          prodotto interno lordo deve aumentare in media a saggi superiori al 
          2 per cento perché possa aversi creazione di posti di lavoro. 
          Ma, se è vero che la domanda di prodotti industriali è 
          destinata ad aumentare notevolmente da parte dei Paesi extra-europei, 
          la quota di mercato che potrà essere acquisita e quindi la convenienza 
          a creare posti di lavoro sarà tanto più elevata quanto 
          maggiore sarà l'incremento di produttività conseguito 
          dal sistema.
 In conclusione, è solo in un intenso aumento di produttività 
          che va comunque ricercato - in una prospettiva certo non di breve e 
          medio periodo - quell'aumento dei posti di lavoro che, se gestito in 
          modo diverso da quello degli anni del miracolo, può portare a 
          soluzione la questione meridionale. Se ben si riflette, questo obiettivo 
          si impone ancor più che in passato. Non si può infatti 
          pensare a un futuro della nostra società nel quale la parte più 
          estesa del Paese continui a progredire ai ritmi elevati dell'industria 
          europea, mentre una parte minore non sia neppure in grado di progredire 
          su posizioni verso cui si muovono in questi anni Paesi che noi oggi 
          giudichiamo arretrati. Nella situazione odierna, il permanere indefinito 
          del dualismo, come è avvenuto fino a questo momento, si deve 
          ritenere politicamente impossibile.
 Vediamo ora come si presenta l'economia del Sud di fronte a simili prospettive.
 Per effetto dei profondi mutamenti intervenuti nell'area meridionale 
          nel corso del trentennio di intervento straordinario, si sono determinati 
          all'interno dell'area divari interregionali più rilevanti di 
          quelli esistenti all'inizio dell'intervento. Basti dire che il prodotto 
          delle province meridionali a più alto reddito è del 50 
          per cento circa più alto di quello delle province più 
          povere. Trattare in termini generali un problema del Sud è oggi 
          molto meno giustificato che nella prima fase dell'intervento.
 Un'indagine è stata svolta al riguardo dalla Svimez in riferimento 
          alla situazione delle singole province, essendo la provincia risultata 
          la più piccola entità territoriale suscettibile di una 
          significativa rilevazione (14). L'indagine ha consentito In primo luogo 
          di costruire una tipologia delle aree componenti il Sud, che ci sembra 
          una buona base di partenza per ulteriori approfondimenti; si sono così 
          identificate sette categorie di aree, riunibili in tre grandi gruppi. 
          Le province meridionali sono state poi ripartite tra le sette categorie. 
          Ne è risultato il quadro esposto nella tabella. Il primo gruppo 
          comprende tre categorie: la prima categoria include le province il cui 
          prodotto lordo è più elevato e il cui progresso industriale 
          è, nel complesso, continuato anche dopo il primo choc petrolifero; 
          le aree della seconda categoria si caratterizzano per la presenza di 
          unità produttive di maggiore dimensione, e quindi per un certo 
          rallentamento che negli scorsi anni si è prodotto in un tipo 
          di progresso che era stato incentivato dagli investimenti appunto in 
          grandi impianti. Nella terza categoria, infine, figurano province il 
          cui prodotto è inferiore a quello delle province incluse nelle 
          prime due categorie, ma nelle quali in epoca più recente si è 
          delineato un vivace processo di sviluppo.
