Il direttore di
questa rivista chiudeva l'introduzione ad una antologia di poeti,
Poeti del Sud, appunto, (Matino, 1973), così: "Sud, terra
che si prende per amore". Ecco. Saranno forse cambiati i termini
di confronto, saranno cambiati quelli che chiamiamo valori, il vivere,
i rapporti col resto dell'Impero Culturale, ma ci sentiamo di dire
che oggi il Sud non si prende per amore, o non si prende solo per
amore. Oggi il Sud si prende (o almeno così lo prende chi opera
a tempo pieno, non domenicalmente dico) anche o soprattutto per irruenza,
per distacco, per ironia, per maturazione avvenuta, di solito, a contatto
con tantissime, tante esperienze: pare sia sparito, grazie anche alla
massiccia circolazione e diffusione di libri e riviste, quel ritardo
più o meno ventennale che è stato da sempre una nostra
caratteristica e che a volte, diciamocelo, abbiamo anche amato (quando
non è servito a tanti illuminati baronetti che lo hanno usato
per farci vivere e operare in uno stato di colpa o per propinarci
le vecchie rimasticate e dolci solfe).
Questo nostro inizio non è solamente per buttare lì
qualcosa, assolutamente, questo nostro inizio è per confermarvi
anzitutto uno stato generale mutato della situazione creativa e culturale
qui nel Sud, in Puglia, nel Salento (nonostante tutto e nonostante
le Istituzioni addette sempre meno formanti), e poi per ribadire lo
spirito "eccessivo", a volte irritante, che anima gli autori
trattati in questa inchiesta e che sono, uno per uno, quelli su cui
si può sicuramente puntare. Ricordiamoli. Finora:
Totò Toma, Cosimo L. Colazzo, Lucio Conversano, Oronzo Coluccia,
e adesso Abele Vadacca, e, su questo stesso numero di Sudpuglia, Costantino
Giannuzzi. Altri seguiranno, per avere quanto più possibile
completo lo stato degli autori salentini che operano a tutto tondo
in questa nuova realtà culturale. Assolutamente non provinciale
e che farà i conti prestissimo col resto dell'Impero.
Abele Vadacca. Una delle caratteristiche di questi nuovi autori, di
questi nuovi artisti, è che già nel periodo della loro
formazione sanno ritagliarsi nuove realtà, nuovi orizzonti,
e amori e rapporti che dopo sapranno coltivare. Venezia prima e Carrara
dopo, e per molto, sono state le prime e fondamentali tappe dei giovanissimo
Vadacca che già prima di partire, nella sua casa di Calimera,
dove è nato venticinque anni fa, già prima di partire
pensava a se stesso come ad un novello alchimista, ad un essere dominato
da demoni e da folletti, ad un solitario guerriero di un nuovo Rinascimento.
L'ho incontrato per la prima volta dieci-dodici anni fa nella Galleria
Ellenica, sempre a Calimera; era lì insieme al padre che stava
ritirando o consegnando tre tele che a dire la verità non mi
dicevano granché. Non era dello stesso avviso il padre che
più o meno mi raccontò del furore e della ricerca che
animavano il figlio. Il padre è stato ed è una figura
molto importante (non più però della figura dolce della
madre, morta un paio d'anni fa) nelle scelte del figlio. In breve:
individuatane la passione e la testardaggine lo ha sorretto in tutto,
e di tutto ha fatto per farlo formare. Bello. Le cose il più
delle volte non vanno così. Lionello Mandorino, nella sua adolescenza,
ha dovuto combattere il padre che stimava il dipingere una perfetta
perdita di tempo; e che dire del padre di De Candia che ha fatto chiudere
in manicomio un figlio che amava girare nudo per casa o dipingere
sulle finestre e poi scardinarle? Bene.
Venezia e Carrara. Venezia vissuta un po' goliardicamente, anche se
a contatto con cave di argilla e con i segreti della ceramica. Carrara
vissuta in pieno, nelle cave di quel marmo che da un po' è
il segreto della sua vita, o in quei rapporti totalizzanti che sono
il miracolo dei vent'anni: Butros e Lutfic i due fratelli siriani,
il calabrese Iaria, la coreana Gison e tanti altri, e poi docenti
apertissimi, amici tra i cavatori, amore per le capre e per una vita
un po' meno buffa, anche se più dura.
Amicizia coi cavatori? Di più: grande intese, grossa collaborazione.
