Nel momento in
cui tutti fanno i conti in casa, incalzati dai dannatissimi parametri
maastrichtiani, e presentano bilanci ipocritamente "aggiustati"
(come in Francia, dove si mettono fuori bilancio i passivi dell'industria
automobilistica protetta per far quadrare le cifre) o aggiornati alla
rinfusa (come in Italia, dove negli ultimi dieci anni le "manovre
aggiuntive" hanno sottratto alle tasche dei soliti noti, quelli
che pagano le tasse, qualcosa come 500 mila miliardi di lire), una
domanda non può essere elusa. Ed è questa: a chi converrebbe
una "Padania verde"? Se l'Italia si divide in due, al modo
dell'ex Cecoslovacchia, chi ci guadagnerebbe, gli agricoltori del
Nord o quelli del Sud? Domanda, ovviamente, futuribile, da ufficio
previsioni e studi. Ma, tanto per mettere le mani avanti, alla Confagricoltura
hanno provato a metter nero su bianco qualche ipotesi, e le sorprese
non sono mancate. La scissione penalizzerebbe soprattutto i produttori
dell'Italia settentrionale, perché riceverebbero meno quattrini
da Bruxelles e perché, con ogni probabilità, vedrebbero
assottigliarsi - a tutto vantaggio delle forti agricolture dell'Europa
continentale - le esportazioni padane, che oggi si dirigono in grandissima
parte verso le regioni meridionali della penisola.
Punto di partenza dell'ipotesi complessiva, le dichiarazioni dei cosiddetti
"economisti della Lega", secondo i quali la divisione in
due dell'Italia attribuirebbe alla futura moneta padana un valore
di cambio più alto rispetto a quello attuale. Ed è vero.
Ma questo significa innanzitutto aiuti comunitari meno cospicui. Lo
sanno bene gli agricoltori per averlo sperimentato in quattro anni
di mercati valutari turbolenti. Tuttavia, è opportuno spiegarlo
agli studiosi di economia valligiana, tanto quanto ai non addetti
ai lavori.
I sostegni comunitari per i vari prodotti agricoli sono stabiliti
in Ecu e una svalutazione o una rivalutazione vuol dire semplicemente
ricevere più denaro o meno denaro in moneta nazionale. Facciamo
un esempio: se un premio è di 100 Ecu per ettaro, si ottengono
200.011 lire con un cambio a 2.011 (quello del febbraio 1995, con
la lira ancora debole), ma solo 190.730 con un cambio a 1.973 (quello
di fine '96, con una lira più in salute). Per gli increduli
a oltranza e per i miracolati dall'ottimismo, va ricordato che il
tasso di cambio agricolo viene adeguato periodicamente a quello giornalmente
registrato dai mercati valutari.
Dal settembre '92, dopo l'uscita dal Sistema monetario europeo, la
debolezza della nostra moneta ha dato una mano agli agricoltori italiani
che, per questa via, hanno visto addolciti gli effetti di una politica
comunitaria tendente sempre più al risparmio: sono anni che
gli aiuti verdi restano inchiodati sullo stesso valore. Adesso, con
una lira che si va rafforzando, succede esattamente l'opposto. Ed
è certo che lo stesso fenomeno si verificherà con una
moneta della cosiddetta "Padania" rafforzata, cioè
più apprezzata della lira attuale. Al Sud, invece, il valore
della moneta dovrebbe scendere rispetto ad oggi e soprattutto rispetto
alla lira padana, e di conseguenza i produttori riceveranno finanziamenti
più ricchi.

Qualche cifra. Gli agricoltori delle regioni padane potrebbero rimetterei
nel settore dei seminativi tra i 366 e i 548 miliardi l'anno, secondo
che la rivalutazione della "lira settentrionale" sia del
20 o del 30 per cento. Un discorso analogo può essere fatto
per altri comparti, a cominciare da quello zootecnico.
Avere meno sussidi significa costi di produzione più alti.
