L'immagine fotografica
è per prima cosa la registrazione di quanto è dinanzi
alla camera, e se l'oggetto ripreso è il volto umano, cioè
il ritratto, essa rivela l'identità somatica. L'immagine offre
la possibilità di rilevare, attraverso un'analisi più
completa e oggettiva, gli elementi costitutivi e comparativi meglio
di come può essere realizzato dalla descrizione letteraria
o dalla rappresentazione grafica; tra l'altro, assume la proprietà
di essere utilizzata anche per scopi scientifici e di ricerca che
possono essere premessa alla definizione della similarità,
della tipicizzazione o della differenziazione.
Dalla registrazione di un sufficiente numero di individui, ciascuno
con i propri e peculiari caratteri, possono essere compilati mirati
inventari dai quali estrarre elementi utili alla ricerca di caratteristiche
comuni e, sotto alcune condizioni, generalizzabili oppure, viceversa,
alla ricerca di particolarità differenti e, quindi, identificabili.
Si formano così inventari di tipicizzazione ovvero di identificazione.
La fotografia, con tale caratteristica e così finalizzata,
viene a trovarsi contigua alla scienza dell'uomo, detta antropologia.
La più importante manifestazione e definizione di tale scienza
può farsi risalire a Kant che nel 1798 pubblicò l'opera
dal titolo Antropologia Prammatica, da lui definita "dottrina
della conoscenza dell'uomo concepita sistematicamente".
Nella concezione kantiana l'"antropologia prammatica" è
tutto ciò che si riferisce all'uomo quali che siano i suoi
fini, mentre quella che chiama "antropologia pratica" tratta
di quanto concerne l'azione morale. Da quest'ultima discende, tra
l'altro, la "caratteristica antropologica", che determina
in che modo e da quali dati e segni esterni è possibile conoscere
i moti interni dell'uomo. Questo filo di riflessione filosofica, continuato
da Hegel, da Lotze e da Rosmini, ha sino all'Ottocento condotto all'apparire
delle scienze psicologiche.

Ma un altro aspetto, definibile naturalistico, ha le sue radici nella
cultura greco-romana e si sviluppa nel tempo a seguito delle esplorazioni
del pianeta, dell'evoluzione delle scienze naturali, del rinvenimento
di resti preistorici, dei progressi dell'anatomia, e, soprattutto,
dell'esplosione della teoria dell'evoluzione di Darwin, delle leggi
di Mendel, della visione di Gobineau e di Blumenbach, ritenuto quest'ultimo
il vero fondatore dell'antropologia moderna; sino ad arrivare ad Edwards,
che nel 1839 istituì la Società di Etnologia, ovvero
di antropologia etnologica, per poter costituire e verificare la "dottrina
della, razza", che nei suoi studi riguardava quella dei popoli
europei. Da queste basi si sviluppò l'opera di Lombroso e dell'antropologia
criminale.
Cesare Lombroso nacque a Verona nel 1835 e si laureò a Pavia
nel 1858 presentando la tesi Ricerche sul cretinismo in Lombardia,
pubblicata l'anno successivo; fino al 1865 fu medico dell'esercito
e in questo stesso anno svolse Studi per una geografia clinica italiana
che divenne una fonte, tra le più importanti, per la formazione
di una legislazione sanitaria nazionale.
Primario a Pavia e poi direttore del manicomio di Pesaro, nel 1876
approdò a Torino ove dapprima fu ordinario di medicina legale
e nel 1896 ordinario di psichiatria e infine, nel 1905, ordinario
di antropologia criminale.
Ispirato dalla concezione materialistica dell'uomo, Lombroso identificò,
e tese a spiegare, i comportamenti delinquenziali come derivanti dalle
caratteristiche somatiche, che egli chiamava anomalie fisiche, fondando
di fatto una nuova scienza, l'antropologia criminale; il delitto era
da lui inteso come un incidente anomalo dell'evoluzione della specie
e una morbosità dell'individuo, per cui compito della società
diveniva quello della prevenzione sociale e della cura del cosiddetto
delinquente.
Alcuni titoli delle sue pubblicazioni già indicano il percorso
seguito: Genio e follia del 1864; L'uomo bianco e l'uomo di colore
del 1871; L'uomo delinquente e L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia,
alla giurisprudenza e alle discipline economiche del 1876 che rimangono
testi fondamentali dell'antropologia criminale; Il delitto politico
e la rivoluzione del 1890; La donna delinquente, la prostituta e la
donna normale del 1893; L'uomo di genio del 1894; Genio e degenerazione
del 1898; Lezioni di medicina legale del 1900.
Le teorie e gli studi del Lombroso, grazie all'attenzione suscitata,
consentirono l'evoluzione della sociologia criminale estendendo l'indagine
dalle considerazioni morfologiche del "delinquente" ai molteplici
aspetti della vita dello stesso, per poter formare e applicare una
"profilassi e terapia del delitto".

