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L'AGENZIA MAGNUM |
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Franco
Barbieri
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Semplici e immediate
considerazioni sull'immagine fotografica ci hanno fatto intraprendere
un itinerario di approfondimento; l'esposizione, succinta nella misura
consentita e disponibile in questa sede, di alcune elementari e conseguenti
riflessioni ha rivelato un inatteso substrato di argomentazioni e
motivazioni complesse e varie.
La rappresentazione fotografica, al pari di qualunque altra espressione, appartiene all'attività umana e, come tale, non può non essere ricca di aspetti emozionali e culturali. Al suo linguaggio si applicano le categorie logiche, i metodi e le regole che fanno parte del bagaglio, acquisito nel tempo, di teorie, sperimentazioni e verifiche. La fotografia, pur con la sua peculiarità, novità e profonda diversità, non fa eccezione. Lo sviluppo storico, tecnico e stilistico ovvero le motivazioni, il genere e gli autori sono stati elementi di classificazione e analisi di prodotti fotografici per consentire, almeno, la possibilità di stabilire comuni riferimenti. Così, oggi, è possibile intendersi quando si parla di "fotoreportage". Il reportage, cioè la narrazione di avvenimenti accaduti, di luoghi visitati e genti incontrate, è antico quanto l'uomo, rappresentando l'esigenza del testimone di raccontare e riferire, dell'ascoltatore di udire e immaginare, del saggio di interpretare, sviluppare e finalizzare. Ma sino all'avvento della fotografia il racconto orale o scritto, mediato dal narratore, non riportava l'immagine della "realtà"; il racconto stesso diventava la "realtà", tant'è che anche quello inventato poteva assumere il significato e il valore del vero. L'immagine fotografica è, al contrario, la traccia e il segno della "realtà", rappresentazione di ciò che è fuori di noi, che di per sé esiste già. Nel fotoreportage, apparentemente, lo sdoppiamento fotografico, cioè la materializzazione dell'immagine mentale, sembrerebbe mostrare il suo limite in quanto la formazione della stessa potrebbe apparire molto condizionata e determinata dall'accadimento. Si constata, invece, esattamente il contrario: la fotografia giornalistica dipende grandemente dall'autore, la cui cultura, sensibilità, capacità e il cui coraggio, temperamento e tempismo determinano la riuscita e l'efficacia della foto; successivamente, la pubblicazione e la diffusione, in genere operata dall'editore, sono il risultato di ulteriori selezioni e, spesso, di modificazioni - conseguenti all'aggiunta di titoli, didascalie e alla positura e al rilievo nella pagina - che fanno assumere all'immagine significati diversi da quelli espressi dall'autore, al quale può accadere di perderne, oltre ai benefici economici, anche la paternità e la proprietà. Sulle varie occasioni e forme di reportage, in assoluto, ha sempre avuto risalto la cosiddetta fotografia di guerra. La battaglia avvenuta tra le truppe francesi e i patrioti della Repubblica Romana, che ebbe luogo sul Gianicolo di Roma nel luglio del 1849, sembra essere stata una delle prime occasioni di realizzazione di fotoreportage di guerra, il cui autore risponde al nome del lombardo Lecchi. Ma nella comune conoscenza come primo fotografo di guerra viene citato Roger Fenton, fondatore della Royal Photographic Society, che venne mandato in Crimea, ove era in corso il conflitto turco-russo che vedeva schierati gli inglesi e i francesi accanto alla Turchia, per documentare e rendere testimonianza delle condizioni dei soldati inglesi che l'inviato del giornale Times aveva descritto essere disastrose; Fenton aveva il compito di mostrare e dimostrare, se non il contrario, almeno che quanto riferito non corrispondeva al vero. Egli compì egregiamente l'opera creando, però, e sin dalla recente nascita della fotografia, un falso propagandistico che sarebbe diventato in seguito un modello usato ed abusato. Invece della morte, delle privazioni, delle malattie - era in corso un'epidemia di colera -, della paura, cioè di tutti i demoni della guerra, egli registrò sulle lastre fieri e raffinati ufficiali intorno al tavolo dei piani tattici e strategici, baldi soldati in pose eroiche o nelle pause di riposo, gentili e premurose signorine, le future infermiere, impegnate a soccorrere i feriti senza un graffio, scene di battaglie create a bella posta per l'occasione; in una parola, seppe allestire, per adempiere al compito e alle finalità assegnate, un insieme di sets fotografici. Siamo nel 1855. La monumentale e organizzata opera aveva dimostrato l'eccezionale forza del mezzo fotografico che, seppur moralmente censurabile, aveva dato prova della sua grande efficacia grazie alla grandissima perizia tecnica e alla capacità organizzativa e logistica, considerate, ancor oggi, esemplari. Si deve all'evento della Guerra di Secessione Americana e alle fotografie di Mathew Brady se le immagini "portano nelle nostre case la terribile realtà della guerra nei suoi minimi particolari", come affermava un editoriale del New York Times dell'epoca. L'autorappresentazione enfatica e celebrativa della nazione, dell'esercito e