Anche quest'anno,
Pasquale Saraceno resta fedele a quel l'appuntamento con cifre e confronti
che ha fatto del Rapporto Svimez uno scrupoloso bilancio consuntivo
delle politiche seguite nel Sud del Paese.
Questa volta, il "grande vecchio" del meridionalismo abbandona
il tono pacato che, da sempre, ha accompagnato l'esame delle connivenze
"tra criminalità, clientelismo e flussi di spesa pubblica
nel Mezzogiorno" e apre il Rapporto con una riflessione-denuncia
severa e quanto mai necessaria, in un momento in cui i termini della
"questione meridionale" battono la fiacca e la questione
stessa soffre di una grave crisi di identità. Egli parla delle
distorsioni e delle rigidità dei meccanismi politici, istituzionali
e amministrativi come di mali che attanagliano l'Italia intera. ma
che nel Sud assumono connotati di vera e propria emergenza. Qui, la
modernizzazione è solo apparente, "non investe, cioè,
le basi economiche, le strutture sociali, i modi di partecipazione
alla vita collettiva". E' facile, pertanto, che con essa convivano
"fenomeni di sopraffazione e di asservimento, di indistinzione
tra pubblico e privato, di scambio di protezioni e fedeltà
personali, le cui radici sembrerebbero invece appartenere a un lontano
passato lazzaronesco e feudale". E' questa connivenza fra una
modernizzazione apparente e, in realtà, mancata con questi,
che Saraceno chiama, "residuati socio-culturali", humus
favorevole per la proliferazione "dell'assistenzialismo, della
corruzione e della criminalità". Ed è crisi della
legalità, del meridionalismo, dello Stato. Una crisi che ha
permesso a forze antiunitarie di riscuotere al Nord un successo imprevedibile
e significativo, dando corpo. nel contempo, ad un'inedita "questione
settentrionale". Al di la degli aspetti folkloristici che circondano
il successo delle Leghe, si deve, secondo Saraceno, attribuire un
significato più profondo a tale fenomeno: "il Nord, per
gestire la sua integrazione con l'Europa, vuoi fare a meno di quello
Stato inefficiente, dal quale, viceversa, il Mezzogiorno, in ragione
della sua emarginazione dall'Europa, chiede di essere sussidiato".
Ma, se questo è il motivo, non è certo condivisibile
la soluzione (separatista) di estremo opportunismo, che porta a rinnegare
una catena di tradimenti e di politiche malate (ma finalizzate!) Che,
nel passato anche recente, hanno fatto trarre lauti vantaggi ad un
Nord, che oggi accusa. Dimenticare la storia, a volte, fa comodo,
come dimostra Valerio Castronovo quando dice: "Per decenni, si
è addebitata gran parte della questione meridionale alla mancata
riforma agraria. Si immaginava che l'agricoltura del Sud fosse chissà
che meraviglia. Che bastasse togliere di mezzo il latifondo ozioso
e distribuire le terre perché l'economia fiorisse. Poi, quando
nel secondo dopoguerra la riforma si è fatta, si è visto
cos'è successo: le terre sono state abbandonate". Pagine
tragiche della nostra storia vengono così riassunte in modo
banale, fuorviante. Sbrigativamente vengono tratte le conclusioni,
senza porre alcun accento sui modi e sui presupposti su cui si è
basata la famigerata riforma agraria.
E' comodo, ora che il Sud comincia veramente a pesare, dire che la
questione meridionale è diventata una questione dei meridionali.
Ed è alquanto strano che la pensino in questo modo anche qualificati
meridionalisti come Roberto Galasso, condirettore della rivista "Nord
e Sud", il quale, anzi, dubita che si possa parlare di una revisione
dei termini della questione e ricorda, a questo proposito, che già
Salvemini e Nitti sottolineavano "la responsabilità primaria
dei meridionali". Non c'è dubbio che la responsabilità
sia anche dei meridionali, ma da qui a scaricare su di essi tutte
le colpe e a far passare sottobanco le manovre a scapito del Sud consumate
nel secondo dopoguerra a livello nazionale, corre una gran differenza.
C'è, poi, chi ravvisa (N. Tranfaglia) nella capacità
di integrazione dei meridionali emigrati al Nord una mancata volontà
"di ribellarsi alle condizioni che affliggono il Sud": l'errore
di fondo in cui si sono imbattuti i vecchi studiosi della questione
meridionale è stata "l'idea che i cittadini del Sud non
fossero attori della vita nazionale alla stregua di quelli del Nord".