Il cavatore, col suo fare burbero, col suo corpo possente, con la
morte sempre pronta lì dietro un masso, è una figura
fondamentale per chi arriva a Carrara e vuole avere rapporti col marmo.
Il cavatore è una figura dannata quasi quanto uno scultore.
Non c'è niente di più mostruoso che il volto e il corpo
di uno scultore... E Abele non lo ferma più nessuno, paragona,
parla, gesticola, con la bocca sa ottimamente produrre il fragore
della sùbbia quando entra nel marmo, la sonorità del
martello pneumatico e della flessibile e altri strumenti. La scultura
è un corpo a corpo, è una lotta, è un capriccio
da soddisfare, un grosso capriccio, ripeto, non c'è niente
di più mostruoso che il volto e il corpo di uno scultore. Niente
tocca lo scultore (mentre lui può tutto toccare), non lo toccano
né le catastrofi, né i cataclismi, né i vari
accidenti: lo scultore si ferma solo davanti alla sùbbia! Sono
dei demoni insomma gli scultori e vengono dal centro di chissà
quale montagna, non può essere diversamente; solo loro hanno
la capacità, la facoltà, di creare, di distruggere,
di cambiar forma.
La forma, continua Vadacca, nonostante la determinazione demoniaca
dello scultore, è però sempre frutto del caso e del
caos: non c'è mai niente di progettato quando tra le mani hai
il masso informe del marmo: è al primo colpo, a materiale distrutto,
a marmo sottratto, che lo scultore sa se andare in alto o in orizzontale.
Il marmo ha una sua energia, comunica qualcosa di meraviglioso, vibra,
e poi, a parte la lotta, c'è come un atto di fede tra l'artista
e la materia. E la simpatia del marmo? Tra mille massi, dice Abele,
non sceglierò che quel masso e quello solo. Anzi, se penso
un'opera, l'opera stessa dovrà aspettare finché non
troverò il "rapporto" col suo marmo.
Vadacca continua a parlare della, importante per lui, esperienza a
Carrara. Del pescespada del suo amico calabrese fatto saltare in un
forno sottoterra, della tenacia dei due fratelli siriani e del rituale
del loro caffè arabo, della serenità e del distacco
della sua amica coreana, di quanto vigore è necessario per
continuare con la scultura. E' un accanito parlatore, Abele, rotto
- così sembra - ad ogni dura esperienza, sempre pronto a volare,
ama da impazzire tutti gli elementi: nell'acqua, tra l'altro, trova
la sua essenza, nella materia la sua utopia, o tutto ciò che
insegue con la sua arte.
"E la pittura? Visto che ne facevi e visto che proprio tre mesi
fa hai fatto una mostra di pastelli ...". Non sono mai stato
entusiasta della mia pittura, e oggi mi dà ancora meno. E senza
mezze misure continua: la pittura è cosa morta, è cosa
finita, svenevole, sdolcinata, la scultura invece è drammatica,
completa, arroganti pittori mi sembrano degli esseri effeminati, lì
fermi con la loro tavolozza e i vari pennellini... Pensa, mi dice,
alle mie capre, pensa alla loro forza, alla loro solitudine, alla
loro testardaggine. E io infatti penso ad una stupenda capra, fusa
in bronzo, che doveva far bella mostra di sé in una sala-galleria
di un grande quotidiano americano, e che invece abbiamo ammirato un
paio d'anni fa all'Expo Arte di Bari.

Abele sa bene camuffarsi, mette la cravatta, gira sulla sua 'Ritmo'
scoperchiata, qualche amico qua e là, ma sotto sotto sta pensando
alle sue capre, alla forma che non ha bisogno di orpelli, al metallo
che frigge, al marmo che suona e vibra. La scultura cova sempre. L'Italia
avrà una stagione felicissima con la scultura, un nuovo Rinascimento:
"è l'unica forma d'arte che rimane, non c'è altro,
la pittura non è che una prostituta e i pittori degli effeminati"
(salva, tra tanti pittori giovani e meno giovani che conosce, poca
gente: Lucio Conversano, per esempio - uno degli autori trattati in
questa inchiesta - per la resa volumetrica delle sue opere, per il
suo diavolo, per la sua ossessione, per la materia che esce dal suo
segno) (mentre Totò Toma lo ama perché nella sua breve
vita ha sempre patteggiato con cani da combattimento!).
