| Coetaneo di Franco 
          Fortini, di tre anni più giovane di Vittorio Bodini, di un anno 
          più anziano di Franco Matacotta, il quale si forma come poeta 
          nell'esperienza bruciante della Resistenza, Nerio Tebano (1) esordisce 
          come poeta nel 1952 - un anno prima dell'apparizione dell'antologia 
          di P. Chiara e L. Erba, Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954) 
          (2) e - con una raccolta di versi i cui materiali sono ricavati dalla 
          guerra e dalla Resistenza.Erano già apparse, quando La lunga notte fu data alla luce, le 
          raccolte di F. Fortini, Foglio di via (1946), di E.F. Accrocca, Caserma 
          1950 (1951), di F. Matacotta, Fisarmonica rossa (1945), ed era anche 
          apparsa una prima e sommaria proposta della giovane poesia con la raccolta 
          antologica Nuovi Poeti (1950) di Ugo Fasolo (3), il quale aveva messo 
          insieme diciotto poeti in vario modo rappresentativi delle nuovissime 
          - se così può dirsi tendenze della lirica italiana venuta 
          dopo la guerra ed interessata ad una "ripresa di umanesimo".
 La lunga notte (4) di Nerio Tebano vinse, nel 1952, con il titolo Ora 
          che l'odio è sfumato, il premio "G. Marradi" per la 
          poesia inedita e fu data alla luce l'anno successivo, finalista per 
          l'"Opera prima" a Viareggio, dall'Editoriale Kursaal di Firenze 
          (5).
 Circola in questa raccolta, che interessò i giudici del "Marradi" 
          e s'eleva molto al di sopra della media della poesia resistenziale italiana 
          - non ricca di testimonianze significative -, ed europea (6) - i cui 
          esponenti, si fa il caso di quella francese con Eluard ed Aragon e della 
          olandese, con il Canzoniere dei pezzenti, sono tra i nomi più 
          prestigiosi della poesia contemporanea -, il senso di una realtà 
          umana e civile che esprime, avendo superato con fede la tragedia della 
          guerra, quel fondo di bontà dell'animo umano cui, nei momenti 
          più sinistri della storia, quando più rovinosa è 
          la caduta delle capacità effettive e razionali dell'uomo, questo 
          può sempre aggrapparsi, sicuro di poter recuperare alla vita 
          dei sentimenti se stesso, la propria, indefettibile, nozione di umanità. 
          Non era ancora spenta, nel 1952, l'eco degli orrori del conflitto, ma 
          se ne era attenuata la tensione emozionale, ed i materiali poetici introdotti 
          da Tebano nella sua poesia, in fondo, riflettevano quel mondo tragico 
          di violenza e di morte nella cui torbida fiammata sembrava che si fossero 
          inceneriti i destini di una cultura, quella europea, di una generazione 
          attonita e di una intera razza.
 Sgomento, di fronte a questo rogo immane, Tebano aveva visto compiersi 
          anche il destino della propria giovinezza, riportandone una pena immedicabile, 
          espressa, adesso, con profondi accenti di dolore. Posto al cospetto 
          della propria coscienza, con nel cuore la memoria di una maceria di 
          corpi sanguinanti e di anime disperate, Tebano, ripercorrendo la propria 
          storia, rinveniva nella poesia il filo conduttore, da svolgere con la 
          sofferenza dell'anima piagata, con il quale incamminarsi sulla strada 
          di una pietas nel cui tenero alvo restaurare il sentimento, dissipato, 
          dell'umanità.
 Ed è per questo che pur tra tanto orrore - e ne è segno 
          inequivocabile un aggettivo, "nero", che insistentemente torna 
          con la sua lugubre semanticità a ribadire una condizione spirituale 
          di estrema disperazione -, s'intravedono, qua e là, in La lunga 
          notte (7), i segni di una speranza che, sia pure fiocamente, è 
          riuscita a sopravvivere, incoraggiando il combattente ed il resistente, 
          spettatore e passivo protagonista di crudeltà e massacri. La 
          cupa amarezza degli "inutili" uomini selvaggiamente scagliati 
          nella rapinosa tormenta della guerra, trascinati da questa nei santuari 
          europei del dolore, non raffrena l'umanità stanca, rassegnatamente 
          sconfitta, presente in questi versi tramati d'angoscia, intessuti di 
          dolore, ma incita quest'umanità a risollevarsi allo scopo di 
          recuperare quella dignità che è patrimonio di ogni uomo, 
          che in ogni uomo rappresenta la tensione per risalire in superficie 
          dal cupo baratro dell'avvilimento e della morte dell'anima disfatta.
 Ed ecco, in La lunga notte, tra i materiali poetici più incisivi, 
          e si direbbe più letterariamente incisivi, quelli che più 
          teneramente fanno presa con la mozione dei sentimenti che suscitano, 
          sulle sensibilità mortificate: i bambini, momento albale della 
          vita, sia pure nell'atmosfera tragica delle atroci mutilazioni e della 
          morte; i fiori, poi, maltrattati dai corpi dei caduti e falciati dalla 
          raffica inclemente; il pianto della madre, la quale "ogni sera 
          disegnava / con la mano antica / un gran segno di croce / sulla terra 
          nuda" - dove va sottolineata, con la commossa proiezione semantica 
          dell'"antica" che assomma tutto il dolore della terra, la 
          ieratica solennità dell'immagine -; il lamento, infine, per il 
          vinto, dove anche l'immagine di sapore arcadico ("grappoli di stelle") 
          assume, nel contesto nel quale è situata, atteggiamenti di disfatta. 
