L'umanità
deve molto a Woodrow Wilson anche per la sua visione di un mondo governato
dal consenso popolare, nel quale l'aggressione può essere impedita
o punita da un intervento collettivo della comunità internazionale.
E' un eterno
sogno, che George Bush ogni giorno ribattezzava "nuovo ordine
mondiale".
La visione wilsoniana contemplava un codicillo: la dottrina dell'autodeterminazione.
"Ogni popolo - affermava Wilson - ha il diritto di scegliere
il potere sovrano sotto cui vuole vivere". Quale principio parrebbe
più ineccepibile, e logico, di questo? L'autodeterminazione
appare la deduzione inevitabile dell'idea di democrazia e di autogoverno.
Eppure, la dottrina presenta delle anomalie. In effetti, la tradizione
americana è piuttosto ambigua sull'argomento dell'autodeterminazione:
un'ambiguità incarnata nel contrasto tra due dei suoi massimi
presidenti. Come ha fatto notare la storica Betty Miller Unterberger,
gli americani celebrano George Washington per il suo successo nel
condurre la lotta per l'autodeterminazione e celebrano Abramo Lincoln
per il suo successo nel contrastare tale lotta.
L'autodeterminazione era una dottrina nobile quando ad essa si richiamavano
gli americani contro la Gran Bretagna nel 1776; molto meno, quando
gli Stati del Sud la opposero al governo nazionale nel 1861. Woodrow
Wilson era nato in Virginia, e aveva otto anni quando il generale
Lee si arrese ad Appomattox; eppure, come studioso, egli respinse
le rivendicazioni di autodeterminazione del Sud e considerò
la guerra civile come il "completamento della Unione".
I1 suo segretario di Stato, Robert Lanzing, lo ammonì nel 1918
che la dottrina dell'autodeterminazione, propugnata senza definizione
né criteri precisi, poteva avere "effetti assai distruttivi
sul tessuto politico della società, dando luogo a ribellioni
e mutamenti continui". Come è possibile, si chiedeva Lanzing,
trovare una definizione di popoli che hanno diritto di scegliere il
potere sovrano? Come stabilire la debita procedura con cui un popolo
può fare questa scelta? Dopo tutto, la guerra civile sancì
la fedeltà degli Stati Uniti al "principio per cui uno
Stato nazionale ha facoltà, anche con la forza, se necessario,
di impedire la secessione di una frazione del suo territorio senza
il suo consenso, soprattutto se ha esercitato a lungo la propria sovranità
su tale territorio, o se la sicurezza nazionale o i suoi interessi
vitali ne sono danneggiati".
Wilson constatò che aveva ragione. Egli era ben consapevole,
e lo confidò all'ambasciatore inglese, che "spinto agli
estremi, il principio di autodeterminazione sconvolgerebbe i governi
esistenti fino ad un livello imprevedibile". All'inizio, per
esempio, Wilson fu contrario allo smembramento dell'Impero austro-ungarico,
non di meno, con le debite riserve, il principio riplasmò l'Europa
dopo la prima guerra mondiale, e venne riaffermato da Roosevelt e
da Churchill nella Carta Atlantica dei 1941.
L'autodeterminazione conobbe poi un periodo oscuro, quando la guerra
fredda spaccò il mondo in due ideologie, una contro l'altra
armata. Ora, la fine della guerra fredda ha concluso l'epoca dei conflitti
ideologici. Tuttavia, non ha posto, come previsto, fine alla storia.
Una catena di odii ha ceduto il posto a un'altra. L'ultimo numero
di un magazine americano riporta l'affermazione di un politologo jugoslavo,
Simon Petrovic: "Le minoranze si stanno rivelando una cartina
di tornasole per tutte le società post-comuniste. Ora che il
comunismo è quasi scomparso, gli istinti tribali stanno emergendo".
L'epoca del conflitto ideologico sta cedendo il passo a una nuova,
minacciosa era di conflitti etnici, razziali e religiosi. La Jugoslavia
è il tragico esempio di questi tempi. Ma non resterà
l'unico.
