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         L'Occidente impone 
            sanzioni al Pakistan? Pazienza, dichiara il premier di Islamabad, 
            il Pakistan è disposto a sopportarne il peso e a produrre all'interno 
            a costi più elevati almeno parte di quello che non potrà 
            più ottenere dall'estero. Alcuni mesi fa un altro leader musulmano, 
            il primo ministro della Malaysia, aveva invitato i Paesi colpiti dalla 
            crisi asiatica a commerciare di più tra loro, integrandosi 
            localmente invece di cercare legami più stretti con mercati 
            - e sistemi politico-sociali - molto lontani.Siamo di fronte, prima ancora che a un mutamento di politica economica, 
            ad un cambiamento di clima culturale, che si riflette in decine di 
            episodi differenti e sempre più frequenti: i Paesi emergenti 
            non solo stanno rapidamente scivolando verso condizioni di minore 
            sviluppo e di maggiore instabilità, ma stanno anche perdendo 
            il sorriso e rischiano di diventare Terzo Mondo dopo aver sognato 
            di essere ormai prossimi ad agganciarsi al Primo. E dopo aver guardato 
            con fiducia e aspettativa al mercato, si son fatti più guardinghi, 
            più circospetti, talvolta ostili: lo considerano come una nuova 
            forma di colonialismo occidentale e stanno procedendo a tappe forzate 
            verso nuove forme di protezionismo.
 I brutti avvenimenti degli ultimi mesi, con la crisi russa (erroneamente 
            passata in seconda linea nei commenti occidentali), con la perdurante 
            crisi asiatica, con le contrapposte bombe pakistane e indiane, col 
            malessere dell'America Latina e col caos in molte parti dell'Africa, 
            dove continuano ad accendersi focolai di guerra, devono essere analizzati 
            sullo sfondo di questo grande cambiamento di umore, che potrebbe avere 
            conseguenze importanti sul nostro futuro.
 Dietro questi andamenti c'è un grande denominatore comune: 
            la perdita di potere d'acquisto delle materie prime, prodotti tipici 
            delle economie poco avanzate. E' la conseguenza della caduta dei prezzi, 
            non sufficientemente bilanciata dall'aumento delle quantità 
            vendute, un ennesimo frutto della grande trasformazione tecnologica 
            che fa sì che, in una società sempre più legata 
            all'informazione, i tre quarti del prodotto lordo dei Paesi più 
            avanzati sia costituito da produzione immateriale. Dalla crisi petrolifera 
            del 1973 la quantità di petrolio, o suo equivalente, necessaria 
            per produrre un dollaro di produzione media si è all'incirca 
            dimezzata, così come è scesa l'incidenza dei metalli, 
            delle fibre tessili naturali e via di seguito.
 L'indebolimento della domanda di lungo periodo, spesso accompagnato 
            da un vistoso aumento dell'offerta per l'imperfetto funzionamento 
            di mercati in cui le informazioni non sono molto diffuse, si è 
            ripercosso molto fortemente sui prezzi. In questo senso, la figura 
            1, che mostra l'andamento dei prezzi delle materie prime industriali 
            nel corso di dieci anni, è emblematicamente rivelatrice. Ponendo 
            pari a 100 l'indice medio in dollari del 1990, abbiamo riportato i 
            valori nominali in dollari con una linea continua, mentre con la linea 
            tratteggiata abbiamo calcolato i valori in termini reali in dollari 
            del 1990 (i valori del 1998 sono ovviamente gli ultimi disponibili).
 
 Il risultato è estremamente chiaro: la caduta dei prezzi delle 
            materie prime industriali si è accompagnata a una, sia pur 
            moderata, inflazione nei Paesi consumatori (nella figura si fa riferimento 
            all'indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti). Rispetto al 1990, 
            il paniere di beni americani che si possono acquistare con una tonnellata 
            media di materie prime si è ridotto di un terzo.
 Per il già citato scarso aumento delle quantità, questo 
            andamento crea le premesse per una forte tensione economica che si 
            traduce in malessere politico: forse indiani, pakistani e quant'altri 
            sarebbero meno nazionalisti se guadagnassero di più vendendo 
            le loro merci. La figura mostra, al contrario, che la risalita dei 
            prezzi nel periodo 1993-1995, vale a dire dopo la recessione innescata 
            dalla Guerra del Golfo, ha consentito di superare i livelli del 1989 
            soltanto in termini monetari, ma non in termini di potere d'acquisto. 
            E' ancora più significativo che, dopo i massimi del '95, pur 
            con un'economia occidentale e mondiale in espansione, i prezzi abbiano 
            cominciato a cedere rapidamente. La caduta ha rivelato un'accelerazione 
            impressionante a partire dall'autunno '97, quando gli effetti della 
            crisi asiatica hanno cominciato a farsi sentire concretamente.
 Per le materie prime alimentari, il discorso è leggermente 
            diverso perché le tecnologie non possono sostituire il bisogno 
            di cibo. Anzi, un mondo post-industriale, divenuto meno povero, domanda 
            una maggiore quantità di alimenti. Come si può vedere 
            dalla figura 2, la caduta del 1992-'93 è molto più contenuta, 
            la ripresa del 1994 porta i valori reali, e non solo quelli nominali, 
            a superare i livelli del 1990, e da allora si ha una sostanziale stabilità. 
            Anche così, la tendenza più recente è nuovamente 
            alla discesa, e questo per un motivo che francamente fa paura: non 
            è che la gente abbia meno fame, ma, soprattutto con la crisi 
            asiatica, molti Paesi, a cominciare dall'Indonesia, stanno riscivolando 
            indietro e non possono più permettersi i precedenti livelli 
            alimentari.
 La Fig. 3 e la tabella mettono a confronto i due tipi di andamenti 
            e permette di concludere che - seppure con diverse accentuazioni - 
            l'andamento di lungo periodo è chiaramente decrescente e riguarda, 
            in maniera più o meno marcata, i principali comparti delle 
            materie prime (i dati relativi alle materie prime tessili non mostrano 
            infatti andamenti migliori).
 