          In un clima da Spoon River, nel quale alcuni caduti narrano la loro 
          storia penosa, Tebano tenta, disperatamente, di "ritrovare l'infanzia 
          del mondo", una situazione di purezza e di perdono, di consapevole 
          serenità, nella quale far tesoro, traducendoli in crescita di 
          umanità, dei dolori visti e patiti.
 Mondo di povera gente (8), del 1955, che si giova di un'affettuosa prefazione 
          di Tommaso Fiore, si salda a La lunga notte mediante una breve silloge, 
          che funge da cerniera, di poesia, del biennio 1953-54, dal titolo "Giunta 
          a La lunga notte", nelle quali Tebano riaccende, con accenti commossi 
          ma più placati nella consapevolezza storica degli eventi sui 
          quali il tempo va sedimentando la riflessione, i motivi' tragici della 
          guerra e della Resistenza. Questi assumono, nell'atmosfera di Mondo 
          di povera gente, una funzione di mediazione tra il poeta, reduce dal 
          conflitto ed alla ricerca di una propria identità civile ed intellettuale, 
          e la frammentata umanità cui il poeta si trova ad aderire nella 
          sua città.
 Corrono, tra il 1948 ed il 1952, quando le poesie di Mondo di povera 
          gente sono scritte, gli anni in cui prende l'avvio ed assume toni incandescenti 
          in ordine alle diverse scelte di campo sotto il segno della democrazia, 
          il dibattito politico in Italia. Tebano, al quale le vicissitudini della 
          guerra hanno indicato dove affondare lo sguardo per restaurare la propria 
          umanità offesa, cerca, e riconosce, i suoi oggetti poetici nella 
          dimensione, trita e quotidiana, di una fascia sociale destoricizzata, 
          di reietti e di esclusi, di anonimi, così come anonimi, in fondo, 
          erano gli uomini che prima, in guerra, sui diversi fronti furono chiamati 
          a sacrificarsi per ideali che non appartenevano loro e, dopo, nel corso 
          della Resistenza, s'immolarono per un vero ideale, quello della libertà 
          e della giustizia sociale da consegnare al Paese e all'Europa.
 Non c'è, allora, sul piano dell'umanità protagonista, 
          alcuna soluzione di continuità tra La lunga notte e Mondo di 
          povera gente: dove, d'altro canto, appare una qualità letteraria 
          che chiaramente si enuclea da una tradizione poetica dalle radici crepuscolari. 
          Laddove La lunga notte nasceva d'impeto sotto l'urgenza di un'esperienza 
          storica totalizzante, incapace di lasciare spazio alcuno alla mediazione 
          letteraria, questa, invece, interviene, con le sue proposte di timbro 
          culturale, in Mondo di povera gente, che non per questo comunque sembra 
          meno genuino nelle scelte tematiche e nell'intensità della resa 
          lirica. Tant'è vero che, passando per il filtro di una sensibilità 
          vigile, e carica di significati umani nello stesso tempo, Mondo di povera 
          gente evita accuratamente il rischio, in quegli anni sempre incombente 
          in ogni esercizio poetico, del populismo fatuo ed inconseguente sul 
          piano della testimonianza.
 Crepuscolari, infatti, sono certe atmosfere povere, fruste, certi ambienti 
          logorati dalla consuetudine, certe figure umbratili ed evanescenti, 
          appena emergenti da una dimessa penombra nella quale si consumano i 
          piccoli ed insignificanti drammi di una umanità priva di passato 
          e, dunque, priva di futuro.
 
 Una umanità, 
          peraltro, che, se anche accenna a lottare, ma è improbabile che 
          lo faccia per inveterata acquiescenza al sacrificio, sa di dover essere 
          sconfitta. Perché, senza dubbio, questa che Tebano chiama, in 
          Mondo di povera gente, a rappresentare coralmente il dramma della vita 
          - emigranti, vecchi, braccianti, carcerati, vagabondi, suicidi, diseredati, 
          tristi pagliacci di circo di periferia, esistenzialisti, bambini di 
          quartiere proletario che giocano tra i rifiuti, pescatori, donne del 
          popolo -, è una umanità di vinti, i quali non hanno nulla 
          da aspettarsi dalla società che li ha brutalmente emarginati.Ovviamente, il sentimento che prevale, in Mondo di povera gente, è 
          un tetro pessimismo cui non restano estranei, talvolta, nitidi echi 
          letterari, le cui motivazioni di fondo, tuttavia, sono sorvegliatamente 
          umane, che scaturiscono, a loro volta, dalla riflessione maturata sulle 
          esperienze di guerra. Si tratta del pessimismo che grava, come una grigia 
          coltre, nelle nude ed anonime camere d'albergo, nei vicoli deserti delle 
          incolori periferie, sulla noia della quale sono appesantiti i pomeriggi 
          domenicali, sui quartieri popolari. Nella insistita predilezione per 
          queste atmosfere appartate e deserte, malinconiche ed annoiate, certa 
          umanità vagola come ai margini della società ed il poeta 
          ne coglie i momenti di più avvilito abbandono.
 In una "Spiaggia dei poveri" il poeta è colpito da 
          " ... una collina di rottami abbandonati, / nei pressi di un binario 
          morto / della vecchia stazione ... ", dove la ritmica successione 
          dei tre elementi (abbandonati, morto, vecchia) determina il clima nel 
          quale si svolge la vita sulla spiaggia dei poveri.