Queste e tante altre tesi popolano oggi il dibattito meridionalista.
L'impressione è che si stia rinnegando ciò che da quel
dibattito in passato è emerso. Pochi sono coloro che restano
fedeli alla storia e che guardano alle nuove emergenze poste dal Mezzogiorno
come ad un'evoluzione graduale e inevitabile di scelte strategiche
di politica nazionale. nonché di problemi trascinati nel corso
degli anni, a cui sono state date solo risposte contingenti, mai soluzioni
definitive. E oggi ci ritroviamo di fronte ad un "potentissimo
blocco sociale", attuato fra coloro che detengono il controllo
politico sulla gestione delle risorse pubbliche e gli imprenditori
"a vario titolo dipendenti da tale gestione". L'effetto
è la nascita, nel Sud, di una vera e propria cultura della
corruzione, di un clima di sfiducia verso lo Stato da parte della
gente comune, la quale preferisce perseguire i propri interessi in
un'ottica individualistica e clientelare, stringendo patti con quei
politici e con quegli imprenditori che, per esigenze di consenso e
di profitto, quegli interessi si dichiarano disposti a soddisfare.
Non è un caso che, dall'analisi delle fonti di reddito della
popolazione meridionale, emerga che le entrate di una famiglia media
del Sud siano costituite per il 38% da stipendi e prestazioni sociali
elargiti dalla pubblica amministrazione, e per il 46% da redditi di
industria e di attività private, a loro volta alimentati da
committenze pubbliche.

Su questo ruolo, certamente preminente, che ha lo Stato nelle regioni
meridionali, si basa il potere del cosiddetto "blocco sociale",
potere che si estrinseca nell'"intercettazione e allocazione
dei flussi di spesa pubblica". E' all'interno del sistema politico
e delle strutture statali operanti nel Mezzogiorno che le organizzazioni
mafiose traggono proventi enormi, da riciclare, soprattutto fuori
dal Meridione, attraverso il sistema degli intermediari finanziari.
Secondo i ricercatori della Svimez, bisogna frantumare questo blocco
di stampo feudale tramite la creazione di un nuovo blocco sociale,
basato, questa volta, sulla separazione "del potere politico
dalla responsabilità gestionale" e sul potenziamento del
sistema concorrenziale, quale fonte primaria di stimolo all'efficienza
per la pubblica amministrazione.
Ma, ammonisce Saraceno, non ci sardi alcun risultato utile per il
Sud se l'"obiettivo centrale della ripresa del processo di industrializzazione
competitiva non è condiviso dall'intera società nazionale",
se il Mezzogiorno non viene posto al centro della programmazione nazionale,
se una riforma delle istituzioni, basata su regole trasparenti di
gestione della spesa pubblica, non viene rivendicata da tutte le forze
del Paese. In mancanza di questi presupposti, sarà inoltre
molto difficile cambiare le rigide regole della Cee, con la conseguenza
che il Mezzogiorno sarà trattato alla stregua di altre aree
arretrate del Paesi membri, senza che sia data rilevanza alle peculiarità
del sottosviluppo che contraddistinguono ciascuna zona.
Nodo centrale della "questione meridionale" resta quello
del l'occupazione. Anche se, nel 1989, si è verificata al Sud
una crescita occupazionale superiore all'aumento della forza lavoro.
tuttavia permane il dato negativo di un tasso di disoccupazione pari
al 20,1%, contro quello del 7,4% riscontrato nel Centro-Nord.
L'aumento di circa 36 mila unità della disoccupazione aperta
è da ricondurre, per i due terzi, all'incremento delle persone
in cerca di prima occupazione, mentre, per il restante terzo, "agli
altri disoccupati". Le cause vanno da una insufficiente accumulazione
di capitali ad una politica attiva del lavoro non conforme alle esigenze
del Mezzogiorno.
La prima causa trae origine, come sappiamo, dal cattivo uso e dall'abuso
che delle risorse destinate al Sud hanno fatto le amministrazioni
centrali e locali e ad essa è direttamente collegata la seconda
causa. Infatti, ricordiamo che la maggior parte delle politiche attive
del lavoro furono elaborate, alla fine degli anni '70, per favorire
la mobilità dei lavoratori, in occasione dei processi di ristrutturazione
e di riconversione industriale avviati nel Centro-Nord. La conseguente
normativa, anche se in via teorica doveva servire soprattutto a contenere
il preoccupante tasso di disoccupazione esistente nel Mezzogiorno,
in concreto, ha esplicato efficacia solo in presenza di una disoccupazione
causata dal mancato incontro della domanda con l'offerta di lavoro,
derivante, cioè, dai suddetti processi di ristrutturazione
industriale. Nel Mezzogiorno, questi processi esistono, ma in misura
molto circoscritta, mentre è prevalente una disoccupazione
dovuta all'inadeguato sviluppo dell'accumulazione. Da qui l'esigenza
di interventi differenziati di politica del lavoro che abbiano come
presupposto nel Sud la rapida ripresa di quel meccanismo di sviluppo.
