La terra d'origine
della dinastia borbonica è a metà strada lungo l'asse
Parigi-Lione, in una regione collinosa percorsa dal fiume Allier che,
dopo averla attraversata da sud a nord, si getta nella Loira, e dà
il nome all'attuale dipartimento, quello di Allier, appunto, con capoluogo
Moulins. A 25 chilometri da questa città sgorgano due fonti
di acque sulfuree, note già al tempo dei romani col nome di
Aquae Borvonis o Borbonis. L'intera area era, nel IX e al principio
del X secolo, un feudo dei conti di Bourges, dei quali erano vassalli
i signori di Bourbon, che presso le antiche sorgenti avevano il loro
castello, di cui oggi restano in piedi tre vecchie torri. Fu intorno
al 913 che i Borbone si liberarono dalla dipendenza di casa Bourges
e divennero vassalli diretti della Corona.
Già prima d'allora era fiorita nella regione una leggenda.
Si narrava che nel V secolo alcune migliaia di veneti, scampati alle
devastazioni di Attila, avevano chiesto e ottenuto asilo presso le
fonti di Borbone, e vi erano rimasti per circa quarant'anni. Rientrati
nella loro patria, avevano fondato su un certo numero di isolette
la città di Venezia. Un'altra leggenda celebrava invece quale
primo signore di Borbone un Childeprando, o Hildebrando, figlio di
Pipino di Héristal, e dunque fratello di Carlo Martello.
Fuor di favola, il capostipite storico dei Borbone affrancati dal
vassallaggio è accertato in un Aimar (o Adhemar), al quale
Carlo III il Semplice concesse, nel 913, in feudo diretto, la splendida
terra di Bourbon. Aimar, ricordato come eccellente guerriero, veniva
in questo modo ricompensato per l'aiuto militare da lui dato al re
con le proprie milizie e, da parte sua, cercò di rendere anche
più illustre il proprio nome, fondando a Souvigny, a due ore
di marcia dalle Acque di Borbone, un'abbazia che divenne in seguito
famosa e potente.
Da Aimar discese un Aimone, e da costui tutta una serie di conti chiamati
Archembaut, o Archambault, il quinto dei quali prese in moglie una
Agnese contessa di Savoia e sorella di Alice, moglie di re Luigi VI
di Francia. Da essi l'antica terra di Aquae Borbonis prese il nome
di Bourbon-l'Archambault, che conserva ancora ai nostri giorni.
Con Archambault V, cui era premorto l'unico figlio maschio, la linea
prima dei Borbone si estinse. Ma la casata risorse più splendida
che mai, quando la nipote di Archambault, Beatrice,, andò sposa
a un Roberto di Clermont. Costui era un folle, ma era il figlio sestogenito
di Luigi IX, cioè di San Luigi, re di Francia. L'autentico
sangue dei re capetingi si congiungeva con quello dei discendenti
di Aimar. E scorreva nelle vene di Luigi I di Borbone, il figlio di
Beatrice e del matto Clermont, che ottenne dalla Corona il titolo
di Duca.
Aveva inizio così la maggiore scalata al potere della casata.
Enrico IV, passato alla storia per la sua spregiudicata politica e
per le sue repentine e strumentali conversioni ("Parigi val bene
una messa"), fu il primo Borbone sul trono di Francia. E Filippo
V ebbe il trono di Spagna, sul quale dominò sua moglie, l'italiana
Elisabetta Farnese.
Il 10 maggio 1734, di pomeriggio, un gran corteo attraversò
le strade di Napoli, da Porta Capuana alla Reggia, tra marce militari
e salve di cannoni. Il popolo faceva ala al suo passaggio: ma non
tanto all'indirizzo del giovane diciottenne - capelli biondi, occhi
celesti - che faceva il suo ingresso a cavallo, quanto per incitare
i cavalieri che, al suo fianco, lanciavano manciate di monete. Il
giovane era don Carlos di Borbone, figlio di Filippo V e della sua
seconda moglie, Elisabetta Farnese; ed entrava in città come
re delle Due Sicilie, mettendo fine a 230 anni di malgoverno vicereale
e instaurandovi quella dinastia che doveva restare sul trono di Napoli
fino ai giorni dell'Unità italiana.