La fotografia può assimilarsi all'antropologia così
come è andata formandosi dalla seconda metà dell'Ottocento
in poi, tant'è che tra i vari mezzi antropometrici ha occupato
un posto di rilievo. La fotografia infatti riproduce tutti gli elementi
somatici consentendo la rilevazione e la comparazione della fisionomia
umana, in modo più completo e oggettivo rispetto ad una descrizione
dell'osservatore e del ricercatore scientifico.
Scopo della scienza è la ricerca e la definizione di tipizzazioni
estraibili da un'accumulazione di indizi che nella fotografia sono
contenuti nell'attimo e nell'accumulazione di attimi.
La registrazione di una sufficiente quantità di individui,
ciascuno con propri lineamenti e atteggiamenti, consente la compilazione
di un inventario umano dal quale è possibile estrarre elementi
comuni che divengono le caratteristiche di "tipi".
A differenza delle foto segnaletiche, ove le caratteristiche sono
elementi di diversificazione e quindi di identità, gli inventari
di ricerca antropologica tendono a rinvenire negli elementi comuni
ciò che può essere classificato tipico di qualche gruppo,
o patologico o criminale o razziale.
Non si può dire che la ricerca antropologica abbia ricevuto
un particolare e decisivo impulso dalla nascita della fotografia,
ma di certo si è avvalsa, nel suo sviluppo, in maniera determinante,
del concorso di questa, che ha prestato però il fianco anche
ad un'utilizzazione equivoca e pregiudizialmente tendenziosa.
La suggestione dell'immagine fotografica non è stata infatti
asettica ed esente da elementi politici e contingenti, da finalità
di parte e interessate, come invece era nelle intenzioni dei ricercatori.
Tale aspetto, esterno all'uso prettamente scientifico della tecnologia,
mai sottovalutabile in genere, nel caso in esame è stato molto
rilevante nei suoi effetti e purtroppo ha avuto anche grande diffusione
soprattutto nella prima metà del nostro secolo. Infatti si
osserva che nell'immaginario collettivo la tipicizzazione somatica
di alcune categorie di esseri umani ha grandemente pesato e pesa sulle
conseguenti considerazioni e valutazioni, creando pregiudizi che sono
risultati, e risultano, difficilmente modificabili.
Ebrei, uomini di colore, malati mentali, categorie di "delinquenti",
figure di alcune categorie sociali, artisti, gay, ecc. e in genere
tutti i "diversi" rispetto a una pretesa normalità
hanno avuto e hanno corrispondenti immagini che a un primo sguardo
devono conformarsi alla rappresentazione del pregiudizio esistente
che li riguarda.
Quando la ricerca scientifica viene data in pasto alla natura umana
nelle sue manifestazioni perverse e interessate, muta i propri connotati
e va contro i motivi che l'hanno suscitata.
L'assunto dell'antropologia è quello di verificare l'esistenza
di corrispondenza tra i comportamenti e i lineamenti somatici, mentre
invece, nel comune diffuso giudizio popolare, i lineamenti somatici
divengono lo sdoppiamento della rappresentazione di nocivi e condannabili
sentimenti. Nel teatro tale funzione apparteneva alla maschera, oggi
si manifesta nella fotografia. Lo scarso approfondimento e la carenza
di riflessione riguardo alle nuove e numerose informazioni producono
effetti contrari e più devastanti dell'antica ignoranza.
Nella considerazione della grande importanza che oggi, e sempre più
in futuro, riveste la comunicazione, la quale utilizza fondamentalmente
il potere sintetico, simbolico e suggestivo dell'immagine, la contiguità
tra antropologia e fotografia assume un importante rilievo.
La stretta correlazione esistente tra rappresentazione e comunicazione
ha reso sempre più significativa, nei suoi aspetti sia positivi
sia negativi, l'immagine fotografica.
Questa, anche quando si forma per fini definibili "nobili",
per esempio scientifici, può andare incontro a soddisfare altre
esigenze totalmente differenti.
Così il nostro secolo è stato testimone di aberranti
utilizzazioni di mezzi nati per realizzare le migliori intenzioni
e rivelatisi invece strumenti di discriminazione e di dolore. Le ricerche
sulla razza avevano lo scopo principale di comprendere l'origine e
la diffusione della specie umana attraverso le differenze riscontrabili
tra i popoli e i Paesi. La fotografia risultava essere un idoneo e
utile mezzo di documentazione e ricerca, pertanto venne ampiamente
sfruttato. Quando le differenze documentate fornirono un supporto
a tesi di potere e di potenza, quelle stesse immagini servirono a
formare "tipi razziali", ai quali furono applicate mostruose
caratteristiche facilmente identificabili, quindi, dai caratteri somatici.
