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          Il ritardo economico 
            del Mezzogiorno rispetto al Settentrione non si colma. Accantonati 
            gli entusiasmi, alcuni persino "fuori misura", per aver 
            centrato l'obiettivo europeo, sono ormai le statistiche a riportare 
            Parlamento e governo di fronte all'evidenza di una recessione che, 
            avendo colpito quasi tutta la penisola, per buona parte di essa è 
            ormai distante, mentre continua ad incalzare le regioni meridionali. 
            La ripresina, com'è noto, non ha ripristinato il milione e 
            mezzo di posti di lavoro andati in fumo in Italia tra il 1992 e il 
            1994. Le cause della "ripresa avara" di posti di lavoro 
            sono note: in primo luogo, l'austerità fiscale che ha compresso 
            i consumi interni; quindi, le ristrutturazioni che, per la prima volta, 
            non hanno riguardato soltanto l'industria, ma anche il settore creditizio 
            e quello del commercio al dettaglio; infine, il prolungato "fermo" 
            dei lavori pubblici e il taglio dei consumi collettivi, almeno in 
            termini di tendenza. Si è in questo modo chiusa, o molto ridimensionata, 
            l'epoca delle assunzioni facili nelle pubbliche amministrazioni. Nei 
            prossimi anni, l'autonomia di bilancio degli enti locali e una più 
            massiccia introduzione dell'informatica dovrebbero rendere questa 
            tendenza strutturale.
 Proprio le caratteristiche di fondo della ripresa spiegano perché 
            non si sia estesa alle regioni meridionali. Qui, dove la distribuzione 
            dei redditi dipendeva più che altrove dall'occupazione pubblica 
            e dai lavori pubblici - data anche l'oggettiva arretratezza infrastrutturale 
            dell'area - l'economia si è dimostrata fino ad oggi ancora 
            inceppata. Nel Nord, dove la presenza dell'economia privata è 
            più significativa, dove le imprese producono beni e servizi 
            destinati ai mercati internazionali, e con livelli di efficienza sostanzialmente 
            allineati con il resto d'Europa, la ripresa è invece arrivata, 
            ed è servita per lo meno ad arrestare l'emorragia occupazionale 
            (Nord-Ovest), permettendo anzi in alcuni casi (Nord-Est) di più 
            che recuperare i livelli precedenti alla crisi del 1992. La grafica 
            sintetizza quanto è avvenuto nelle diverse aree. Cominciando 
            dal Nord-Est, fatti pari a 100 gli occupati nel 1992 in Veneto, essi 
            non sono mai scesi, al culmine della crisi, sotto il livello di 97,1; 
            e nel 1998 li troviamo risaliti oltre quota 102. In una regione del 
            Nord-Ovest, quale il Piemonte, la crisi ha eroso l'occupazione fino 
            a un livello pari a 94,2; ma in seguito è avvenuto il momento 
            della stabilizzazione: nel 1997 l'indice è infatti stato 94,7.
 
 In una regione meridionale come la Calabria, invece, l'emorragia non 
            si è ancora arrestata. Partendo da 100 occupati nel 1992, nel 
            1994 (quando il resto d'Italia era al culmine della recessione), l'indice 
            era già sceso a 88,8 (sei punti sotto il Piemonte, nove punti 
            sotto il Veneto); nel 1996 era a 83,2 e nel 1997 a 81,9, portando 
            la perdita complessiva di occupati a quasi un addetto su cinque di 
            quelli che avevano un posto di lavoro prima della crisi.
 Per rendersi conto della gravità della situazione meridionale 
            si possono infine guardare i tassi di occupazione (e cioè la 
            percentuale di occupati sul totale della popolazione), molto più 
            espressivi delle condizioni di ricchezza o di povertà delle 
            regioni, rispetto a quelli, consueti, della disoccupazione in percentuale 
            della forza lavoro. Ebbene, in questo campo l'Italia intera è 
            uno dei fanalini di coda dell'Ocse. Negli Stati Uniti lavora il 49 
            per cento della popolazione residente. Nel Nord-Italia la stessa percentuale 
            era del 41,1 prima dell'ultima recessione, che poi l'ha limata al 
            40,3. Ma nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è letteralmente 
            crollato, dal 30,8 per cento al 26,4 per cento. Come dire che vi è 
            un produttore di reddito ogni quattro consumatori: la metà 
            dello stesso quoziente negli Stati Uniti.
 