Rapporto Svimez
1990
Andamenti settoriali
Secondo l'analisi
svolta dalla Svimez, il 1989 non è stato un anno particolarmente
proficuo per l'economia meridionale.
L'agricoltura ha continuato a perdere colpi. La protratto assenza
di piogge, infatti, non ha permesso alcun recupero delle perdite subite
nel 1988 dalla produzione agricolo. Anzi, secondo dati provvisori,
questa produzione si sarebbe ulteriormente ridotta dello 0,3%.
I maggiori danni sono stati subiti da quelle colture che già
lo scorso anno avevano rivelato segni di debolezza: olivo, uva da
tavola, vino, frutta in guscio e, soprattutto, grano duro, il cui
raccolto è risultato inferiore del 30% rispetto al 1988.
E' cresciuto, inoltre, il divario tra l'andamento dei prezzi agricoli
e la media generale dei prezzi. I primi aumentati solo del 2,7%, la
seconda del 6,3%, con un'erosione del potere d'acquisto solo in parte
compensata da tagli occupazionali.
Danno il colpo di grazia alla già critica situazione del settore
le politiche di riduzione dei prezzi messe in moto dalla Cee e atte
a penalizzare proprio i prodotti tipici del Mediterraneo.
Il dato più positivo che emerge dal quadro dell'economia meridionale
per il 1989 riguarda il settore industriale. La voglia di combattere
e di recuperare in qualche modo il tempo perduto è evidenziato
da un incremento degli investimenti fissi lordi pari al 9,8% in termini
reali, contro il 7,4% riscontrato nel Centro-Nord.
Dall'analisi comparativa dei dati, peraltro, il fenomeno esce alquanto
ridimensionato: infatti, rispetto al 1980, gli investimenti nell'industria
della trasformazione sono aumentati al Sud solo del 5%. Diversamente
al Centro-Nord, dove il tasso di crescita ha raggiunto il 22%.
Per quanto concerne l'andamento della produzione, nel 7989 si è
verificato un rallentamento del precedente trend espansivo, non solo
nel Mezzogiorno, ma in tutto il Paese. Lincremento medio della produzione
è passato, infatti, dal 5, 9% del 1988 al 2,9% del 1989.
"Tirano" più al Sud che al Nord le produzioni tessili,
dell'abbigliamento, delle calzature, metallurgiche, della carta. Ma,
osserva lo Svimez, rispetto al Nord perdura il divario nella produttività
del lavoro che porto a "neutralizzare il vantaggio di cui l'industria
gode, in termini di sgravio degli oneri fiscali".
Bilancio in rosso anche per l'innovazione tecnologica. Dal 1982 al
1989, solo il 24% del fondo per la ricerca applicata, facente capo
all'Imi, è andato al Mezzogiorno. Situazione analoga per il
fondo speciale gestito direttamente dal Ministero per l'industria:
tra il 1983 e il 1989, la quota media che ha raggiunto il Sud è
stato dell'8%, percentuale Che, nel biennio '88/89, si è ulteriormente
ridotta al 5%.
Settore decisamente in attivo è quello turistico. Anche quest'anno,
infatti, le coste meridionali sono state meta privilegiato del pubblico
di vacanzieri, stranieri e non. E questo a fronte di una situazione
che, nel resto del Paese, ha toccato punte bassissime di affluenza,
a causa soprattutto della mucillagine che, nei mesi estivi, ha invaso
tutto l'Alto Adriatico. Maggiori (21,2%) le presenze italiane rispetto
a quelle straniere (14,3%). Le coste preferite dagli stranieri sono
state quelle della Campania e della Sardegna.
In piena crisi, invece, l'edilizia. Nell'anno, numerosi cantieri sono
stati chiusi, quasi 13 mila lavoratori licenziati, mentre si è
ridotto, rispetto al 1988, il numero degli alloggi di nuova costruzione,
nonché delle costruzioni di edifici industriali e a destinazione
agricola.
