Da sempre, lo
Stato-nazione ha goduto di autonomia e indipendenza nello stabilire
gli obiettivi e gli strumenti di politica economica. Dopo la seconda
guerra mondiale, a Bretton Woods, i maggiori Paesi hanno riconfermato
la sovranità nazionale in economia, con una precisa condizione:
che il tasso di cambio di ciascuna moneta rimanesse stabile. Lo sviluppo
dell'economia mondiale fu fatto dipendere dalla preponderanza di un
solo Paese nelle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti, infatti,
misero a disposizione del mondo libero la loro superiorità
tecnologica e finanziaria, in cambio di una distribuzione nient'affatto
equa dello sforzo di mantenere i tassi fissi. Quando e laddove problemi
emersero, toccò agli altri modificare le proprie politiche
e sobbarcarsi l'aggiustamento.
Nella prima metà degli Anni Settanta, non appena il "protettore"
benevolo d'oltreoceano manifestò crescente incapacità
a controllare se stesso, e quindi gli altri, il sistema dei cambi
fissi e la disciplina economica ad esso legata furono abbandonati.
Economisti e politici giustificarono la superiorità dei cambi
fluttuanti (contro lo scetticismo delle Banche Centrali e degli operatori
privati) con tre considerazioni:
- l'efficienza del mercato (che "sa" e si adegua);
- l'equilibrio tra gli obiettivi (domestici ed esterni);
- la ridistribuzione del peso (dell'aggiustamento).
Non poteva durare, e non durò. Male informati e poco flessibili,
i mercati portarono ad un uso delle risorse né stabile né
efficiente. Libera dal vincolo esterno, la politica economica raggiunse
estremi intollerabili ed altrettanto fecero inflazione e debiti nazionali.
Il monopolio americano delle relazioni internazionali si indebolì,
ma nessun Paese compensò o subentrò.
Nella prima metà degli Anni Ottanta, l'importanza dell'ancora
in politica economica fu nuovamente riconosciuta. Si privilegiarono
la disciplina monetaria e quella fiscale (quest'ultima non in Italia,
né negli Stati Uniti). Iniziò l'aggiustamento strutturale,
specie del mercato del lavoro. Ma la politica economica, incurante
delle priorità altrui, portò a squilibri mai visti nei
cambi e negli scambi.
Non doveva durare, e non durò. Dal 1985, il dollaro riprese
a rientrare. A distanza di due anni molto resta da fare. Oggi, infatti,
i maggiori Paesi si trovano costretti a concordare misure per stabilizzare
i cambi, ridurre gli squilibri nelle partite correnti e rinvigorire
la crescita.
E' a questo riguardo che le discussioni a Washington, a Venezia o
altrove, assumono importanza fondamentale. Una maggiore stabilità
delle monete in un mondo sempre più interdipendente è
fattibile solo se lo Stato-nazione riconosce che le priorità
domestiche sono più facilmente raggiungibili se esse tengono
in conto le priorità esterne. L'interdipendenza economica è
divenuta interdipendenza di interessi: la politica commerciale e quella
finanziaria uniscono (e dividono) i Paesi non meno della politica
estera.
Con l'economia di ciascun Paese sempre più aperta alle influenze
esterne, le prospettive economiche globali influenzano quelle locali
più di quanto accada al contrario. Perciò è nell'interesse
del singolo Paese di non scostarsi (in obiettivi, strumenti e congiuntura)
dalle condizioni generali. Se è nell'interesse di ciascun Paese
di condurre la politica economica in un modo confacente al contesto
generale, è sempre meno possibile limitare la convergenza al
fatto economico. E questo non necessariamente perché le idee
contino più della realtà quotidiana della produzione
e degli scambi. Ma perché l'interdipendenza economica, da sola,
non può perdurare: essa deve essere appoggiata da culture e
da modi di vita convergenti.