Sin dalla nascita di don Carlos l'ambiziosa, energica madre, dei Farnese
di Parma, con continui e intricati maneggi, e anche con compromessi
matrimoniali, brigò per procacciargli un principato italiano,
facendo in questo modo del figlio l'incubo incessante delle Corti
e delle diplomazie di tutta Europa. Sicuro è che don Carlos
era un predestinato: non aveva ancora compiuto un anno quando, una
prima volta, gli fu assicurata col Trattato dell'Aia la futura suecessione
negli Stati farnesiani e medicei, avita eredità materna. E
di essi Elisabetta lo invitò a prendere possesso nel 1731:
don Carlos divenne così Duca di Parma e Piacenza e assunse
il titolo di Principe ereditario di Toscana, come erede dell'ultimo
dei Medici, Gian Gastone. Ma l'irriducibile ambizione della regina
di Spagna non si placava ancora: sognava per l'Infante un trono. E
a favorirne i disegni sopravvenne, il primo febbraio 1733, la morte
di Augusto II, re di Polonia.

Aspiravano alla successione Federico Augusto, figlio del re defunto
e futuro suocero di don Carlos, e Stanislao Leszczynski, che su quel
trono era già stato dal 1704 al 1709 con l'aiuto delle armi
svedesi. A favore del primo si schierarono l'Austria e la Russia;
del secondo - anche per vincoli parentali - la Francia, che riuscì
a mettere dalla sua parte la Sardegna e la Spagna. Fu la guerra: ancora
una volta l'Italia divenne teatro di una competizione franco-absburgica.
L'esercito spagnolo nella penisola, guidato dal capitano generale
Giuseppe Carrillo de Albornoz y Montiel, duca di Montemar, fu posto
agli ordini di don Carlos, nominato per l'occasione "generalissimo".
Lasciando ai franco-sardi l'intero compito dell'azione in Lombardia,
Elisabetta diede ordine al Montemar di muovere alla conquista delle
Due Sicilie: "le quali - scriveva al figlio - alzate a regno
libero, saranno tue. Va' dunque e vinci: la più bella corona
d'Italia ti attende".
A quel punto, il Viceré austriaco di Napoli, Giulio Visconti,
bandì la guerra il 19 febbraio e si apprestò alla difesa
mobilitando le province meridionali e attendendo, inutilmente, rinforzi
dall'Austria. La marcia dell'esercito spagnolo iniziò il 24
febbraio e per don Carlos si svolse tra le riverenti sottomissioni
dei prelati e dei nobili, le ovazioni dei popolani, le partite di
caccia e gli spettacoli dei comici e degli istrioni che aveva al suo
seguito. Attraversati gli Stati Pontifici col segreto consenso di
Clemente XIII, gli spagnoli entrarono in territorio napoletano il
28 marzo. Per terra e per mare incontrarono una scarsa resistenza.
Il Viceré, la sera del 3 aprile, messa al sicuro la moglie
a Roma, abbandona Napoli e si rifugia in terra pugliese. Poi si mise
in salvo. Il 6, a Maddaloni, gli Eletti di Napoli - che veniva chiamata
"Città" - consegnarono solennemente le chiavi a don
Carlos. Poi caddero i Castelli (Baia il 23, Sant'Elmo il 25, Castel
dell'Ovo il 2 maggio, Castelnuovo il 6). A quel punto il maggiordomo
maggiore don Manuel de Benavides y Aragon, conte di Santo Stefano,
aprì a don Carlos le porte di Napoli. I forti di Pescara, di
Gaeta e di Capua capitolarono rispettiva/mente il 23 luglio, il 6
agosto e il 24 novembre, mentre nella battaglia di Bitonto (25 maggio)
Montemar sgominò le residue truppe austriache comandate dal
Principe di Belmonte, Antonio Pignatelli.
La conquista della Sicilia venne affidata dapprima a Montemar, nominato
Viceré dell'isola, poi a don Pedro de Castro Figueroa y Salazar,
marchese di Gracia Real. L'isola, dove lo sbarco avvenne il 29 agosto
1734, fu del tutto libera con la resa del forte di Trapani, il 12
luglio 1735. Proprio in questo giorno Carlo, visitate le province
continentali e la stessa Sicilia - dove il 3 luglio era stato solennemente
incoronato a Palermo - faceva ritorno a Napoli "tra le accoglienze
universali e feste tanto prolungate, che volsero in sazietà
e fastidio".
Già dalla metà di giugno era stato reso pubblico il
decreto di Filippo V che cedeva tutti i diritti su quel regno al figlio,
il quale si intitolò "Carlo per grazia di Dio Re delle
Due Sicilie e di Gerusalemme, Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza
e Castro, Gran Principe Ereditario della Toscana"; e allo stemma
di Napoli aggiunse i tre gigli d'oro della Spagna, i sei d'azzurro
dei farnese e le sei palle rosse dei Medici. Nel 1738 la pace di Vienna
- a conclusione della guerra di successione polacca - riconobbe definitivamente
il Regno della Due Sicilie al giovane Carlo: un'altra casata borbonica
era così stabilmente insediata su un trono d'Europa, e anche
sul più vasto regno d'Italia.