 Si ripresenta, tuttavia, in questa raccolta di poesie l'aggettivo "antico" 
          a ricreare un'atmosfera, come già in La lunga notte, cara a Tebano, 
          il quale da quest'aggettivo riesce a ricavare risonanze ambientali e 
          sentimentali molto profonde: "ulivo antico", "grembo 
          antico", "odore antico di terra", "...la luna/ - 
          bella come una favola antica - ...", "l'antica / voce dei 
          pescatori", "sortilegio antico". C'è, in questi 
          sintagmi che coprono tutta una serie di ipotesi della realtà 
          che cade sotto l'osservazione del poeta, il segno di un tempo remotissimo, 
          quasi primordiale, che il poeta si sforza di recuperare onde riconoscere 
          alla sua umanità mortificata (" ... / T'accorgi allora che, 
          se sorride, / è fatto di dolore anche il sorriso ... ") 
          una storia la cui dignità non è inferiore a quella dei 
          protagonisti della storia ufficiale. Anzi, mentre questa ha confini 
          temporali ben determinati, quella dei poveri è sconfinata e comprende 
          tutti i valori dell'umanità.
 Ed è in quest'atmosfera destoricizzata che si colloca anche la 
          figura del padre del poeta ed il commosso ricordo della sua morte serena, 
          cui il poeta dedica un'intera sezione di Mondo di povera gente. L'evento 
          della morte del padre, nella situazione psicologica del poeta, d'altronde, 
          non può non assumere un valore, al di là di quello effettivo, 
          anche emblematico: quella morte rappresenta, per un poeta fortemente 
          legato alle sue origini culturali, la perdita delle radici vitali, il 
          penoso distacco dalla luminosa città dell'anima, dal luogo nel 
          quale gli affetti più profondi sono stati allevati ed ora sono 
          stati brutalmente recisi. Tuttavia la morte, anche in questo caso, non 
          ha nulla di lugubre, ma è la calma contemplazione di una verità 
          ineluttabile dalla cui lezione il poeta ricava gli stimoli vitali per 
          procedere sulla strada della conoscenza e, se possibile, su quella della 
          saggezza. Anche alla madre, infatti, anch'essa figura-simbolo di serena 
          compostezza, sono dedicate alcune liriche nelle quali vige, soprattutto, 
          il senso della terra, della patria interiore nella quale soltanto l'anima 
          può avvertire il fremito dell'umanità.
 C'è, che ritorna con una certa insistenza nella terza raccolta 
          di poesie di Tebano, Da un ponte sul Po (9); un motivo che può 
          essere considerato come l'atmosfera entro la quale tutta la raccolta 
          è calata e dalla quale essa trae poi gli elementi civili e morali, 
          intorno ai quali unitariamente si svolge tutta la ricerca poetica. Il 
          motivo, che ha un precedente cospicuo, come un'anticipazione o un presagio, 
          in Mondo di povera gente, in particolare nella lirica "Camere d'albergo", 
          è quello delle camere d'affitto nelle quali l'emigrato, sradicato 
          dalla sua terra, conduce la sua grigia esistenza, privo di speranze 
          e, quel che è peggio, privo d'affetti.
 Nel 1955, infatti, Tebano si trasferisce a Torino - vi rimarrà 
          fino al 1958 - dove per vivere fa di tutto: rappresentante di libri, 
          notista letterario, correttore di bozze, collaboratore di terza pagina 
          e vice della rubrica cinematografica per l'edizione torinese de "l'Unità", 
          sulla quale, d'altro canto, pubblica alcuni brevi racconti dal taglio 
          molto preciso. A Torino, inoltre, dove ha contatti con Calvino, Levi, 
          Pavese, prende a frequentare gli artisti della Galleria "Stanglino", 
          dove conosce Spazzapan, Amedeo Ugolini, Bona De Pisis, André 
          de Mandiargues. Tra il 1957 ed il 1958, infine, viaggia come inviato 
          speciale de "La Gazzetta del Popolo" di Torino.
 Si tratta, senza dubbio, di esperienze - che Tebano compie - umane ed 
          intellettuali convenientemente assimilate ed estremamente stimolanti 
          che, tuttavia, hanno richiesto e continuano a richiedere alcune pesanti 
          scelte ed un certo prezzo. Questo, nella condizione di Tebano, uomo 
          del Sud, ricco di tutta la carica solare e mediterranea dalla quale 
          il Sud trae la vita dell'anima, non può non essere quello dello 
          sradicamento, sofferto al pari di una condanna. Che, in fondo, è 
          imposta, in quegli anni, ad una sterminata legione di meridionali i 
          quali tentano all'estero o in Italia, nelle plumbee periferie delle 
          megalopoli industriali del Nord, l'umiliante calvario della ricerca 
          di un lavoro cui il Sud, lasciato dopo la fine del conflitto in condizioni 
          d'arretratezza, non ha saputo provvedere.
 Anche Tebano, al seguito del flusso migratorio - emigrante di diversa 
          condizione -, è salito sul treno della speranza, diretto a Torino, 
          per tentare un'avventura esistenziale ed intellettuale al culmine della 
          quale, comunque, egli si ritroverà con un gruzzolo di corroboranti 
          esperienze in più, sul piano umano non meno che su quello intellettuale.
 Le camere d'affitto, pertanto, la loro atmosfera anonima ed ostile nella 
          quale si dissipa l'anima dell'emigrante pervasa dalla tristezza, connotano, 
          con la realtà squallida della quale sono l'emblema, questo momento 
          della vita di Tebano, cui corrisponde, sul piano della memoria e del 
          rimpianto, il momento della casa e degli affetti lontani, il senso della 
          pienezza - come risvolto del vuoto sentimentale che Torino, pur bella 
          e feconda di occasioni, rappresenta - che urge nell'anima come ricordo 
          ineffabile e struggente. Sentimento della solitudine, dunque, frustrazione 
          per una condizione esistenziale subita più che scelta, senso 
          della fuga di fronte ad una realtà sociale ed economica nemica, 
          amarezza per l'incomprensione di un mondo, e di una cultura, quello 
          torinese, nel quale non è agevole penetrare: sono questi, adesso, 
          gli esponenti storici e spirituali presenti nella poesia di Tebano. 