Questo per via della potenza insita nell'immagine fotografica, che
porta a identificare in ciò che appare tutto un complesso di
sensazioni, di motivazioni, di emozioni.
La fotografia dell'essere umano, in particolare il ritratto, nell'ambito
della percezione e della conoscenza, è paragonabile all'incontro
"reale", più o meno casuale, con esso. La sensazione
che si avverte nell'incontro con "l'altro", e quindi il
giudizio inconscio che si formula, si basa sull'apparenza del suo
rappresentarsi e nel nostro rappresentarlo. Un difetto fisico tende
a suscitare un moto di ripulsa, qualche volta di curiosità,
raramente di pietà, così come un sorriso disteso può
alimentare la simpatia e predisporre l'animo all'accoglienza. In particolare,
lo sguardo che incrociamo è capace di scaricare effetti tra
loro contraddittori e contrastanti a seconda di come si presenta e
atteggia, al punto di farci ritenere capaci di leggere anche i sentimenti
e le intenzioni più intimi. Le espressioni del viso sono un
veicolo di comunicazione fondamentale, ancor più della parola
e del linguaggio, come dimostra l'incontro con lo "straniero".
Ogni soggetto umano di una fotografia è, per chi guarda, uno
"straniero", che parla, nel suo silenzio, un linguaggio
ignoto; così come straniero è -qualunque "diverso",
perché ha una comunicazione che ci risulta ignota.
La comunicazione tra lui e noi non può che essere visiva, somatica
e comportamentale. Un inventario antropologico dovuto e ispirato da
una ricerca finalizzata diviene, invece, per un comune non preparato
osservatore, un gruppo, formato però da tanti individui diversi
con ciascuno dei quali viene a stabilirsi un muto colloquio. Cosicché
quell'insieme di immagini modifica il proprio significato.

E' ciò
che accade con le immagini lombrosiane. La considerazione della vicenda
personale del soggetto, e dell'osservatore, prevale sulle motivazioni
e le finalità della raccolta delle immagini. L'immagine si
carica di significati nuovi e imprevedibili con successivi effetti
ancor più inaspettati.
Inventari e classificazioni possono considerarsi come indizi di identità
individuale, sociale e nazionale. Così l'Atlante della geografia
antropologica d'Italia, di Rodolfo Livi, scritto nel periodo tra il
1859 e il 1863, rappresentò un curioso e interessante tentativo
di raggruppare le giovani reclute del nascente Stato unitario in statistiche
varie e originali, e qualche volta anche bizzarre; purtuttavia consentì
non poco ad avere consapevolezza delle diversità delle genti
che confluivano nel nuovo Stato, come pure degli aspetti comuni e
capaci di avvicinarli.
Al fondo delle ragioni del "realismo", come espressione,
e nelle motivazioni dei suoi esponenti - quindi anche nella fotografia
- il timore maggiore consisteva nelle "manipolazioni" del
dato ritenuto semplice, grezzo e naturale. La fotografia, poi, esasperava
le riserve contenute nell'idea del "realismo" quale movimento,
poiché l'immagine dell'uomo, non essendo generalizzabile, non
poteva essere ridotta a "identità indistinta". Da
migliaia, milioni di ritratti si potevano solo riconoscere "tipi"
rappresentativi di gruppi, per cui la ricerca era indirizzata a trovare
il "caso rappresentativo". Ma la conoscenza e la scienza,
quando si occupano dell'uomo, non possono sottrarsi al giudizio morale;
così è anche per la fotografia, per la quale leggere
un volto corrisponde alla lettura della mano del chiromante.

L'identità del soggetto fotografato, la sua impossibile generalizzazione,
è la vera novità dell'immagine fotografica rispetto
a tutte le altre note rappresentazioni. Il soggetto è inequivocabilmente
se stesso, e per di più in quel preciso momento in cui è
ritratto. Non altro. Ogni particolare del viso, del corpo, dell'espressione,
dell'abito e dell'ambiente che lo avvolge, gli appartiene necessariamente;
ma uno, o più, dei particolari può essere posseduto
da qualcun altro, e allora tutti quelli che hanno in comune quel particolare
possono ritenersi appartenere a un gruppo, per formare delle classi
e quindi estrarre dei tipi caratteristici di quella classe. Tale processo,
che viene generato dall'immagine, può ed è applicato
su qualunque oggetto di ricerca.
Ma - c'è sempre un "ma" quando si tratta della rappresentazione
- resta pur sempre da fare i conti con quella che il Bertelli chiama
"inquietudine fotografica", cioè l'essere la fotografia
comunque testimonianza anche quando il suo scopo prefissato sia meramente
descrittivo. La testimonianza suscita l'analisi, questa l'opinione
e il giudizio.