Non alto, di corporatura solida, piuttosto bruttino, col volto segnato
dal vaiolo, Carlo era di buona indole, affabile, sinceramente religioso,
rispettoso dei genitori, soprattutto ossequiente alla risoluta tirannia
materna. Era parco nel vitto. Amava la pesca, il biliardo, le feste
e gli spettacoli. Ebbe due passioni predominanti: la moglie Maria
Amalia di Sassonia, della quale fu compagno felice e fedele, e la
caccia, che secondo dicerie verosimili praticò per tener lontana
la perniciosa malinconia della Corte spagnola. I giudizi sul suo governo
sono vari e discordanti, ma la critica storica è sempre stata
orientata verso una valutazione favorevole del regno di Carlo, senz'altro
il migliore dei Borbone di Napoli. Salendo al trono delle Due Sicilie,
il giovane re trovò un paese immiserito e prostrato dalla bisecolare
amministrazione vicereale, spagnola prima, austriaca in seguito. La
nobiltà, perseverando nell'ozio e nell'ignoranza, era decaduta
dall'antica potenza politica dell'epoca angioina e aragonese, ma aveva
accresciuto l'albagia e sfrenato il lusso, malgrado le prammatiche
correttive dei Viceré. Gli ecclesiastici erano circa 75 mila
(su quattro milioni di abitanti), e, in gran numero licenziosi, accentravano
nelle loro mani un terzo delle rendite globali dello Stato. Godendo
di personali immunità, di esenzioni fiscali e persino di una
propria giurisdizione, essi rappresentavano quasi uno Stato nello
Stato.
I ceti medi - che daranno le energie innovatrici -erano prevalentemente
formati da funzionari, da grandi commercianti e da gente del foro,
coloro che la plebe chiamava ironicamente "paglietta" per
il cappello che, con la toga e con l'anello, veniva conferito loro
insieme con la dignità dottorale. Le classi umili vivevano
in condizioni infernali: nella sola capitale si contavano 25 mila
mendicanti, mentre la "maledetta razza" dei contadini (così
erano stati definiti da un canonico dell'epoca) a stento riusciva
a nutrirsi di verdure selvatiche e di pane di frumentone, senza possedere
neppure la terra dove seppellirsi. Il sistema feudale inceppava ogni
processo morale e sociale del paese: meno di un quinto della popolazione
dipendeva direttamente dal Re; il resto, sparso in circa duemila città
e terre feudali, era soggetto ai baroni, di solito esosi e tracotanti,
taluni dei quali, vivendo a Napoli, non si recavano neppure una sola
volta a vedere le loro lontane proprietà.
Si comprende benissimo, dunque, come la fine di una ferrea e rapace
soggezione trovasse consensi e alimentasse speranze in un paese del
genere, nel quale peraltro viva e radicata era la tradizione dell'autonomia,
di cui aveva goduto dal 1104 al 1503, cioè dai Normanni agli
Aragonesi. La stessa presenza del Re valeva senz'altro a frenare,
almeno in buona parte, i continui abusi che dovunque si commettevano
a danno dei deboli e degli inermi, con palese violazione di tutte
le leggi.
Immensi furono i problemi che il monarca dovette affrontare con urgenza:
la trasformazione della struttura dello Stato da feudale in amministrativa;
l'ammodernamento dei sistemi e il radicale riordinamento degli strumenti
di governo, anche per mitigare l'indigenza delle classi più
umili; la ridefinizione dei rapporti tra il Regno e la Chiesa per
ciò che si riferiva non solo alla pretesa soggezione feudale
alla Santa Sede - vassallaggio reso visibile dall'annuale offerta
al Papa di un cavallo bianco e di una somma di denaro, la cosiddetta
Chinea - ma anche per i privilegi e per la potenza economica del clero.