          Che, data l'esperienza in prima persona compiuta dal poeta, si carica 
          di significati universali.
 In virtù di una tale situazione, il ritmo poetico, in Da un ponte 
          sul Po, non può non configurarsi come ritmo discorsivo, aspirazione 
          ad una accorta colloquialità stemperata nel calore umano del 
          quale il poeta s'avverte disperatamente privo. Ritmo, dunque, discorsivamente 
          quotidiano, vigile per le minute cose d'ogni giorno, quelle con le quali 
          l'emigrato, impacciato e spaesato, ingenuo e sfiduciato, rifiutato nella 
          maggior parte dei casi, si trova a doversi confrontare (10). Ed è 
          per questo che la parola in Da un ponte sul Po, dimessa, umile, rivela 
          una sua castità, una sua trepidante purezza, che è, in 
          fondo, la purezza dei sentimenti che esprime. Ma ecco le camere d'affitto: 
          " ... /Non so dire la solitudine / delle camere d'affitto, / lo 
          squallore ... ", e ancora: " ... / Dimenticare, / qualche 
          giorno, / la muffa e la solitudine / delle camere d'affitto ... ", 
          e ancora " ... / Che tristezza, / una camera d'affitto! ... ". 
          L'atmosfera, sul piano letterario, è d'impronta crepuscolare, 
          e se ne erano avute interessanti anticipazioni in Mondo di povera gente, 
          dove Tebano aveva teso a scavare, come farà poi anche in Da un 
          ponte sul Po, nel quotidiano di una vita usurata dal bisogno, intessuta 
          di sacrifici e di rinunzie. A Torino, in altra dimensione storica e 
          sociale, lo scavo è portato avanti, operato nel vivo di una coscienza 
          che, alla fine, ha dovuto constatare d'essere stata costretta a rinunziare 
          anche a se stessa ("Anch'io sono diventato nebbia").
 Tuttavia, anche a Torino, Tebano riesce, nell'aspirazione ad un certo 
          risarcimento, a trovare gli ambienti e le atmosfere che gli ricordano 
          la sua città: "Mi piacciono di Torino / certe strade di 
          periferia, / quasi in aperta campagna, / con le osterie alla buona, 
          / il gioco delle bocce, / il vino rosso / delle nostre parti. / Qua 
          e là, in una disordinata scacchiera, / povere case a pianterreno, 
          / come nei nostri paesi", che si riconduce ad una "Periferia", 
          in Mondo di povera gente, dove " tutto è / così lieve, 
          così dolce! Gli elementi della storia quotidiana, comuni a Taranto 
          e a Torino, universalizzati dalla semplicità e dalla bontà 
          della gente umile, assumono, nella trasfigurazione che ne fa il poeta, 
          un'evidenza che dà pieno il senso dell'umanità e della 
          ricchezza dell'anima di Tebano. Al quale, in definitiva, resta sempre, 
          come un nodo alla gola, il rimpianto per la sua casa lontana nella quale 
          i suoi cari trascorrono la loro esistenza: "Vorrei tornare / alla 
          mia casa, paesana per la calce, / per la pietra. / La stessa dov'è 
          morto / mio padre, / grande e tiepida, / docile come argilla / nel pantano". 
          E nel biennio 1959-60 Tebano recupera fisicamente, per così dire, 
          la sua terra. Esaurita l'esperienza torinese, infatti, egli si stabilisce 
          a Bari, addetto all'Ufficio Stampa dell'Ente Fiera del Levante, e, nello 
          stesso tempo, redattore di "Civiltà degli Scambi", 
          importante periodico della Camera di Commercio di Bari.
 Ma è del 1960 una sua "personale" alla Galleria "Taras" 
          di Taranto - lo presenta in catalogo un sensibile poeta come Michele 
          Pierri -, cui segue, subito dopo, un'altra "personale" alla 
          Galleria "Piccinni" di Bari. Frequentando gli artisti della 
          Galleria "Stanglino", a Torino, Tebano è andato scoprendo 
          anche sul piano operativo, e non soltanto sul piano culturale, la pittura, 
          nel senso che ha scoperto - quasi destinatario di un dono magico - di 
          potersi esprimere anche con il segno e con i colori (11). E' una scoperta 
          che quasi stupisce il poeta il quale, facendo il suo ingresso nel mondo 
          fascinoso e tormentato, esaltante e contraddittorio della pittura, si 
          trova come proiettato in un'altra dimensione, forse più concreta, 
          meno sfuggente di quella della parola e certamente più impegnativa 
          per lui, che dell'esercizio della parola ha fatto, fino a questo momento, 
          una ragione di vita. Infatti, come per testimoniare una fedeltà 
          indefettibile alla parola, traendo spunto dalla pittura, Tebano comincia 
          a scrivere le liriche che nel 1967 - quando già s'è trasferito 
          a Roma - daranno vita a Clown con uccelli (12). Questo breve ed intenso 
          fascicolo di versi è un po' come un diario trasognato nel quale 
          il poeta, librato in un'atmosfera favolosa, annota gli impulsi che gli 
          vengono dalla frequentazione con i pittori e con le loro opere. E', 
          quella della pittura, una ragione nuova di vita e di alacre operosità 
          che Tebano, sempre fedele alla poesia, aggiunge a questa. Ed un'altra 
          se ne aggiungerà, forse ancora più cattivante, con il 
          cinema, attraverso il cui esercizio si rinnova la colloquialità 
          che di Tebano è tipica (13).