In retrospettiva, l'impero sovietico può essere visto come
un equivalente di fatto del vecchio impero austro-ungarico. La dissoluzione
del sistema sovietico dopo la guerra fredda, esattamente come quella
del sistema absburgico dopo la prima guerra mondiale, ha liberato
aspirazioni etniche e nazionali represse (con i relativi antagonismi)
profondamente radicate nella storia e nella memoria. La disintegrazione
dell'Unione Sovietica, e poi della Jugoslavia, rilancia i movimenti
separatisti in tutta l'Europa, da entrambe le parti dell'ex cortina
di ferro.
"La stampa nazionalista per l'indipendenza", recitava poco
tempo fa un titolo sul New York Times. Se l'Armenia è indipendente,
perché non la Catalogna? Se i lituani possono beneficiare dell'autodeterminazione,
perché non i baschi? Perché non la Slovacchia, la Corsica,
la Bretagna, il Brabante, il Jersey, la Scozia, il Québec?
Ma ogni minoranza racchiude in sé altre minoranze: dove finisce
l'autodeterminazione? Roger Thurow ha recentemente descritto le attività
ginevrine del capo del gruppo di pressione della nazione sorba (no,
non è un refuso per "serba") per la Lusazia indipendente:
un movimento che sembra inventato da Evelyn Waugh.
In passato Andorra, Monaco, San Marino e il Liechtenstein erano innocue
attrazioni turistiche. Sono forse oggi le avvisaglie di un futuro
prossimo?
Ovviamente, le rinnovate ansie di autodeterminazione non sono circoscritte
all'Europa. La proliferazione di micro-Stati con piccole popolazioni
senza alcuna portata reale, ma con lo stesso diritto di voto degli
Stati Uniti e della Cina all'Assemblea Generale, rischia di essere
la rovina delle Nazioni Unite.
Ma i clamori dei micro-Stati all'Assemblea Generale sono innocui,
in confronto alla crudele violenza suscitata nel Terzo Mondo dalla
furia autodeterminista dei popoli che vivono sotto una stessa sovranità.
L'autodeterminazione diventa troppo presto autodistruzione. La sorte
di Beirut èstata per un po' la cupa anticipazione di un possibile
futuro. Dal Sudafrica allo Sri Lanka, da Israele all'India, dall'Angola
a Trinidad, il conflitto etnico sta lacerando le nazioni. "Il
virus del tribalismo", come lo ha ben definito l'Economist, "rischia
di diventare l'Aids della politica internazionale, restando quiescente
per anni, per poi esplodere all'improvviso, distruggendo Paesi interi".
E' venuto il tempo di riconsiderare la dottrina dell'autodeterminazione
e di includervi i limiti che Wilson stesso aveva ammesso, e che l'esperienza
degli Stati Uniti conferma. Piccolo non vuol sempre dire bello. L'obiettivo
non dovrebbe essere dare a ogni popolo il diritto di scegliere il
potere sovrano sotto il quale vivere, ma piuttosto cercare modi in
cui popoli diversi per origini etniche e religione possano convivere
in armonia sotto uno stesso potere sovrano.

Questo è
più necessario che mai in un'epoca che sarà segnata
più di ogni altra nella storia dalla coammissione dei popoli.
Mentre il XX secolo volge alla fine, numerosi fattori - la fine della
guerra fredda, lo sviluppo di comunicazioni e di trasporti più
veloci, l'accelerazione della crescita della popolazione, il crollo
di strutture sociali tradizionali, la fuga dalla tirannia e dalla
povertà, il sogno di una vita migliore -inducono più
che mai la gente a massicce migrazioni attraverso le frontiere nazionali.
Per questi motivi a me pare che tutte le aspirazioni siano comprensibili.
Tuttavia, le rivendicazioni all'autodeterminazione possono essere
contagiose, e minare il tessuto politico della società.