Due esempi chiariscono il punto. L'attuale squilibrio delle partite
correnti tra Stati Uniti (deficitari) e Giappone (in eccedenza) è
ricollegabile a squilibri (opposti) dei flussi finanziari nei e tra
i due Paesi. L'economia americana è infatti carente di capitale:
il basso risparmio delle famiglie non compensa il disavanzo pubblico
e gli investimenti privati. Il fatto che gli americani (da anni) vivano
al di là dei propri mezzi è un fenomeno culturale, prima
ancora che economico. Altra manifestazione metaeconomica è
la parsimonia dei giapponesi, che hanno un risparmio di gran lunga
superiore al fabbisogno finanziario domestico (fisco e imprese). Economie
interdipendenti mai si combinano con culture divergenti: fintanto
che i modi di vita sono così diversi sulle due sponde del Pacifico,
la riduzione degli squilibri esterni è improbabile.

Il secondo esempio mostra che anche all'interno dello stesso momento
economico l'interdipendenza deve svilupparsi armonicamente. Uno dei
rischi della congiuntura odierna è dato da possibili misure
commerciali unilaterali da parte del Congresso americano nei prossimi
mesi. Tale protezionismo non solo porterebbe a distorsioni (e ritorsioni)
nei flussi commerciali; ancor maggiori sarebbero le perturbazioni
finanziarie, in mercati esposti (e indebitati) e quindi suscettibili
di reazioni a catena di ampiezza difficilmente controllabile dalle
autorità. Si ricordi l'impatto, sui mercati dei cambi e della
Borsa, delle misure adottate nella primavera '87 dagli Stati Uniti
contro l'elettronica giapponese. Non è nostro obiettivo esaminare
le conseguenze (peraltro, non tutte positive) della omogeneizzazione
delle culture che il processo di integrazione economica lentamente
impone alle società occidentali. Ma il processo è inevitabile.
Se l'interdipendenza negli scambi e nella finanza crea le pre-condizioni
per ulteriore interdipendenza in altre aree, (relazioni industriali,
mercati del lavoro, politica fiscale, vigilanza bancaria, propensione
al risparmio e agli investimenti ... ), ne consegue che l'interdipendenza
economica non è un punto di arrivo. Essa diviene un atteggiamento
mentale. Ne consegue, altresì, che non è possibile mantenere
il livello di concertazione economica tra i maggiori Paesi fermo a
un certo livello: la cooperazione deve aumentare insieme con la tendenza
degli operatori di intrecciare le loro attività.
Molti problemi che affliggono le singole economie industriali appaiono,
nell'ottica nazionale, importati: da qualche anno, la politica monetaria
è stata ovunque ostaggio della situazione dei cambi e degli
scambi: oggi, e per i prossimi anni, anche la politica fiscale è
prigioniera dell'aggiustamento della domanda interna tra i maggiori
Paesi. Il rafforzamento di quest'ultima nelle economie con partite
correnti in attivo (soprattutto Giappone e Germania Federale) deve
corrispondere alla contrazione della domanda (pubblica, in particolare)
negli Stati Uniti; da qualche anno, il peggioramento delle ragioni
di scambio dei Pvs ha ridotto le esportazioni dei Paesi industriali,
già influenzate dal corso del dollaro.
Se, a proposito dei primi due problemi, ciascun Paese del Vertice
avesse avanzato a Washington la tesi che la propria economia è
fortemente influenzata dalle condizioni esterne, l'osservazione sarebbe
stata valida. Ma non è corretto dire che i problemi che affliggono
i Sette nel loro complesso siano importati. Al contrario: l'interdipendenza
dei Sette è tale che i problemi nascono nella loro area, per
essere poi trasmessi dentro e fuori quest'ultima.
E il terzo problema? Anche quelli che apparentemente si sviluppano
al di fuori dell'area del Vertice trovano per lo più la genesi
all'interno dell'area industriale. Infatti, il calo delle esportazioni
dei Paesi Ocse verso i Pvs è dovuto anche alla diminuzione
del loro potere d'acquisto, per lo sforzo di servire il debito esterno.