 C'è, in Clown con uccelli, una vaga atmosfera surreale che s'avvale 
          non d'immagini nebulosamente irreali, ma di segni teneramente fiabeschi 
          che, tratti dalla realtà, s'affinano, s'essenzializzano, lungo 
          un percorso sentimentale, e poetico, la cui mèta è una 
          visione, per così dire, metafisica della vita degli artisti e 
          del loro intervenire in una realtà cangiante da tradurre in valore 
          universale. Artisti cui Tebano, sempre con tono colloquiale -ogni lirica 
          è dedicata ad un pittore -, si rivolge con l'aspirazione, scopertissima, 
          ad un calore umano con il quale, in definitiva, esorcizzare l'esperienza 
          alienante dell'emigrazione. Ma non soltanto questa, ché Tebano 
          la solitudine, il desiderio d'affetto e di comprensione se li porta 
          nel cuore, si direbbe fisiologicamente, come una sorta di fatto inplacabile. 
          Cui bisogna che egli risponda, a costo, magari, di delusioni e di sconfitte, 
          continuando, tuttavia, sempre a lottare, con animo sereno, incantato, 
          di fanciullo che non intende perdere le occasioni della vita.
 Ecco, dunque, dove risiede anche la giustificazione di certi stilemi 
          che danno la misura della sensibilità di Tebano: "cattedrali 
          di nuvole", "malinconico girasole / che sta morendo di vecchiaia", 
          "la campana del cielo", "tenerissima luce / del mattino", 
          "colorato tepore", "silenzio incantato", "Il 
          cielo è un'immensa foglia azzurra".
 D'altro canto, a Roma, e dopo l'esperienza torinese, per molti versi 
          però anche formativa, Tebano esule dappertutto, non dimentica 
          la sua terra. E certe immagini, mediate dal mondo e dal linguaggio della 
          pittura, sono di quelle che soltanto il Sud mitico ed assolato può 
          suggerire. Ecco, filtrata dalla pittura di Pompeo Borra, una visione 
          solare, mediterranea, classica nel suo fulgore: "Una ragazza / 
          nuda e intoccabile come dea, / sulla spiaggia inondata di luce. / Un 
          bianco cavallo in libertà, / sullo sfondo del mare. / Capanne 
          a strisce rosse e blu, / sotto il cielo di cobalto. / Un mattino d'agosto, 
          / pieno d'antiche memorie, / più irreale che vero".
 Immagini di una trasognata fissità, splendide nella loro concreta 
          trasparenza, la fissità delle creature viventi e degli oggetti 
          che vivono, e forse è meglio dire si nutrono, di vita interiore: 
          la condizione, questa, tutta metafisica delle immagini contenute poi 
          in Come uccelli della pioggia (14).
 
 Con questa essenziale raccolta, del 1971 - Tebano s'è ormai incamminato, 
          speditamente, sulla strada della pittura, agevolato dalla solidarietà, 
          prima fra tutte quella di un maestro della tempra di un Gentilini, degli 
          artisti che a Roma delineano una cultura (15) -, il poeta paga, per 
          così dire, un suo tributo di amicizia, di ammirazione e di riconoscenza 
          a Roma, dove con successo espone spesso in "collettive" ed 
          in "personali". Ci si può chiedere, a questo punto, 
          qual è l'immagine che Tebano ha di questa città multiforme 
          ed estroversa, intelligente e contraddittoria, fastosa e miserabile, 
          frenetica e sognatrice, nella quale il poeta va realizzando un fecondo 
          itinerario d'arte, peraltro testimoniato da convincenti interventi della 
          critica. Per Tebano, uomo di un Sud povero ma ricco di fantasia creatrice, 
          Roma può apparire, vista attraverso il prisma fascinoso di una 
          "natura morta" di Gentilini, come "uno zoo di oggetti 
          variopinti" nel quale le cose, e gli uomini magicamente trasformati 
          in cose, conducono la loro incantata esistenza di protagonisti in un 
          microcosmo in fermento nel quale il poeta, a sua volta, cerca una sua 
          verità. Che è quella dell'anima la quale, sgomenta s'accorge 
          che le incombe addosso l'allucinazione degli oggetti. In una tal situazione 
          spirituale gli oggetti poetici - creature, ruderi, attimi di vita, monumenti 
          - diventano emblemi, segni di una volontà trasfiguratrice che 
          trasporta gli uomini in dimensioni remote dal quotidiano vissuto e sofferto. 
          Dove l'esistenza vale soltanto per i cristallini contorni entro i quali 
          il poeta circoscrive, psicologicamente e culturalmente, la propria esperienza 
          intellettuale. Interviene in questa commossa operazione il riferimento 
          colto ("Quel giorno di neve, / Grottarossa sembrava / un paesaggio 
          dipinto / da Utrillo ... "), dove la mediazione culturale, estremamente 
          suggestiva, segna il limite della visione, che pur si concreta in immagini 
          raffinate (" ... Mai visti, / tutt'una volta, tanti/bambini divertirsi/a 
          inventare favoleld'alabastro sui parati ... "). Ma c'è anche 
          il riferimento immediato, quallo per il quale scorre senza soste l'inventiva 
          più genuina di Tebano ("... Tra i ruderi, vuoti ormai /dell'ombra 
          dei fantasmi, / ci sarà sempre un prato d'erbe, / dove i colombi 
          affamati /potranno beccare le briciole /della natura").