L'autodeterminazione va bene, ma solo fino a un certo punto. Oltre
questo punto, porta disunione e anarchia. Prendiamo il Canada, a lungo
ritenuto la nazione più assennata e posata di tutte. Eppure,
Michael Ignatieff, figlio nato in Canada ma residente in Inghilterra
di un diplomatico canadese nato in Russia, ha recentemente affermato:
"Ecco una delle cinque nazioni più ricche della terra,
una terra a cui la sorte ha elargito tanto spazio e opportunità
che i poveri del mondo non cessano di bussare alla sua porta per entrare,
eppure si sta lacerando... Se una delle cinque nazioni più
sviluppate del mondo non riesce a far funzionare uno Stato federale
multietnico, quale altra potrà?".
La risposta a questo interrogativo sempre più cruciale è
stata, almeno finora: gli Stati Uniti. Ma oggi, anche negli Usa, il
fiorire di zeloti dall'identità culturale esasperata minaccia
la diffusione del separatismo etnico e razziale, di un nuovo tribalismo.
Se gli Stati Uniti non continueranno a fornire al mondo un esempio
su come si possa far funzionare uno Stato federale multietnico, il
XXI sarà un secolo alquanto fosco.
Diaspore e
fughe
I boat people
del Mediterraneo
L'immigrazione
clandestina ha sostituito il rischio di conflitto militare al primo
posto tra le minacce per la sicurezza dell'Europa. A "promuovere"
i flussi migratori come pericolo pubblico numero uno - per la metà
occidentale del vecchio Continente - è stata la Conferenza
paneuropea dei ministri degli Interni e della Giustizia, riunita a
Berlino per discutere i controlli sui movimenti di popolazione. La
Conferenza, a cui hanno preso parte 28 Paesi della Cee, dell'Efta
e dell'ex blocco comunista, si è misurata con un problema dalle
dimensioni drammatiche: secondo l'ultimo studio presentato dall'Alto
commissariato Onu per i rifugiati, la fuga dai Paesi dell'Est potrebbe
coinvolgere nove milioni di persone nei prossimi anni.
Lo spettro di massicce migrazioni verso la benestante Europa occidentale
è ormai ricorrente, da quando la fine dei regimi comunisti
ha spalancato le frontiere (in uscita), e la decomposizione delle
vecchie economie pianificate ha creato eserciti di disoccupati. Ma
negli ultimi tempi sono emerse novità diverse sulla natura
delle pressioni migratorie. Basta dare un'occhiata ai dati sugli ingressi
di stranieri in Germania, il Paese-frontiera che accoglie le maggiori
ondate dall'Est. Nel 1989, finché lo sgretolamento del blocco
comunista era solo al suo inizio, la Polonia si classificava ancora
al primo posto tra i Paesi d'origine degli immigrati. Nel 1990 il
primato è passato alla Romania, ultima a liberarsi dalla dittatura.
Quest'anno, le statistiche disponibili indicano che è la Jugoslavia
la prima terra di espatrio verso la Germania e l'Italia, mentre continua
a crescere e a consolidarsi l'esodo dall'Albania. Questa variabilità
della classifica sta a indicare quanto le turbolenze politiche e i
conflitti di natura etnica possano influire a loro volta sui movimenti
di popolazione. Rispetto ai primi timori affiorati in Occidente dopo
la caduta del muro di Berlino, che vedevano soprattutto nella crisi
economica la spinta alle migrazioni di massa, oggi la valutazione
dei rischi è mutata. La guerra aperta in Jugoslavia, gli innumerevoli
altri focolai di conflitto nell'ex Unione Sovietica, le contese territoriali
che possono riaffiorare di colpo tra Ungheria e Romania, l'endemico
separatismo cecoslovacco, sono tutti potenziali fattori di tensione
e quindi di emigrazione forzata o volontaria. Se l'instabilità
e la violenza dilagano, l'Europa occidentale sarà meta di una
quota crescente di rifugiati politici.
E' già così in Germania, dove il numero di rifugiati
politici supererà quest'anno la soglia dei 250 mila. La Germania
ha intrapreso una revisione delle sue leggi sul diritto di asilo,
considerate ormai troppo permissive. Ma è certo più
facile controllare l'immigrazione di natura "economica".
Più delicato è arginare i flussi imprevedibili di coloro
che abbandonano i propri Paesi sotto la spinta di avvenimenti spesso
tragici.