 A questa tendenza di lungo periodo si aggiunge un'accentuazione congiunturale 
            che si sta facendo sempre più forte col passare del tempo. 
            Dalla seconda metà di maggio si sono addirittura verificati 
            veri e propri cedimenti dei mercati. Tanto per fare qualche esempio, 
            alle aste australiane i prezzi della lana hanno accusato un brusco 
            calo. Motivo? Il "fattore Giakarta", vale a dire l'assenza 
            dei compratori indonesiani, normalmente importanti consumatori di 
            lane, cui si aggiunge un generalizzato calo dei consumi asiatici, 
            soprattutto sudcoreani e cinesi.
 Sempre a partire da quella data, il rame ha messo a segno un nuovo, 
            forte ribasso, un altro di una lunghissima serie nera: valeva quasi 
            1.900 dollari la tonnellata, ed è ripiombato a circa 1.600. 
            Nel frattempo è crollata anche la richiesta asiatica di metalli 
            preziosi. Secondo una stima del World Gold Council, il Sud-Est asiatico 
            aveva assorbito quasi 157 tonnellate di oro nel 1997 (primo trimestre), 
            ed è stato venditore netto di oltre 268 tonnellate nello stesso 
            periodo (primo trimestre) del 1998, anche per le raccolte di "oro 
            per la patria" in Indonesia e in Corea. Quanto all'argento, ha 
            perso il 15 per cento del suo valore.
 
 Il petrolio mostra il calo più consistente, nonostante le riduzioni 
            di produzione decise dall'Opec. Certo, è una bella notizia 
            per i Paesi consumatori, affamati di energia, ma al tempo stesso è 
            una decurtazione di risorse finanziarie per i Paesi produttori, i 
            quali, con il loro sviluppo, contribuivano alla stabilità dell'intera 
            area.
 Nella figura, la 4, abbiamo pazientemente ricostruito i prezzi, espressi 
            in dollari, del greggio (e precisamente della qualità che è 
            normalmente presa come benchmark, il Brent del Mare del Nord) e li 
            abbiamo deflazionati con l'indice dei prezzi al consumo degli Stati 
            Uniti, a partire dal 1980, ossia immediatamente dopo il cosiddetto 
            "secondo shock petrolifero".
 Risultato di questa elaborazione: in dollari del 1980, il prezzo del 
            petrolio, che allora si aggirava intorno ai 25 dollari al barile, 
            è sceso di due terzi, e ne vale circa 8. Se si spingesse il 
            calcolo all'indietro, fino alla crisi petrolifera del 1973, si troverebbe 
            che siamo tornati a prezzi di 2-3 dollari al barile circa, ossia ai 
            livelli precedenti la guerra del Kippur.
 La caduta dei prezzi in termini reali è stata controbilanciata 
            dall'aumento dei volumi produttivi, ma solo in parte. Nella figura 
            5 abbiamo calcolato il "valore teorico" degli introiti dei 
            Paesi dell'Opec, misurando la quota dell'Opec sul totale della produzione 
            mondiale di petrolio e applicandovi il prezzo del petrolio Brent. 
            Il valore effettivo può discostarsi alquanto da quello risultante 
            dal nostro calcolo, perché non tutto il petrolio è Brent 
            e i prezzi sono differenziati. La tendenza generale, però, 
            è la stessa e appare chiaramente visibile: dopo essere crollati 
            di più della metà tra il 1980 e il 1985, gli introiti 
            dell'Opec si sono stabilizzati attorno al 50 per cento dei valori 
            massimi, con una moderata, recente tendenza a scendere. Questa stabilizzazione 
            si sta rivelando insufficiente a finanziare programmi di sviluppo 
            per i quali sono necessarie, invece, risorse crescenti.
 
 Conclusione di questo discorso: il calo dei prezzi delle materie prime 
            costituisce il sintomo di un nuovo malessere economico che è 
            carico di un pesante potenziale di destabilizzazione. Riteniamo, per 
            intanto, che tale caduta abbia contribuito in maniera rilevante all'aumento 
            illegale di produzione di sostanze stupefacenti: perché mai 
            un contadino latino-americano dovrebbe coltivare commodities che perdono 
            valore, quando gli occidentali sono disposti a pagare a buon prezzo 
            quantità crescenti di cocaina?
 Destabilizzazioni di questo genere saranno sempre più frequenti 
            e pongono interrogativi di carattere generale sui mercati: per funzionare 
            bene, i mercati hanno bisogno di condizioni non troppo disuguali, 
            di ragioni di scambio non troppo inique, di meccanismi che non ricaccino 
            una delle parti verso la povertà. Se l'Occidente non saprà 
            assicurare un simile assetto, prepariamoci a un grande fallimento 
            del mercato globale.
 
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