 
 Queste tre categorie 
          possono formare il gruppo di province nelle quali il cosiddetto "decollo" 
          si può dire avvenuto; se ulteriori indagini dovessero confermare 
          questo giudizio, noi ci troveremmo in presenza di un'area nella quale 
          vive il 23 per cento della popolazione meridionale e nei cui riguardi 
          hanno perso gran parte della loro validità i discorsi fin qui 
          fatti in riferimento a una generica "realtà Sud". Basti 
          dire che il prodotto pro-capite vi ha raggiunto livelli mediamente superiori 
          all'80 per cento di quello delle province non meridionali confinanti 
          con il Mezzogiorno, le quali non vengono certo incluse tra le aree da 
          sviluppare. Si tratta pur sempre di aree in corso di sviluppo e che 
          richiedono quindi di essere ancora oggetto della politica meridionalistica; 
          tale politica dovrà però avere connotazioni vicine a quelle 
          tipiche delle aree industrializzate.Il secondo gruppo, costituito dalle aree metropolitane, ha un quinto 
          della popolazione meridionale nella sola Napoli, con problemi di fondo 
          aggravati dal sisma del novembre 1980. Nel terzo gruppo, le province 
          col 44 per cento della popolazione del Sud, nelle quali i divari sono 
          marcatamente accentuati. La Calabria, com'è noto, fa storia a 
          sé.
 In questo quadro, colpisce anzitutto la grande varietà delle 
          situazioni, nei cui confronti deve ora svolgersi l'intervento straordinario; 
          varietà che l'ulteriore sviluppo economico tenderà ad 
          accentuare, in mancanza di adeguate azioni riequilibratici. Le aree 
          del primo gruppo possiedono le condizioni necessarie per ulteriori progressi. 
          Basti pensare che alcune di esse sono diventate aree di immigrazione. 
          Per le aree del terzo gruppo è da temere che una simile prospettiva 
          non esista. Poi, il futuro delle aree caratterizzate dalla presenza 
          di grandi impianti - quelle per le quali venne coniata l'immagine della 
          "cattedrale nel deserto" (15) - dipende in notevole misura 
          dall'evolversi della crisi delle produzioni svolte da quegli impianti 
          e dai criteri con cui la crisi sarà gestita in sede comunitaria 
          e in sede nazionale.
 Occorre però sottolineare che l'estesa differenziazione che oggi 
          è possibile fare tra le aree componenti l'economia meridionale 
          è pur sempre un indice di rilevanti progressi compiuti in trent'anni 
          di intervento straordinario. Il progresso è stato tuttavia determinato 
          più dall'impeto dello sviluppo avvenuto nel periodo che dalle 
          politiche che si sono svolte. Se a saggi di crescita così intensi 
          si fosse unita una più decisa opzione meridionalista, il divario 
          Nord-Sud oggi sarebbe minore e soprattutto minori sarebbero gli squilibri 
          interni all'area meridionale.
 L'epoca dello sviluppo spontaneamente impetuoso sembra però tramontata. 
          Nella nuova fase, apertasi dal 1974, il progresso economico è 
          divenuto più lento e al tempo stesso più difficile da 
          gestire. Vi è quindi il rischio che, in assenza di politiche 
          efficienti, il divario, anziché diminuire, aumenti. Il fatto 
          che vi siano ora, all'interno del Sud, divari tanto rilevanti, legittima 
          il timore che in tale eventualità il ritardo non si presenterà 
          diffuso in tutto il Mezzogiorno, ma si concentrerà nelle aree 
          che, secondo i dati su indicati, più devono progredire. E va 
          anche detto che oggi, come all'inizio dell'intervento straordinario, 
          è solo l'occupazione industriale che può portare a soluzione 
          il problema di quelle aree (16). Il resto conta poco.
 NOTE
 1) Un tentativo di rendiconto è in atto presso la Svimez con 
          l'indagine sul tema "Trent'anni di intervento straordinario attraverso 
          i bilanci della Cassa per il Mezzogiorno". I trenta bilanci sono 
          stati classificati secondo un unico schema e i valori così determinati 
          sono stati convertiti in lire 1980; viene ora iniziato l'esame della 
          gestione dell'insieme del trentennio, cui seguirà una ricerca 
          più analitica su ciascuno dei quattro periodi delimitati dalle 
          scadenze delle leggi di proroga dell'intervento.