 Altro che dossier "Sviluppo Italia" predisposto da Roma. 
            Altro che "Agenzia Sud"! D'altra parte, il ministro del 
            Tesoro non ha mai nascosto il convincimento sulla "missione organizzativa" 
            e di "coordinamento" di eventuali istituzioni del genere. 
            E del resto esiste già un reticolo di "agenzie che dovrebbero 
            occuparsi dello sviluppo economico del Mezzogiorno: Itainvest, Enisud, 
            Spi, IG, Ribs e Ipi, senza contare le Camere di Commercio e le loro 
            Aziende Speciali. Nelle intenzioni del Tesoro, dunque, non si dovrebbe 
            andare molto oltre il puro e semplice coordinamento dell'esistente, 
            e magari cogliere l'occasione per razionalizzarlo, fondendo gli enti 
            al momento opportuno. Pressoché da escludere, invece, per un'eventuale 
            nuova Agenzia, una "missione istitutiva" orientata all'intervento 
            diretto sul territorio e nell'economia. E ciò in contrasto 
            con le forze di ispirazione marxista, ancora e sempre legate all'intervento 
            dello Stato-moloch. Né sono sfavorevoli i sindacati, sensibili 
            agli spazi di negoziato che si sono conquistati, ma dimentichi che 
            hanno storicamente portato avanti i discorsi salariali e di protezione 
            dei protetti, cioè di garanzia per le forze occupate, e mai 
            impegnati seriamente sul piano del progetto di sviluppo del nuovo 
            lavoro e della nuova occupazione nelle aree meridionali.
 L'Iri in questi tempi sta perseguendo obiettivi strategici diversi 
            dallo sviluppo delle aree depresse. Con l'apertura dei mercati e con 
            le liberalizzazioni imposte dall'Unione europea, la ristrutturazione 
            delle aziende pubbliche è diventata più che una necessità. 
            L'Istituto, perciò, non può farsi carico dei problemi 
            del Mezzogiorno, perché questo significherebbe rischiare il 
            fallimento nella missione principale. E questa presa di distanze non 
            è poi un gran male, viste le esperienze del passato. Né 
            esultano i promotori delle agenzie esistenti o di quelle recentemente 
            riformate (come la Gepi, diventata, appunto, Itainvest): essi temono 
            di non avere il tempo di dimostrare di saper svolgere i loro compiti 
            e si preoccupano che l'eventuale nuova Agenzia possa sottrarre loro 
            sia spazi di manovra sia risorse da investire.
 Qualche critica è venuta infine anche dagli stessi politici 
            e amministratori meridionali, e da non pochi sindaci di grandi città, 
            che paventano il ritorno a Roma delle leve di manovra che le amministrazioni 
            locali stavano apprendendo ad utilizzare e cominciando ad apprezzare, 
            specialmente dopo l'ampio ricambio di classe politica e amministrativa 
            determinatosi con la riforma dei poteri e delle leggi elettorali. 
            Senza contare che in futuro la politica regionale si farà sempre 
            di più con il coordinamento di Bruxelles: che senso ha, quindi, 
            ripristinare un livello nazionale di coordinamento, che anzi la logica 
            dell'intervento snello, veloce ed efficace tenderebbe ad azzerare?
 Il Mezzogiorno, in realtà, ha bisogno di infrastrutture e di 
            servizi, per superare prima di tutto gli svantaggi che condizionano 
            il suo sviluppo; e ha bisogno di investimenti privati. Non ha bisogno 
            di discorsi melensi (e strumentali) sui cosiddetti "costi dei 
            fattori non competitivi", che poi sono in concreto gli eterni 
            incentivi per le intramontabili "famiglie" del Nord che 
            mordono e fuggono, come hanno sempre fatto, vale a dire rapinano legalmente 
            incentivi fingendo di investire nel Sud, e poi "si danno", 
            cioè tagliano la corda (è storia semisecolare, per lo 
            meno), e l'eterna richiesta di gabbie salariali, che esistono da tempi 
            immemorabili, e che sono tirate in ballo ogni volta che i soliti noti, 
            secondo tradizione consolidata, chiedono quattrini allo Stato, privatizzando 
            i guadagni e socializzando le perdite.
 Se c'è bisogno di un intervento nel Sud, non è per affidare 
            a funzionari pubblici la missione di investire, né per dare 
            altre opportunità di sottrarre risorse senza fare il resto 
            di niente, come ha sottolineato persino il presidente della Repubblica. 
            Occorre un'inversione di tendenza nell'antropologia culturale dell'intero 
            Paese; si deve investire col gusto del rischio, sia pure del rischio 
            calcolato, da parte dei meridionali, e si deve agire con correttezza, 
            da parte di chi viene da altre regioni, mettendo fine ai vecchi vizi, 
            per rendere al Sud un buon servizio, viste le migliorate condizioni 
            per l'intervento imprenditoriale: senz'altro migliore di quello di 
            un livello di para-governo in più, e di ricchi accattoni dietro 
            l'angolo.
 
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