 E' sintomatico un dato: qui le immagini sono colte sempre, o quasi sempre, 
          in una situazione statica ("Sulla panchina / all'ombra di Ponte 
          Sant'Angelo, / un giovane pescatore / se ne sta immobile, / da chissà 
          quante ore, / ... "; " ... Un soldato di leva / in libera 
          uscita, / ... non sa più cosa fare / fino a sera"; " 
          ... Le statue di Ponte Sant'Angelo, / con la mente, ogni notte, / spiccano 
          voli dai trampolini / di marmo ... "; "... Due sposini innamorati 
          / si tengono per mano, / in un affettuoso silenzio") dove la vita 
          sembra ferma in una dimensione temporale priva di riferimenti al contingente, 
          ferma, in altri termini, nell'assoluto delle idee, del pensiero che 
          s'appaga della contemplazione di se stesso. E dove c'è il movimento, 
          d'altro canto, esso si perde nell'infinito di gratificanti visioni cosmiche 
          ("... Le stelle, / sazie d'attesa / precipitano stanche / nel grembo 
          del mare, / come uccelli della pioggia / dopo il rito ... "). E', 
          da parte del poeta, un commosso e, perché no?, religioso osservare 
          le creature e le cose nella loro stupefazione. Anche per questo la cadenza 
          interiore delle liriche assume, quasi sempre, toni elegiaci, come in 
          "Poesia per Luciana": "Nella dolce isola dei suoi' occhi 
          / c'è una luce di sole. / Nel quieto porto delle sue mani / c'è 
          un nido di tenerezza. / Quand'ella sorride, è come / se cento 
          campane tutt'insieme / suonassero a festa. / Quand'ella parla, la sua 
          voce / è come una conchiglia sonora / su una spiaggia incantata".
 Ma il Sud come ininterrotta aspirazione si riaffaccia materialmente, 
          per così dire, nella poesia di Tebano con Paese del mio cuore 
          (16), del 1974. La prefazione al testo - arricchito da un'acquaforte 
          originale di Gentilini - è di Libero Biagiaretti. Il quale non 
          può non sottolineare come "... La poesia di Tebano è 
          sempre venuta fuori con discrezione, con dignitosa tenerezza, dai ricorrenti 
          momenti di nostalgia e di rimpianto, da quei momenti di ricapitolazione 
          sentimentale dell'emigrante, del paesano sradicato, quando la prospettiva 
          della lontananza fa sì che le strade e le pareti delle case convergendo 
          si restringano paurosamente fino a incontrarsi in un minimo inabitabile 
          punto, come vuole la regola ... ". C'è, adesso, tuttavia, 
          quando il "mondo di povera gente" è diventato il paese 
          del "mio" cuore - e la prospettiva storica e temporale, oltre 
          che sentimentale, è di gran lunga diversa, connotata da una misura 
          di serenità, che è contemplazione dell'assenza sofferta 
          -, che il recupero del Sud, di Taranto remota e dimentica, avviene come 
          mediato dalla piena esperienza e dal cumulo delle esperienze culturali 
          che fino a questo momento hanno impegnato il poeta. E si pensi, per 
          fare un caso, ad un altro tarantino, Carrieri, il cui ritorno nella 
          città d'origine Tebano sollecita con pochi, ma densi versi, dai 
          quali traspare la commozione dell'emigrante che aspira alla propria 
          terra come all'elemento vitale nel quale consistere come uomo e come 
          poeta.
 I materiali poetici sono, ancora una volta, quelli di Mondo di povera 
          gente -ed anche qui c'è da osservare che il "mondo" 
          s'è adesso ristretto nella dimensione più familiare, affettivamente 
          più circoscritta del "paese", dove il poeta più 
          agevolmente può riscoprire le proprie origini -diversa è, 
          invece, la qualità immaginativa e quella del dettato lirico da 
          cui emergono. Diversa perché diverso è il clima culturale 
          nel quale quella qualità e quel dettato maturano.
 Le immagini raccolte adesso da Tebano nel centro storico di Taranto, 
          brulicante di umanità anonima, che è come dire, per il 
          poeta, una dimensione dell'anima o la sezione aurea della categoria 
          uomo, hanno andatura epica, di antica tragedia, dove le parole, tutte 
          le parole, hanno uno spessore mitico e le figure, magari le più 
          consuete e le più trite, rivelano la ricchezza interiore che 
          è dei valori genuini dei quali il popolo è portatore. 
          E' come una memoria astorica di tutta la terra pugliese - non c'è 
          soltanto Taranto in questa raccolta -che affiora da versi e da sintagmi 
          aderenti alla realtà effettuale delle cose e le immagini, solari 
          e mediterranee, prepotenti nella loro icasticità, sono di un'evidenza 
          che sgomenta, per la saggezza arcana che recuperano, riflesso di millenarie 
          civiltà sepolte nella coscienza popolare, e per il senso pittorico 
          e scultoreo - dove è evidente la cultura del poeta - che richiamano.
 E' così che si determina in Paese del mio cuore un'atmosfera 
          magica, affabulata, nella quale le piccole cose diventano emblematiche 
          di grandi eventi dei quali natura ed uomini sono protagonisti.
 "Son tornato al mio paese di sole. / Quanta luce, quanti colori 
          / -colori di favola colori di letizia! ... ": pur in un contesto 
          di sofferenza, il dolore dell'assenza del quale l'emigrante è 
          sempre vittima, la dimensione nella quale è adesso visto il "paese" 
          è diversa e tradisce, da parte del poeta, una serena disponibilità, 
          per così dire, all'abbraccio della natura, del sole che come 
          un lume illumina e protegge situazioni millenarie in una Taranto i cui 
          vicoli "sembrano squarci di ferite / cancrenose" e nella quale 
          si odono "i discorsi delle anziane donne / così piene di 
          antica pazienza", mentre dai passaggi a livello "qualche bambino 
          agita appena / mani invecchiate in segno / di saluto" ed altri 
          "Ragazzi abbronzati / hanno tra le mani / conchiglie colorate". 