della divisa, lasciava il passo alla descrizione del drammatico e cruento avvenimento della guerra. La pittura ha la capacità di trasfigurare e inventare il suo oggetto, mentre la fotografia lo mostra e dimostra a prescindere dalla sua natura di verità. L'autore fotografico, quando è indipendente e non condizionato, generalmente è teso a dare la rappresentazione dell'esistente, anche quando questo, per fini diversi, è da qualcun altro falsificato. L'indipendenza dell'autore fu il principio e la necessità che condussero alla costituzione della "Magnum Photos Inc.". Nel 1934, per un puro caso, su un autobus di Parigi, si incontrano e fanno conoscenza Henri Cartier Bresson (detto HCB) e David Szymin (detto Chim o Seymour); galeotto era stato un obiettivo di un apparecchio fotografico Leica, da quest'ultimo appena acquistato. Qualche settimana più tardi al Cafè Dome, ritrovo di intellettuali e di artisti, alcuni dei quali rispondevano al nome di Ernest Hemingway, Henry Miller o Aragon, Chim presenta al suo nuovo amico un certo signor Andrè Friedmann, che ben presto assumerà il nome di Robert Capa. Non vi potevano essere due persone più dissimili di HCB e Capa: il primo introverso e silenzioso, occhialuto e mingherlino, proveniva dalla pittura, il secondo estroverso e rumoroso, alto e robusto, era un ebreo ungherese transfuga. Tra i tre, Chim, HCB e Capa, nasce una grande amicizia. Nel 1939 per incarico della rivista Life, - il cui primo numero era uscito nel 1936 e che si avvaleva di ottimi fotografi e dei servizi di telefotografia iniziati nel 1935 dalla "Associated Express" - Capa è in Cina e in una lettera ad un amico, riferendosi a Simon Guttman, suo patron, mostrando evidenti segni di insofferenza, così scrive: "Pensa che tutto gli appartenga, il mio laboratorio, il mio futuro, il mio viaggio in Cina". Qualche giorno dopo, scrivendo ad un altro amico, Capa dà notizia, come riporta Jean Lacouture, "di aver fondato un gruppo di giovani fotografi" e che intende creare in Europa un'organizzazione con HCB e Chim, aggiungendo che, in ogni caso, non si sarebbe trattato di un'agenzia di stampo tradizionale. Questa primitiva intenzione ha bisogno di alcuni anni per maturare, soprattutto in attesa della fine della guerra. Finalmente nell'aprile del 1947, nel ristorante del Museum of Modern Art di New York, l'accordo viene raggiunto e il 22 maggio dello stesso anno l'agenzia "Magnum Photos Inc." è iscritta nel registro della Contea di New York. I fondatori sono: Robert Capa, Henri Cartier Bresson, David Seymour, George Roger, William e Rita Vandivert; quest'ultima ne assume la presidenza. L'originalità della scelta del nome Magnum aveva lo scopo di nobilitare l'espressione fotografica e darle quella dignità che tra la gente comune ancora non aveva; il nome latino oltre a unire tra loro tutti i fondatori di varie nazionalità - ungherese, francese, polacca, inglese, tedesca e americana - rispose, all'evidenza dei fatti, bene allo scopo. Per Capa, poi, che oltre ad essere un accanito giocatore era anche un grande consumatore di liquori, quel nome usato già per una famosa etichetta di Champagne aveva anche un significato propiziatorio e piacevole, tanto che da quel momento ogni successo del gruppo verrà festeggiato con l'apertura di una di quelle bottiglie. Ciascuno dei componenti dell'agenzia aveva maturato individualmente proprie esperienze e affermato la propria capacità nei confronti dei lettori e quindi delle agenzie di stampa; solitari e individualisti, di carattere e cultura diversi, si unirono perché mossi da una spinta di carattere pragmatico e utilitaristico, ma anche e soprattutto da una comune, impellente esigenza ed ansia di libertà e di scelta. Così Romeo Martinez sintetizzò efficacemente: "Un fotografo non è nulla se non possiede i propri negativi. Capa e i suoi amici avevano inventato il diritto di autore nel campo della fotografia". Aggiunge Jean Lacouture: "Concepita con una struttura elastica e semplificata sul piano burocratico, la cooperativa lasciava a ciascun fotografo ampia libertà di scelta". Ernst Hass, che dal 1948 al 1966 fu socio di "Magnum", arrivò ad affermare che Capa, Chim e HCB con la creazione dell'agenzia vollero attribuire alla fotografia il concetto che nella vita nulla è banale e comune, ma che tutto è fonte di attenzione e nutrimento. Dei sei fondatori
dell'agenzia, George Rodger fu il più schivo e non assunse
un ruolo particolarmente rilevante ma, da grande professionista e
per di più britannico, supportò costantemente, con il
proprio prestigio e il suo innato garbo, l'operato degli altri; i
coniugi Vandivert dovettero abbandonare la cooperativa in quanto legati
alla rivista Fortune, per cui la storia e lo spirito della "Magnum"
appartengono, soprattutto nei primi anni, al' restanti, e più
famosi, tre soci. Negli anni che
seguirono si recò in Israele, in Polonia, in Marocco, in Indocina
e Laos, testimone delle piccole tragedie degli uomini in divisa o
senza; nel Vietnam del Nord, saltando in aria per lo scoppio di una
mina, divenne anche protagonista e confermò, se ve ne fosse
stato bisogno, l'affermazione di Riboud: non era un imbroglione.
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