"Povero don
Vincenzo!", mi diceva una vecchia vedova gaglianese che da anni
aveva perduto il marito pescatore. Mi raccontava dell'artista in dialetto
capuano, con tanto rispetto e devozione: "Com'era bravo, un galantuomo,
quando veniva a Gagliano, a passare le ferie estive, salutava chiunque
incontrava per strada. Rispettava i pescatori e tutta la buona e povera
gente del paese. Non meno galantuomo suo padre, farmacista, e sua
madre, donna Giulia".
Insomma, questa donna sapeva e conosceva tutto, e tutto la famiglia
del maestro Ciardo, perché da anni vi abitava vicino. Non posso
dimenticare: era seduta, questa anziana madre sotto un'alcova di vecchie
case, su una sedia impagliata da mani artigiane salentine. Mi ricordava
"La vecchia", del 1928, del pittore Enzo Morelli. Corpo
possente, quasi opulento, viso largo e mani poggiate sulle gambe,
con dita grosse e distese che il tempo e il lavoro avevano fatto diventare
tessere rocciose, provate dai flutti marini sospinti dallo scirocco
dalla vicina Novaglie o da Leuca. Un vestito nero copriva il suo corpo
massiccio e statuario, un grembiulone dalle profonde tasche stringeva
e scendeva dalla cintola in giù, uno scialle di lana dalla
maglia larga, anch'esso nero, avvolgeva le ampie spalle. Una figura
mitica del nostro Salento, la "vecchia prefica" che comunica
il messaggio ad alta voce al morto e lo invia a un altro, ormai da
tempo lontano dalla vita terrena.
Tutto questo mi commosse e non volli più chiedere di don Vincenzo,
il maestro del paesaggio, delle marine, del vecchio ulivo di Gagliano
o di Leuca, degli oliveti pugliesi, del Salento sassoso, dei sassi
e delle case, delle luci e dei crepuscoli infuocati, delle lune e
dei sassi salentini e del Salento antico, durezza della roccia, caluria
della terra arsa e secca d'estate, che si spacca creando ferite profonde
alla terra. Nei dipinti di Ciardo, forme di una natura primitiva,
nata dalla prima luce, che la creazione stabilì con l'uomo
e con la metamorfosi di secolari ulivi grecanici. Per Ciardo, il dipinto
era luce che si componeva di tre elementi essenziali, colore-luce,
forma-colore, luce-chiaroscuro, che tengono la composizione racchiusa
da tante dense tessere di colore per costruirne una sola, che è
alta poesia pittorica ciardiana.
Il purismo pittorico nel colore di Ciardo incanta, la dosatura del
pennellare ti sommerge in pensieri spaziotempo che conservano il senso
della dignità di un artista professionalmente coerente, mai
preso dalle mode, né dominato dai vari cieli di scuola che
si andavano formando nel periodo in cui la maturità e la coscienza
del maestro raggiungevano ottimi valori, pur acquisendo esperienza
e verifiche nel contesto contemporaneo del Novecento italiano.
Secondo alcuni critici, la verifica tecnica pittorica di Ciardo proveniva
da Van Gogh, da Mondrian o da Seurat, dai Fauves, da De Pisis o da
Tosi, mentre Ragghianti dice: "Quel che più importa, è
che in questo stile di partiture e di tessere cromatiche Ciardo ha
trovato il suo modo, quasi musicale, d'espressione pittorica".
Con Ragghianti sono d'accordo. Ma aggiungerei che Ciardo ha trovato
soprattutto se stesso, scavando antropologicamente nel passato di
una civiltà culturale contadina e di pescatori, dipingendola
con il paesaggio, con le marine. Civiltà che è stata
la proiezione, l'evoluzione di un viaggio attraverso l'umanità
della Puglia in ascendenza contemplativa. Basterebbe pensare come
la pennellata in Ciardo diventa meno cupa, meno drammatica, meno violenta,
in alcune ultime opere piene di essenzialità fluente. Anche
per il Salento è ormai tempo di meccanizzazione agricola. E'
già tempo delle imbarcazioni motorizzate. Il paesaggio salentino,
il paese, agglomerano case e una nuova luce che è il risultato
che deriva dell'emigrazione del dopo '68.