          C'è in tutto ciò, se non un'aria di giocondità 
          che di Tebano assolutamente non può essere, un'aria di cordiale 
          partecipazione che è, poi, la capacità di Tebano di trasfigurare 
          creature e cose, tutto un magma sentimentale in fermento, in un'atmosfera 
          rarefatta dove il mito ha il compito di sottolineare i dati della realtà. 
          Che scorre, nel processo poetico di reinvenzione, lungo due direttrici: 
          quella del "sole", sotto il cui segno creature e cose vivono, 
          e quella della "letizia", con la quale il poeta a creature 
          e cose aderisce.
 Nonostante questo, Tebano non ha rinunziato alla protesta civile, che 
          è dato ineliminabile della sua formazione -ma Bigiaretti diffidava 
          del termine "civile" "a causa degli equivoci che... comporta 
          e delle enfiagioni che procura il dettato ... " -, ha rinunziato, 
          però, per un calcolo di visione storica, a quell'atmosfera di 
          tesa disperazione nella quale la protesta era calata, perdendo, tutto 
          sommato, di efficacia, dalla quale, comunque, traeva stimoli vitali, 
          per forza di prospettiva temporale, data la memoria ancora fresca della 
          guerra e l'immanenza di forti tensioni civili, dal cui dispiegarsi, 
          talvolta tragico, Tebano ricavava non trascurabili indicazioni. Era 
          il tempo in cui gli orizzonti, anche per i poeti che intendevano inserirsi 
          nel solco della storia, erano confusi e su tutto incombeva il senso 
          di una tragedia intessuta di dolore, di sacrifici e di morte.
 In questo ritmo di sofferenza, scandito da memoria vigile, rimpianto 
          cocente e attesa disperata, senso solenne della storia ed operosa testimonianza 
          pittorica - che si colloca, essa stessa, coerentemente nella direzione 
          della storia come momento affettuosamente partecipato di una vicenda 
          personale toccata e segnata dai grandi eventi, dalle occasioni inattese 
          e dagli incontri quotidiani -, in questo ritmo, dunque, va situata la 
          parabola poetica di Tebano, dell'uomo di un Sud ricreato giorno dopo 
          giorno nella trasparente malinconia della lontananza, dove il ricordo 
          degli uomini, delle case, dei paesi, dei paesaggi assolati e desolati 
          di Puglia, trasferisce le cose nella dimensione, magica, dell'eterno. 
          Che è, in fondo, la dimensione atemporale nella quale si muove, 
          adesso Tebano. Ecco perché, adesso più che mai, poesia 
          e pittura si compenetrano fortemente, nel senso che danno vita ad un 
          nucleo di pensiero nel quale confluiscono tutte le esperienze, di vita 
          e di cultura, delle quali s'è nutrito, per anni ed anni, iI poeta. 
          Il quale nei diversi momenti della sua esistenza creatrice, a mano a 
          mano che affrontava prove artistiche di notevole tensione, ha sempre 
          conservato nel cuore, da richiamare in superficie nei momenti più 
          opportuni, quando la tristezza maggiormente preme e si fa strada nell'anima 
          l'esigenza del recupero vitale, una scintilla d'amore per una Taranto 
          che, voluttuosamente adagiata tra due mari, suscita sempre nella fantasia 
          del poeta esule i fantasmi di una civiltà mitica e pur tanto 
          familiare.
 NOTE
 1) Nerio Tebano è nato a Taranto il 21 agosto del 1917. Nel 1939-40 
          è Allievo Ufficiale di complemento alla Scuola AUC di Bengasi. 
          Ma prima del richiamo alle armi ha frequentato l'istituto Orientale 
          di Napoli. Nel 1941 è in servizio di Sottotenente di prima nomina 
          a Bracciano prima e poi a Forlì. Nel 1942 è trattenuto 
          alle armi in territorio in stato di guerra. Nel biennio 1942-43 è 
          in zona di operazioni in territorio croato. Dopo l'8 settembre 1943 
          si ritrova sbandato e poi soggiorna ad Ancona ed a Firenze, fino al 
          1945, anno in cui rientra a Taranto.
 Un contributo alla conoscenza dell'opera di Tebano, poeta e pittore, 
          è offerto da M. MARINI, Nerio Tebano tra poesia e pittura. Roma, 
          Edizioni Trifalco, s.a. (ma 1980).
 2) P. CHIARA - L. ERBA, Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954). 
          Varese, Editrice Magenta, 1954.
 3) Nuovi Poeti, raccolti e presentati da Ugo Fasolo. Firenze, Vallecchi 
          Editore, 1950. Ed ancora Nuovi Poeti, raccolti e presentati da Ugo Fasolo. 
          Firenze, Vallecchi Editore, 1958, dove si fa riferimento alla "lezione 
          eliottiana" ed al "facile incitamento" di Lee Masters.
 4) N. Tebano, La lunga notte. Firenze, Editore Luciano Landi/Kursaal, 
          1953.
 5) Ecco, di seguito, i premi ottenuti da Tebano in questo periodo: I' 
          Premio di poesia "S. Di Giacomo", Napoli, 1951; 1° Premio 
          per la poesia inedita "G. Marradi", Livorno, 1952; 3° 
          Premio di poesia "G. Carducci", Marina di Pietrasanta, 1953; 
          2° Premio di poesia "Kursaal", Firenze, 1953; 2° Premio 
          di poesia "Andreina", Viareggio, 1953.