E anche se nel conto venissero messi i vantaggi della probabile minore
spesa per le materie prime d'importazione (come la plastica e i carburanti),
l'esperienza degli ultimi anni fa supporre che non sarebbero lo stesso
sufficienti a far pendere la bilancia verso il segno positivo. In
altri termini: i prodotti agricoli e zootecnici del Nord diventeranno
molto più cari, e questo, unito alle campagne promozionali
dei prodotti locali del Sud (tipo "Consumate prodotti della vostra
regione, contribuirete ad arricchirla e a crearvi posti di lavoro":
che non è male), comporterà il crollo delle richieste
da parte delle regioni del Sud. Magari a vantaggio di altri Paesi,
che già oggi sono diretti concorrenti in alcune produzioni
dell'Italia del Nord. Ma questo gli esperti di economie valligiane
non lo sanno, o fingono di non saperlo.

E ora, sulla base di esperienze positive fatte in aree depresse europee,
un'altra domanda: perché non deve essere possibile costituire
nel Mezzogiorno quelle "zone franche" che sono state la
fortuna di alcuni Paesi continentali a basso indice di sviluppo economico,
come ad esempio l'Irlanda? Ancora oggi, infatti, da noi ci sono notevoli
resistenze a creare queste zone in territori ben definiti della Puglia,
della Campania, della Sicilia. Si straparla di "patto per il
lavoro" nel Sud. Ebbene, il Mezzogiorno deve diventare una delle
aree in cui sia conveniente investire, al pari di altre zone europee.
Ma è bene intendersi subito: se si facesse una politica di
incentivazione uguale per tutto il territorio nazionale, si metterebbero
fuori gioco proprio le regioni più deboli, ossia quelle meridionali,
perpetuando inganni socio-economici ben noti alla storia del nostro
Paese.
In Irlanda, le "free zones" sono due: quella di Shannon
e quella di Dublino. Shannon, definita "zona libera", venne
istituita in prossimità di un aeroporto per sviluppare il commercio
aereo internazionale. In quell'area, peraltro molto limitata, sono
localizzate oltre cento imprese multinazionali, che occupano più
di 13 mila addetti. Gli investimenti negli ultimi sei anni hanno superato
i cinquemila miliardi di lire. E il tasso di esportazione si è
notevolmente accresciuto, toccando il 21 per cento. Le attività
svolte, prevalentemente nel settore aeronautico, sono di tipo manifatturiero,
ma anche di servizi, soprattutto finanziari. Le aziende che si insediano
in questo territorio godono di numerose agevolazioni. Lo Stato, infatti,
predispone tutte le infrastrutture, materiali e immateriali, indispensabili
per gli insediamenti.
Sono previsti sussidi per i canoni di locazione. Ci sono contributi
per la formazione del personale, che in alcuni casi raggiungono l'intero
costo dei corsi, anche se seguiti all'estero. L'aspetto più
interessante è che la tassazione sugli utili delle società
non supera il 10 per cento, laddove l'aliquota normale si aggira attorno
al 40 per cento.
C'è poi il 100% di ammortamento fiscale sull'impianto e sulle
strutture. E si può godere dell'esenzione dall'Iva sull'importazione
e l'acquisto di merci da altre società ubicate nella "zona
franca". Per particolari disposizioni normative, anche di carattere
internazionale, è facilitata la reintroduzione dei capitali
nelle nazioni d'origine. Alternativamente, le imprese possono decidere
di reinvestire i profitti di operazioni particolarmente vantaggiose.
Sono concesse, infine, l'esenzione da dazi sulle merci importate per
tutto il tempo in cui stazionano nell'area di Shannon e dal pagamento
della ritenuta d'acconto sugli interessi pagati a non residenti. Le
aziende che intendono ubicarsi in quest'area hanno bisogno di un'autorizzazione
dei ministero dell'Industria irlandese, mentre le agevolazioni sono
erogate dall"'lrish Development Authority", che negozia
con chi vuole investire, tenendo conto sia della validità del
progetto che dell'impatto occupazionale.
La durata delle agevolazioni è fino al 2005 per le finanziarie
e al 2010 per le imprese manifatturiere. L'altra zona franca è
quella dublinese, denominata "Customs House Docks Area":
vi si sono stabilite multinazionali specializzate in attività
finanziarie o assicurative. Anche in quest'area c'è un'aliquota
ridotta al 10 per cento sugli utili.