Vasti interessi, energia e buon piglio. la stessa Gison, la coreana
che ha diviso con lui gran parte dell'entusiasmo di Carrara, parlava
della cattiva energia con cui lui si rivolgeva al marmo. Gison non
riusciva a capire i suoi occhi cattivi, lei, trasparente, fatta d'acqua,
figura d'alabastro (il discorso è lungo, lo scultore, ci dice,
di solito è un misogino, non si sposa quasi mai, trova sempre
una ragione, la sua ragione, più nella forma che riesce a fermare
e a sublimare che nella modella che si stanca e si muove e rivela
la sua fragilità, la sua morte).
Un bel giorno, non molto tempo fa, mentre si parlava di progetti e
temi e prospettive è venuta fuori l'idea della torre come simbolo
d'arte supremo, come sogno dell'uomo, come furia ascensionale, ma
anche come caduta... Da quel giorno è la realizzazione di una
immensa torre il suo Grande Progetto: la pensa in tutti i momenti,
lavora a raccoglier materiale, ha steso già delle pagine illuminanti
sul Grande Progetto e bla bla bla. Una volta abbozzò su un
foglietto di carta che ho qui davanti le fasi di realizzazione del
Progetto e le varie categorie di lavoranti, e strumenti occorrenti,
ecc. Ecco, riporto quel che vedo: Metallo che entra nella roccia,
Trecce di cereali (avena), Fucine, Vuoto, Crogiolo, Canali, Anelli,
Carparo, e poi segni, e poi le caratteristiche dei lavoranti: Fonditori
(arroganti, avidi di denaro, burberi, callosi, con artigli, luciferi,
sanno di morire, corpo possente, temono il freddo); Trasportatori
(carrucole, impalcature, massi, uomini dalla voce lunga); Scalpellini
(uomini dalla voce tinnante, chiacchierini); Muratori (routine, obbedisce,
non è creativo). L'intelligenza c'è, la cultura c'è,
l'arroganza necessaria c'è: il Grande Sogno è vicino
i (Poteva portarlo ad altro il suo amore per la forza di Michelangelo
o per l'ingegnosità di Leonardo? Gli altri? Gli altri sono
niente, sono dogmi, sono cere. E poteva portarlo ad altro l'idea che
lo scultore deve conoscere tutto, dal legno alla plastica, all'argilia,
a ogni materia e tecnica, alla figura tridimensionale, al computer?).

Il bronzo è una puttana, gli disse Pino Castagna, a Carrara,
perché si presta! Si discorre ancora, torna a parlar del marmo.
Vivere, bisogna vivere col marmo, estrarlo (è là che
nasce il rapporto di lotta), distruggerlo anche: se non lo fai rischi
di essere tu la vittima. Parla di animali favolosi, di opere pensate
e mai realizzate. Spera sempre di trovare il masso giusto, la scheggia
giusta per scolpire Psiche, la grande donna, la grande sposa (il suo
omaggio alla Madre). Il blocco di marmo
ha una sua vita, ha una sua storia: concepire e distruggere vuole
dire anche esorcizzare, liberarsi. Il blocco è sempre un nemico,
lo devi consumare, trarne forma ed energia, il marmo vibra, non ha
niente a che fare con la realtà di Gison, con le sue favole,
con le sue misture, con gli spaghetti fatti col ghiaccio, con i suoi
tenui colori, con le sue visioni. Assolutamente. Che altro dire di
Abele Vadacca? Qualche buon nome salentino? Ma la sua idea di scultura
ha poco da spartire con l'armonia di Martinez, con la classicità
dell'esule Salvatore Saponaro, con la progettualità irrequieta
di Michele Massari, o con Francesco Barbieri. Forse qualcosa da spartire
ce l'ha col sogno e la poeticità delle "Biforme"
di Aldo Calò, coi soldati di filo di ferro di Ezechiele Leandro.
Intanto lavora, vaga, parla, prende appunti, lui, l'indemoniato, strapieno
di energia pensa alle sue cave e ai cavatori, al marmo necessario
per la sua donna velata, fredda (forse la madre vicino alla morte),
a cercare il "bianco p" di una gradazione speciale per la
sua Psiche (lo cerca, ha paura di trovarlo, lo cercherà sempre).
Forse domani o al massimo dopodomani incontrerà il pescecane
che ha in comune con Iaria, incontrerà una certa gradazione,
scaverà tantissime fondamenta necessarie per l'immensa Torre...