 6) Cfr. A. Paoluzzi, La letteratura della Resistenza. Roma, Ed. "5 
          lune", 1956. L'ultimo capitolo, pp. 74-80, accenna brevemente alla 
          letteratura resistenziale sviluppatasi in altri Paesi europei.
 7) A proposito del Tebano de La lunga notte, Sibilla Aleramo scrisse: 
          " ... Nella sua poesia c'è un'autentica sensibilità 
          di poeta e un senso di umanità profonda e sincera..." ed 
          Elio Vittorini, a sua volta, "... La materia poetica si allarga 
          con un bel respiro come pane che lievita ... ".
 8) N. TEBANO, Mondo di povera gente. Firenze, Editore Luciano Landi/Kursaal, 
          1955. Nella prefazione Tommaso Fiore scrisse: " ... Il poeta ha 
          dunque rinnovato se stesso, cioè su quelle sofferenze e aspirazioni 
          che abbiamo visto, ha operato vari innesti, alcuni intimamente familiari, 
          come i rapporti col padre che muore, altri, non meno a lui intimi, con 
          le piccole cose dei quartieri poveri e della povera gente ... ".
 9) N. TEBANO, Da un ponte sul Po. Sarzana, Carpena Editore, 1961.
 10) Scrisse G. Russo nella prefazione a Da un ponte sul Po: "... 
          Le poesie di Tebano sono quindi una testimonianza senza rancori di questa 
          sofferta esperienza, del disagio psicologico e sentimentale che circonda 
          il meridionale nella città del Nord. Il sentimento dominante 
          è quello della nostalgia e della solitudine, che si cerca di 
          medicare in un solo modo: cogliendo negli uomini, nel paesaggio, nelle 
          case, un sapore, un ricordo, un'immagine amica ... ". L'epigrafe 
          a Da un ponte sul Po è tratta da Leonida di Taranto e suona così: 
          "Lungi dall'itala terra/ da Taranto patria soave/ giaccio lontano/ 
          e questo più della morte/ è amaro".
 11) Scrisse Vittore Fiore ("Cronache Meridionali", 10 aprile 
          1960) in quell'occasione: "... Come Nerio Tebano, il poeta de "La 
          lunga notte" e di "Mondo di povera gente", il critico 
          d'arte attento e amoroso, sia divenuto il pittore Tebano, pittore fantasioso 
          e prezioso dell'informale, rimarrà sempre un mistero, per chi, 
          incline agli schematismi, alle classificazioni pacifiche e vuote, non 
          dia il credito che è dovuto agli umori dell'intelligenza. L'imbarazzo, 
          fin troppo dichiarato, di chi era abituato a collocare Tebano nella 
          cerchia dei poeti e dei critici d'arte, ed ora non sa che pesci prendere 
          di fronte alle 71 opere esposte alla "Taras" (di Taranto), 
          non è però del tutto ingiustificato ... ".
 12) N. TEBANO, Clown con uccelli. Taranto, Editrice Cressati, 1967.
 13) L'impegno cinematografico di Tebano si concreta in due documentari 
          d'arte, entrambi del 1969: Tempo presente di Franco Gentilini, regia 
          di Massimo Mida, testo di Nerio Tebano, musica di Egisto Macchi, produttore 
          Ugo de Lucia; Una città per la ceramica, regia di Massimo Mida, 
          aiutoregia di Nerio Tebano, musica di Egisto Macchi, produttore Ugo 
          de Lucia. A questi due lavori va aggiunta la riduzione per lo schermo 
          del Diario di un giudice di Dante Troisi.
 14) N. TEBANO, Come uccelli della pioggia. Bucciarelli Editore, 1971.
 15) La prima personale romana di Tebano, dal 16 al 29 novembre 1963, 
          alla Galleria d'Arte "Il bilico" va all'insegna di un "Omaggio 
          ad Antonioni". Elio Pagliarani, Carlo di Carlo e Filiberto Menna 
          presentarono in catalogo il pittore.
 Scrive Menna, indirizzandosi allo stesso Tebano: " ... Conosco 
          la tua pittura da tempo e so l'impegno e l'accanimento con cui lavori 
          in questo campo, che son poi gli stessi della tua poesia. Consentimi 
          perciò di cominciare da questa, dall'immagine che hai saputo 
          offrire di te attraverso la parola, l'immagine, anch'essa discreta e 
          dimessa, ma ferma, di un uomo sradicato che cerca disperatamente di 
          mettere nuove radici mediante il colloquio con gli altri ... ". 
          In quest'esigenza di colloquio, d'altro canto, vanno situate le seguenti 
          cartelle di artisti nelle quali Tebano ha introdotto sue poesie: Ipotesi 
          di poesia per 3 acqueforti di Gentilini (1974), con 3 acqueforti di 
          Gentilini, Edizioni del Cappello, Verona; Le ragazze di Franco Gentilini 
          (1975), con 4 acquetinte di Gentilini, Edizioni Images 70, PadovaDue 
          poesie (1980), con 4 incisioni di Placido Scandurra, Edizioni d'arte 
          Editrice Romana; Poesia per G.B. Salatino (1980), con 6 incisioni di 
          G.B. Salatino, Edizioni "Gli amici del Tetto", Roma.
 16) N. TEBANO, Paese del mio cuore. Poesie. Prefazioni di Libero Biagiaretti 
          con un'acquaforte originale di Franco Gentilini. Verona, Edizioni d'Arte 
          Ghelfi, 1974.
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