 2) Emblematica della "necessaria" mutevolezza delle norme 
          che regolano l'intervento è la recente vicenda legislativa, relativa 
          a una disciplina organica degli interventi in favore dei territori colpiti 
          dal sisma del novembre 1980. In sede di conversione in legge del DL 
          19 marzo 1981, n. 75, recante ulteriori interventi pubblici per le zone 
          terremotate, il Parlamento ha proceduto infatti a una radicale trasformazione 
          di tutto l'assetto, normativo e istituzionale, delle misure adottate 
          in precedenza. Di rilevante importanza, sotto tale profilo, le norme 
          (artt. 80-84 della legge 14 maggio 1981, n. 219) relative all'intervento 
          statale per l'edilizia a Napoli. Si tratta di un complesso di norme, 
          radicalmente innovatrici, che, sotto il profilo dell'unificazione delle 
          competenze e della semplificazione delle procedure, nonché sotto 
          quello della celerità di esecuzione, fanno assumere ad un programma 
          straordinario di edilizia residenziale per la costruzione nell'area 
          metropolitana di Napoli di 20.000 alloggi, e delle relative opere di 
          urbanizzazione, di cui è prevista la realizzazione, la natura 
          di "progetto speciale". Basti richiamare, al riguardo, l'attribuzione 
          al sindaco di Napoli e al Presidente della Regione della qualità 
          di "commissari straordinari di governo", i quali, nell'agire 
          in tale veste, "sono soggetti soltanto alle norme di cui al presente 
          Titolo (e cioé agli artt. 80-84 della legge), della Costituzione 
          e dei principi generali dell'ordinamento".
 3) A formare il numero 1.500.000 unità indicato nel testo concorre, 
          tra le altre, l'ipotesi che il tasso di disoccupazione del Sud si riduca 
          da oltre l'11% del 1980 al 6% alla fine del decennio, tasso uguale a 
          quello rilevabile in media oggi nella CEE. Il tasso adottato è 
          più alto di quello del 3-4% generalmente accettato in passato 
          quale soglia della disoccupazione frizionale: questa variazione è 
          consigliata dalle difficoltà che presenteranno i processi di 
          razionalizzazione che devono svolgersi nei prossimi anni nei Paesi CEE. 
          Il tasso del 6% corrisponde però ad una valutazione ottimistica 
          delle prospettive di occupazione; diverse fonti indicano, infatti, la 
          possibilità nei prossimi anni di una disoccupazione superiore.
 4) Gli addetti all'agricoltura, nel 1954, erano 8 milioni, di cui 3,4 
          milioni nel Sud e 4,6 nel Centro-Nord. Nel 1980 erano 2,8 milioni, di 
          cui 1,5 nel Sud e 1,3 nel Centro-Nord. La diminuzione è stata 
          di 5,2 milioni, di cui 1,9 nel Sud e 3,3 nel Centro e nel Nord.
 5) Vedi par. 5.
 6) Nel gruppo dei NIC extra-europei si includono qui Brasile, Messico 
          e Paesi del Sud-Est asiatico. Ad essi sono comunemente aggiunti Spagna, 
          Portogallo, Jugoslavia, Grecia. Ai nostri fini èpreferibile considerare 
          solo il complesso dei Paesi extra-europei.
 7) Si noti, riguardo a questa alternativa, che sono gli stessi Paesi 
          di antica industrializzazione che, esportando macchinario, favoriscono 
          il sorgere di nuove concorrenze da parte dei Paesi emergenti.
 8) Va respinta la categoria di Paesi o di aree "in ritardo" 
          per i quali si renderebbe necessario seguire vie di sviluppo specifiche, 
          in relazione alla loro condizione di aree meno progredite. Ciò 
          che importa è distinguere tra aree, anche a basso reddito, che 
          progrediscono perché stanno appropriandosi tecniche del mondo 
          contemporaneo e Paesi e aree che, pur definibili progrediti fino a ieri, 
          oggi non vi riescono. E la storia contemporanea mostra che Paesi della 
          prima categoria possono essere tutt'altro che in ritardo nell'accogliere 
          le nuove tecniche; in particolare non ritengono, per il fatto di essere 
          agli inizi dello sviluppo, di limitarsi all'agricoltura, all'artigianato 
          e altro, trascurando l'industria. Che senso avrebbe avuto, del resto, 
          chiamare "in ritardo" l'economia giapponese degli inizi del 
          secolo?