Quest'ultimo, in una certa misura, è stato causato dalla nostra
politica dei tassi reali negativi degli Anni Settanta, a cui ha fatto
seguito l'esplosione dei tassi nel quinquennio successivo.
Dal fatto che le economie dei Paesi del Vertice sono relativamente
più collegate l'una con l'altra di quanto l'intera area dei
Sette sia aperta verso il resto del mondo, ne risultano quattro implicazioni:
1 - quando l'attività economica dell'area industriale rallenta,
nessun Paese riesce a evitare di importare deflazione;
2 - quando l'attività economica della stessa area entra in
fase di ripresa, ciascun Paese ne beneficia, pur se il suo contributo
alla crescita è nullo;
3 - se tale contributo manca, la ripresa tende ad essere sbilanciata,
aumentando il rischio di un collasso a cui nessuno può sfuggire;
4 - i Paesi minori importano le tendenze (positive o negative), alle
quali spesso si sovrappongono problemi locali.
Come gestire, quindi, l'interdipendenza? Essa stimola attività
imprenditoriale, le economie di scala, l'efficienza della produzione
e della distribuzione, e così via. Ma soprattutto, e malgrado
il possibile abuso, essa "disciplina" le autorità
nazionali. Una disciplina, cui alla distanza non è possibile
contravvenire, Infatti, l'interdipendenza economico-finanziaria pone
sotto tensione i tassi di cambio delle maggiori valute, a meno che
la coordinazione delle politiche venga rafforzata. In altre parole,
l'interdipendenza non è solo integrazione dei mercati e sfida
alla concorrenza mondiale. Essa è soprattutto necessità
di esaminare e far collimare le priorità di casa propria con
quelle altrui. Sotto quale patronato?
La teoria economica ha da tempo provato che la soluzione del monopolista
è stabile ma non equa; che la soluzione del mercato è
stabile ed equa, se quest'ultimo è informato e flessibile;
e che la soluzione oligopolistica è instabile ma equa, se i
partecipanti non cooperano. Se cooperano, tale soluzione è
anche stabile, e seconda in equità solo a quella del mercato.
Abbiamo visto che il benevolo "protettore" non può
più imporre la sua volontà. E che i mercati, flessibili
in certi versi (la finanza), non lo sono affatto in altri (lavoro
e agricoltura). In attesa che lo diventino (prospettiva ottimale),
non resta che la soluzione oligopolistica e il rafforzamento degli
strumenti della coordinazione tra i maggiori Paesi.
Ecco una serie di "comandamenti" finalizzati a questa prospettiva:
- l'impatto della coordinazione delle politiche è tanto più
forte quanto maggiore è l'impegno politico dei partecipanti;
- l'impegno politico è maggiore quanto più simmetrica,
commensurata e realistica è la procedura. L'impegno deve venire
sia dai Paesi con moneta forte sia da quelli con moneta debole. Deve
riflettere la dimensione e i problemi di ciascuno. L'esercizio non
deve permettere che un grande numero di piccoli Paesi cerchi di fare
pressione su un piccolo numero di grandi Paesi;
- la parziale rinuncia alla sovranità (nazionale) deve essere
compensata dal maggiore spazio di manovra in altri ambiti;
- la verifica degli impegni è più fattibile, quanto
più chiara è l'intesa su come valutare le politiche
e la congiuntura. L'uso degli indicatori in questo contesto è
quanto mai importante;
- tanto maggiore è la coordinazione preventiva, tanto meno
è necessaria quella terapeutica;
- i risultati sono tanto maggiori (squilibri ridotti e crescita rafforzata),
quanto più la coordinazione coinvolge gli aspetti di politica
economica di maggiore importanza nel tempo, nello spazio e tra settori.