E fu proprio su questo secondo punto che Carlo, grazie soprattutto
all'opera del ministro Tanucci e alla diplomazia dell'abate Celestino
Galiani, Cappellano Maggiore, conseguì i più concreti
successi. Vi concorsero di fatto, da un canto, la larga corrente d'opinione
che, emersa già a metà del '600 con Gaetano Argento,
incontrò i più validi interpreti in Pietro Giannone
e, dal 1737, in Antonio Genovesi, all'epoca giovane e sconosciuto
pretino di provincia; e, dall'altro, le gelosie dei baroni e le ansie
di quanti tendevano a trarre vantaggi dall'abolizione dei privilegi
fiscali fino ad allora riconosciuti alla gente di chiesa. Il Concordato
del 1741, fra l'altro, sottopose a tributi i beni ecclesiastici, restrinse
l'immunità locale e personale, accrebbe i requisiti per il
conseguimento degli ordini sacri al fine di limitare anche il numero
dei preti. Anche il tentativo dell'arcivescovo Spinelli di restaurare,
nel 1746, sotto altro nome il Sant'Uffizio fu decisamente stroncato
da Re Carlo. L'Inquisizione non accese mai un rogo nel regno delle
Due Sicilie.
Meno rilevanti furono i risultati del riordinamento dello Stato. La
più seria riforma fu la compilazione di un catasto (detto "onciario"
o "carolino"), iniziata nel 1740. Ancora oggi se ne conservano
più di novemila faldoni, che riguardano circa duemila "Università"
(Comuni) del Regno. Non si raggiunse una più retta giustizia
distributiva, ma il catasto rappresentò un gran beneficio e
segnò il superamento di procedimenti antiquati. Ciò
si verificò anche in altri settori: evidentemente, tempi e
condizioni del Regno non consentivano riforme a tutto campo. Il Codice
Carolino, che avrebbe dovuto sostituire una secolare stratificazione
di leggi farraginose, rimase solo un progetto; la "Giunta di
Commercio" nominata per migliorare l'economia pubblica, e poi
lo stesso "Supremo Tribunale del Commercio", trovarono un
freno limitativo nel contrasto di coloro che sarebbero stati penalizzati
dalla libertà del commercio e dalla conseguente abolizione
di diritti e prerogative; esiguo fu il riscatto degli "arrendamenti",
vale a dire la riscossione di imposte affidata in appalto ai privati;
l'agricoltura non ricevette impulsi sostanziali, per la persistenza
di arcaici sistemi di conduzione e per la mancata evoluzione dei rapporti
sociali. Tuttavia, questi e altri tentativi valsero a mettere in discussione
metodi e procedure, a identificare deficienze, anacronismi, abusi,
a promuovere indagini e critiche, a sollecitare in ultima analisi
una coscienza nuova, della quale i maggiori fautori furono il Giannone
e il Genovesi che a Napoli fondò la prima cattedra di economia
politica istituita in Europa.
Strade vennero aperte o riattivate, come quella di Venafro, resa rotabile
con la costruzione di un ponte sul fiume Volturno, quella della "Grotta
di Pozzuoli", o il prolungamento della via da Salerno a Persano;
e in diversi luoghi opere edilizie minori furono portate a termine.
Ma sfarzosi furono gli edifici voluti da Carlo, in gran parte completati
o ampliati dal successore: il restauro del Palazzo reale cittadino,
la reggia di Capodimonte, che voleva essere l'opera "più
rilevante d'Europa", con due boschi per la caccia, l'uno delle
pelli, l'altro delle penne; la reggia di Caserta, che si pose all'apice
del fasto borbonico; la reggia di Portici, con la duplice attrattiva
della caccia e della pesca; l'Albergo dei Poveri, ipotizzato già
nel 1736, sull'esempio di Roma e di Genova, dalla Giunta di Commercio;
il Teatro di San Carlo, miracolosamente realizzato nel 1737 in appena
otto mesi.
I successori di Carlo non seguirono il suo esempio di sfarzo edilizio,
che pure aveva caratterizzato, nel '500, il governo del Viceré
spagnolo Pietro di Toledo. Sicché le opere realizzate dal primo
Re di Borbone formano ancora oggi la parte considerevole dei monumenti
civili di cui Napoli possa portar vanto.
Il 10 agosto 1759 morì il fratello Ferdinando VI, ammalatosi
di "malinconia" per la perdita della moglie Maria Barbara.
E Carlo (solo da allora III) fu costretto a lasciare il trono napoletano,
per salire su quello di Spagna, ereditato per testamento. Da Maria
Amalia aveva avuto una numerosa prole. Il primogenito era demente.
Il secondo, Carlo Antonio (il futuro Carlo IV), diventava crede della
Corona di Spagna. Il trono di Napoli toccò al terzogenito,
Ferdinando, di appena otto anni. La cerimonia del commiato fu mestissima.
Il 6 ottobre 1759, Napoli assisté con muto dolore alla partenza
di Carlo. Presagiva che non avrebbe avuto un sovrano illuminato come
lui.
CRONOLOGIA DI UN DOMINIO
1734. Pace di
Vienna. Si chiude la guerra di successione polacca. Carlo di Borbone
diventa Re di Napoli col nome di Carlo III e cede all'Austria il suo
Ducato di Parma e Piacenza.