 9) Vedi par. 6
 10) Nel trentennio 1951-80 dell'intervento straordinario sono emigrate 
          dal Sud 4,7 milioni di persone, di cui 2,9 milioni nel Nord.
 11) In base alle considerazioni svolte nel testo, si può quindi 
          dire che il vero obiettivo dello "schema" fu l'aumento dell'occupazione 
          e l'avvio deciso del l'industrializzazione del Mezzogiorno; più 
          precisamente, si previde la possibilità di creare quattro milioni 
          di posti di lavoro extra-agricoli da localizzarsi, per una quota importante, 
          nel Sud. L'aumento dei posti di lavoro extra-agricoli fu però 
          solo di 2,6 milioni: 1,9 milioni localizzati nel Centro-Nord, e 0,7 
          (proporzione inferiore alla popolazione meridionale) nel Sud. Dal Mezzogiorno 
          emigrarono nel decennio 2,4 milioni di persone, di cui 1,3 milioni nel 
          Centro-Nord e 1,1 milioni all'estero. Il divario, anziché diminuire, 
          aumentò, sia pure lievemente. Il saggio di aumento annuo del 
          prodotto, che fu, com'è detto, del 5,5%, si ripartì infatti 
          così: nel Centro-Nord 5,8%; nel Sud, 4,8%. Gli investimenti, 
          dovuti in buona parte a reinvestimenti di profitti, si accrebbero in 
          misura rilevante; ma furono destinati ad aumento della produttività 
          degli occupati e non, come richiesto, alla creazione di posti di lavoro 
          per i disoccupati, che in gran parte, anche allora, risiedevano nel 
          Sud.
 12) Ai fini di un confronto tra l'andamento dei Paesi di nuova industrializzazione 
          e quelli di antica, occorre riferirsi al periodo 1971-79, non essendo 
          disponibili i dati per il settennio 1974-80. Ora i tassi di crescita 
          risultano i seguenti per il periodo 1971-79: Italia 3,0; Germania Federale 
          3,0; Francia 3,8; USA 3,2; Giappone 5,4; Messico 5,0; Brasile 9,2; Taiwan 
          8,0; Sud Corea 9,7.
 13) Vedi par. 3.
 14) L'indagine è di P. Guglielmetti e R. Imbruglia.
 15) Sull'immagine - non priva di successo - della "cattedrale nel 
          deserto", v. P. Saraceno, Cattedrali nel deserto?, in "Nord 
          e Sud", n. 1, 1980.
 16) Alle numerose raccomandazioni, che nel corso dei decenni gli esperti 
          hanno formulato, si è aggiunta recentemente, per dar soluzione 
          alla questione meridionale, dopo il richiamo alle politiche di volta 
          in volta offerte dal l'agricoltura, dal turismo, dall'artigianato, anche 
          quella sull'importanza assunta dal terziario. Si dimentica, però, 
          nel dare questo non illuminante contributo, che gran parte del terziario 
          non progredisce in sé come può progredire la produzione 
          del grano o dei trattori; occorre vi sia un'attività che chiameremo 
          "originaria" perché il terziario si affermi. Poco terziario 
          è infatti richiesto dalle gestioni assistenziali e dalle rilevazioni 
          sui disoccupati: l'avvertimento che con il progresso tecnico si sarebbe 
          accresciuta la proporzione dei colletti bianchi sui colletti blu, dentro 
          e fuori la fabbrica, venne fatta dal Taylor nel lontano 1903 ed è 
          giunto da gran tempo anche nel Mezzogiorno.
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