Tutto quello che
si può presumere di sapere sulla relazione che passa fra coscienza
religiosa e coscienza politica, e in particolare tra fede cristiana
e cattolica da una parte e ideologia e prassi civile dall'altra, procede
inesorabilmente attraverso il filtro del Leviathan.
L'immensa figura del mostro non è una semplice comparsa occasionale
nella Bibbia, ma anche - implicita - è presente in ogni pagina
del testo sacro. Leviathan viene fuori dal libro di Giobbe, ma intesse
di sé tutta la tradizione giudaico-cristiana, ed è sempre
sinonimo dell'oscura e pericolosa potenza terrena, parente molto prossima
del Principe delle tenebre.
Noi lo abbiamo presente, nella sua espressione più inquietante,
nella pagina di Thomas Hobbes, più precisamente nel frontespizio
dell'edizione Crooke del 1651. Emerge dal mare l'animale imponente,
le fauci spalancate e il corpo coperto di squame, in ciascuna delle
quali - orribile a vedersi - si riflette l'immagine di ogni singola
creatura; e impone le zampe sulla terra, con una scossa che è
tutta un brivido. Intorno ad esso la recita si ritrae inorridita,
in una fuga che coinvolge esseri animati e inanimati, alberi e cose,
castelli turriti e opere praticate dagli uomini. "Non c'è
potestà al mondo che possa essere paragonata alla sua":
così recita, senza circonlocuzioni, il testo biblico.
Leviathan è la personificazione della sovranità incondizionato,
poiché da una parte brandisce una spada, simbolo del potere
temporale, e dall'altra il pastorale, segno evidente dell'autorità
dello spirito. Le due forze raffigurate, secondo alcuni interpreti,
smentirebbero la lezione evangelica, che per bocca del Cristo, nel
celebre episodio del "tributo", aveva dettato di rendere
a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di
Dio. Scrive Maurilio Adriani: "Ma Leviathan non solo è
la negazione del principio cristiano; è la verità storica
del rapporto religione-politica, è questa stessa relazione
verificata sul piano empirico". L'interpretazione ha un cospicuo
precedente nel Collingwood: "Leviathan è un prodigio mitico,
come il drago omerico che soffoca Laocoonte sul lido troiano o la
bestia informe che nasce dal chaos nella cosmogonia mesopotamica;
ma è anche una grossa, forse la più grossa figura storica,
poiché sue sono le lontananze dello spazio e l'e profondità
del tempo, sua la memoria remota delle origini, sua la generazione
razionale degli incubi dell'utopia".
Tutto questo non comporta certamente la squalifica in partenza della
tensione dell'uomo al rapporto positivo col mondo, al suo amore radicale
per la libertà e per la giustizia; non vanifica il desiderio
di attingere le stabili rocche del Regno del Cieli, come non mortifica
affatto la dignità dantesca dell'"esser cive". La
tradizione cristiana ha conosciuto e sancito, accanto e insieme con
la fuga dalle cose, l'inserzione umana nel reticolo temporale sino
al limite saturante della consecratio mundi. Non ha semplicemente
sognato, da Agostino in poi, il profilo della Città terrena
quale riflesso anticipativo della Gerusalemme celeste.
Evidentemente, l'intuizione della Tebaide non soddisfa la coscienza
cristiana, se essa ha coltivato con ostinazione mistica (e intellettuale
ad un tempo) l'ideale del Buongoverno; ma altro è il rapporto
col mondo, e altro quello con la ragione mondana. Oscar Cullmann ha
avuto buon gioco nel dimostrare come dietro ogni "potenza"
terrena si nasconda una forza che poco o nulla ha a che fare con l'energia
suprema dello Spirito, poiché è qualcosa che nasce e
viene nutrita dalla linfa attossicante di Satana. E' vero che "ogni
autorità viene da Dio" e si muove nell'ordine della Sua
grazia; ma è anche vero che la grazia divina è tanto
misteriosa quanto ampia, e risolve nel suo grembo illimitato l'enigma
stesso del male. Leviathan non salirebbe dalle oscure caverne sottomarine
per tentare la suo avventura vittoriosa sulla terra, se non rispondesse
anch'esso al cenno fatale di Dio.

In effetti, la sovranità terrena raramente si lega alla qualità
costituzionale del sacro. Salomone fu re saggio, ma i gigli del campo
ebbero vesti più splendide delle sue. Asoka, il monarca che
assunse la regola buddhista della non-violenza, finì con l'identificare
l'apostolato della Legge con la tentata diffusione di un verbo di
dominio. I re taumaturgi della tradizione medioevale, sui quali scrisse
con tanta finezza il Bloch, verificarono la confusione fattizia del
potere spirituale e di quello temporale. E il cesaropapismo slavo
non fu poi molto lontano da questa scelta, così come il suo
contrario, malamente definibile, ma che può essere ravvisato
nella cosiddetta "teocrazia pontificia", originò
di fatto una materia mista forse produttiva di eventi grandiosi, ma
per sua natura molto discutibile. Solo Luigi IX il Santo riuscì
a fondere in armonia quasi miracolosa gli argomenti portanti delle
due potestà: ma rimase un'eccezione.

Per questo, dubitiamo di principio delle possibilità di una
"politica religiosa" come di una "religione politica".
Sono termini eterogenei. In sede storica, si èverificato tanto
il momento polemico, quanto quello dell'armonia e del "concordato".
Ma sono verifiche che nulla dicono sul piano del principii. Poiché
la fede religiosa si identifica sempre, in ultima analisi, nell'esperienza
del pellegrinaggio, e i cristiani hanno incollato sul loro abito interiore
l'epigrafe dei "cittadini viandanti"; mentre lo spirito
politico mira all'acquisto del potere, spingendo in non pochi casi
il suo impulso all'ottenimento dell'una e dell'altra autorità,
della spada che ferisce ed insanguina e del pastorale pronto a benedire
i suoi partigiani sotto il segno della milizia sacra.
Ecco come e perché torniamo di necessità alla lezione
aspra di Leviathan, al dubbio che esso semina e alla paura che infonde.
Continueranno, certo' le generazioni cristiane, a cercare di distillare
dalla lettera evangelica le norme utili a fondare la "polis"
e le regole spirituali intese a giustificarlo; ma si troveranno -
come oggi si trovano - dinanzi al guado difficile che separa il discorso
mistico e la sua virtù eminentemente verticale dall'esperienza
effettuale del mondo e dalla suo logica immanente di potenza. Tale
la favola che si rinnova di noi: ci siamo dimenticati di Leviathan.
ma Leviathan non ci ha dimenticati.