1748. Trattato di Aquisgrana. Filippo di Borbone, fratello di Carlo
III, ottiene la restituzione di Parma e Piacenza.
1759. Carlo III passa sul trono di Spagna, lasciando la corona napoletana
al figlio Ferdinando IV, assistito da buoni ministri.
1761. "Patto di famiglia" tra i quattro rami regnanti della
Casa Borbone: Francia - Spagna -Napoli - Parma.
1767. Ferdinando sposa Maria Carolina d'Austria, sorella di Maria
Antonietta, e sotto il suo influsso appoggia la reazione.
1798. Ferdinando partecipa alla coalizione contro la Francia ed entra
vittorioso in Roma repubblicana.
1799. I francesi a Napoli. Repubblica Partenopea. I reali si rifugiano
in Sicilia, scortati dalla flotta inglese.
1799. Crollo della Repubblica Partenopea. Ritorno dei Borbone a Napoli
e reazione.
1801. Pace di Lunéville fra Bonaparte e la coalizione europea.
Il re di Napoli deve cedere alla Francia lo "Stato dei Presidii"
e pagare indennità. Il Granduca di Toscana è sostituito
dai Borbone di Parma.
1805. Pace di Presburgo fra Napoleone e gli alleati europei. Il Napoletano
è sottratto ai Borbone, di nuovo esuli in Sicilia, e dato a
Giuseppe Bonaparte, fratello del Corso.
1807. Carlo Ludovico di Borbone, succeduto nel 1803 al padre Ludovico
(già Duca di Parma) sul trono di Toscana, viene spodestato.
La Toscana passa sotto il diretto dominio francese. Anche il Ducato
di Parma, governato dal 1802 da funzionari francesi, viene riunito
alla Francia.
1808. Deposti Carlo IV di Borbone e suo figlio Ferdinando (ramo spagnolo).
Napoleone chiama al trono di Spagna suo fratello Giuseppe. Il Regno
di Napoli passa a Gioacchino Murat.
1815. Caduto il Corso, Ferdinando di Borbone rientra a Napoli dall'esilio
siciliano, sotto scorta di navi inglesi.
1815. Congresso di Vienna. Il Ducato di Parma è assegnato a
Maria Luisa d'Austria. Ma, alla sua morte, dovrà tornare ai
Borbone. Maria Luisa di Borbone ottiene intanto il Ducato di Lucca.
Ferdinando IV, riuniti nuovamente i suoi possessi in Sicilia e nel
continente, prende il nome di Ferdinando I.
1820. Agitazioni carbonare in Sicilia e a Napoli. Il Re concede la
Costituzione, poi la ritoglie con l'appoggio della Santa Alleanza.
1825. Morte di Ferdinando I. Gli succede Francesco I.
1828. Insurrezione del Cilento e repressione a Napoli.
1830. Morte di Francesco I. Gli succede Ferdinando II.
1844. Spedizione dei Fratelli Bandiera in Calabria.
1847. Rivolte a Reggio e a Messina, soffocate nel sangue.
1847. Con la morte di Maria Luisa d'Austria, il Ducato di Parma ritorna
ai Borbone. Carlo Lodovico, già Duca di Lucca, restituisce
questa città alla Toscana.
1848. Rivolta a Palermo, con governo provvisorio. Agitazioni a Napoli.
Ferdinando II il 10 febbraio concede la Costituzione. In marzo invia
truppe a partecipare alla prima guerra d'Indipendenza. Ma ben presto
abolisce la Costituzione (maggio) e richiama le truppe. In settembre,
rivoluzione in Sicilia. Il Re fa bombardare Messina. Rientra nel suo
Stato, appoggiato dall'Austria, il Duca di Parma, che era fuggito
in primavera.
1849. Ferdinando II annulla le ultime resistenze siciliane.
1854. Assassinio di Carlo III di Borbone, Duca di Parma.
1859. Morte di Ferdinando II. Gli succede Francesco II.
1859. La Duchessa Maria Luisa di Borbone, vedova di Carlo III e tutrice
del piccolo Duca Roberto, lascia Parma, dove viene creato un governo
provvisorio.
1860. Spedizione dei Mille. In giugno Francesco II concede la Costituzione.
In settembre lascia la sua capitale e si rifugia a Gaeta. Garibaldi
e più tardi i piemontesi occupano il regno delle Due Sicilie.
1861. Il 12 febbraio è espugnata Gaeta. E' la fine del Regno
borbonico nell'Italia del Sud.
|