Così la foto n. 1, che era parte della cartella clinica di
una paziente di un istituto di Venezia del 1880 e come tale documentazione
di una patologia, assume anche un significato di testimonianza, di
esempio, dei metodi terapeutici del tempo, basati sulla costrizione
fisica usata come mezzo di normale procedura, come si può rilevare
dal comportamento delle "infermiere" naturalmente adottato
persino in occasione della ripresa fotografica.
La stessa impressione si ricava dalla foto n. 2, ove sorprende il
gran numero delle addette - forse per ragioni di protagonismo e di
auto rappresentazione -, mentre la presenza delle inferriate nella
scena, insieme al contenimento della malata sulla sedia, suscita l'idea
di un'esecuzione capitale. Alla stessa pena sembra condannata la donna
incatenata, tenuta per la testa e dall'aspetto di una Giovanna d'Arco
di Dreyer, della foto n. 3.
In altre occasioni il soggetto è astratto da un qualsiasi contesto
cosicché, nella foto n. 4, l'uomo è ritratto nelle tre
posizioni lombrosiane - di fronte, di dietro e di profilo -, e viene
descritto dalla didascalia "epilettico e antropofago" per
meglio definirlo e classificarlo, secondo l'idea e il principio che,
ritratto in tal modo, il soggetto incentra solo su di sé l'attenzione,
soddisfacendo alla curiosità descrittiva, garanzia del distacco
dal contesto; tale pratica era comune e adottata per l'uso finalizzato
alla pittura.
Quanto detto riguardo all'elemento comune che può essere estratto
da immagini di definite individualità si verifica nella foto
n. 5, ove i tre bambini sono per caratteristiche somatiche ed espressioni
tra di loro molto diversi, ma accomunati dalla misera giacchetta indossata
e dallo sguardo profondo e perso. Nello sfondo un liso telo, forse
una vecchia e logora coperta, nasconde probabilmente strumenti di
lavoro giacché qualcosa di simile ad un tavolo si intravede
sulla destra. La fotografia, che è parte dell'archivio del
Fondo Lombroso di Torino e che doveva documentare una patologia, assume
altresì il valore di testimonianza delle tremende condizioni
sociali in cui versavano migliaia di poveri bambini soli e abbandonati.

Dallo stesso archivio proviene la foto n. 6 nella quale, sempre ai
fini di documentazione clinica, è una donna, una prostituta
illuminata dal lampo del magnesio - che l'investe con la sua luce
innaturale - che appare sorpresa ma, nello stesso tempo, rassegnata
alla violenza fotografica; il fondo è squarciato da una debole
e fredda luce che illumina alcuni semplici arredi di modesta e squallida
fattura.
Da un punto di vista fotografico, sono quasi tutte foto che vengono
definite realiste, per la caratteristica di avere come soggetti personaggi
presi dalla vita di tutti i giorni nel loro ambiente.

Si era da subito compreso e presunto che il nuovo mezzo fotografico
avesse in sé la potenza e il dono di rappresentare la "realtà"
immune da interpretazioni che ne smussassero la forza e l'impatto.
Non è un caso che artisti come Verga, Capuana e Michetti apprezzassero
e facessero uso della fotografia riconoscendo ad essa la rimozione
di intenti estetici a favore di un assoluto verismo, in linea con
le idee di Darwin, per il quale la rappresentazione scientifica non
doveva essere deviata da scopi estetici.
Charles Darwin nel 1872 aveva stabilito un rapporto con RejIander,
pittore e fotografo inglese, in cui, al di sopra delle tesi, fu raggiunta
la fusione tra la fotografia che registra l'espressione e la fotografia
quale espressione.
Espressione, e quindi testimonianza, della fotografia rende simili
l'immagine delle infermiere che forzano il capo della malata con quella
del bersagliere che con violenza mostra la testa del brigante ucciso
(cfr. Apulia, I, marzo 1998, p. 94, foto n. 9, N.d.R.), confermando
che la ricerca descrittiva risulta inscindibile da tutti gli altri
parametri confluenti nell'immagine fotografica.
Un'ulteriore conferma viene dall'attualità: nel n. 11, marzo
1998, del supplemento "Sette" del Corriere della Sera viene
recensito e commentato, con alcune foto pubblicate, il libro The Killing
Fields dei fotografi Doug Niven e Chris Riley che hanno raccolto le
immagini di uomini e donne, soprattutto giovani, riprese da un altro
fotografo, cambogiano, di nome Nhem Ein, negli anni Settanta: immagini
che li mostrano, come in un album di fantasmi, pochi momenti prima
della loro esecuzione da parte dei Khmer rossi. Sono volti emaciati,
spesso feriti, con le labbra serrate, quasi di bambini con lo sguardo
disperato o perso o rassegnato, comunque fisso verso l'obiettivo.
La loro espressione, registrata nell'immagine fotografica, resta come
documento e testimonianza.