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          La 
          mia "traversata" da giornalista di quasi un secolo mi ha consentito 
          una consuetudine di conoscenze, di riflessioni, di impegni con l'Artigianato, 
          naturalmente italiano, ma anche di altri Paesi, non solo europei, bensì 
          pure americani e asiatici. E ne ho visto ovunque lo stesso volto e cioè 
          le stesse fondamenta spirituali e spesso culturali da ricercare prima 
          ancora che nel sudore della fronte, nella mano dell'uomo: Quest'ultima 
          presenta pure nelle civiltà tecnologiche più avanzate, 
          spesso con la giustificazione dell'hobby.Perciò questo è un campo nel quale non esistono soluzioni 
          di continuità. Nessun mio stupore perciò allorché, 
          mesi or sono, mi è occorso di leggere che quattro ceramisti di 
          2300 anni fa hanno lasciato i segni delle loro mani sulla creta e sulla 
          vernice di vasi ritrovati da archeologi e studiosi in un'officina di 
          Metaponto, così da rendere riconoscibili le differenti specializzazioni 
          e persino gesti professionali più tipici degli antichi artigiani.
 Il mio itinerario artigiano ha avuto inizio nel '36-'37, allorché 
          mi avvidi che il settimanale della federazione artigiani, L'Artigiano 
          riproduceva senza il mio consenso e senza alcun proposito retributivo 
          miei articoli che nulla avevano a che fare con l'artigianato. Eppure, 
          diventavano addirittura fondi. E' nel 1938 invece che mi fu offerto 
          di divenire capo dell'ufficio stampa e studi della Federazione artigiani, 
          allora inquadrata nella Confindustria, con incarichi esclusivi fino 
          al 1943 e dal 1946 aggiunti agli altri fino agli inizi di quest'anno.
 I ricordi e le cose da dire sono o sarebbero tante, anche perché 
          la bibliografia in materia non è molto ricca. La stessa rilevanza 
          politica della materia ha subìto alterne vicende. Le stesse espressioni 
          del lavoro artigiano sono mutate nel tempo, nei livelli, nello stesso 
          comportamento della domanda, nella composizione dell'intercambio, in 
          un mondo che oggi comincia ad affrontare le incognite della globalizzazione. 
          Anche l'artigiano, quindi, viandante del mondo e forse lui lo è 
          stato e lo è più di tanti altri. E ciò perché 
          il suo linguaggio, quello in particolare di certi suoi mestieri, è 
          stato sempre universale.
 Pur avendo vissuto concretamente nel mio io queste convinzioni, o meglio 
          queste constatazioni, a me è occorso intorno agli anni Sessanta 
          di essere bersaglio a Piazza Navona, a Roma, della protesta di un artigiano, 
          che avendo ascoltato il mio sommesso giudizio negativo su di un suo 
          lavoro espresso a mia moglie, mi disse sdegnato: "Secondo lei l'artigianato 
          deve morire?". Il mio no corrispondeva certamente al suo, nella 
          sicura reciproca convinzione che doveva essere migliore. E i tempi, 
          come si sa, la stanno facendo da acceleratore.
 Tre fasi, con 
            la terza più lunga e dinamicaChi mi ha seguito in questi miei "medaglioncini" sa che 
            essi tentano di tratteggiare ambienti e uomini nei quali la vita mi 
            ha calato come osservatore od operatore.
 La prima fase e che conosco è quella immediatamente fascista. 
            Era l'epoca delle cosiddette comunità artigiane, con qualche 
            poeta o intellettuale prevalentemente milanese che si era posto a 
            capo di poco militanti artigiani. Uno di questi capi era, se non erro, 
            Brunialti, successivamente largamente ignoto.
 C'era però a quel tempo un altro intellettuale, questa volta 
            dichiaratamente fascista, astigiano, e per giunta cognato di Arnaldo 
            Mussolini, avendo entrambi sposato due sorelle.
 Inizia così la seconda fase, o meglio la metà di essa. 
            Essa porta il nome di Vincenzo Buronzo, la persona che Mussolini al 
            cambio della guardia nella presidenza sul finire del '39 definì, 
            con una smorfia forse dispregiativa, con "era un poeta...".
 Buronzo, che ho avuto come presidente dall'aprile '38 al novembre 
            '39 aveva per me una virtù essenziale, derivantegli dalla convinzione 
            che l'artigiano dovesse essere artisticamente e anche tecnicamente 
            assistito: di qui l'ENAPI con l'ufficio artistico, con l'ufficio tecnico 
            per i brevetti e quello commerciale per il marketing. Ma egli aveva 
            pure una squilibrata attitudine operativa (quella che ne suggeriva 
            la frequente sostituzione dei suoi direttori o segretari generali, 
            prontamente assorbiti dalla Confindustria perché di buon livello); 
            e una sempre insoddisfatta aspirazione ad un inesistente perfezionismo: 
            otto ore per scrivere un articolo di fondo per un settimanale, con 
            margini di lettori sempre più ridotti quanto più lo 
            sforzo di perfezionismo era elevato: intere giornate per scrivere 
            e imparare a memoria i discorsi che avrebbe pronunciato.
 Buronzo si era fatto così un nome, preparato dietro le quinte, 
            che gli consentiva distanze pure formali con i propri collaboratori, 
            taluni dei quali, forse per essere napoletani, gli baciavano anche 
            le mani. Vi erano le eccezioni. Una di queste non è stata però 
            quella di chi l'ha preso ad esempio dall'adolescenza alla morte, ed 
            è quello che è stato celebrato quale suo successore 
            nell'anniversario della morte: uomo guida dell'artigianato, ed a me 
            è occorso di esserne stato il "consulente" per tutta 
            la sua carriera.
 "Consulente": un termine che per essere all'altezza del 
            suo compito trascura o dimentica addirittura l'architettura del pensiero 
            di chi assiste e perciò deve essere pure inventata.
 Con me Buronzo ha avuto tutt'altro rapporto. Mi aveva assegnato il 
            compito di trasformare il settimanale in tre mesi, e mi disse con 
            compiacimento per lui - e figuriamoci per me - che il cambiamento 
            era avvenuto molto prima. Per lui perciò io ero l'uomo giusto, 
            ma per quanto ancora lo sarei stato? Non sapeva certamente che altrettanto 
            mi è occorso di fare cinque lustri dopo nella direzione de 
            Il Sole. L'aver cambiato faccia a questo giornale come fu anche scritto, 
            sono solo i riconoscimenti di allora a ricordarlo, perché chi 
            scrive per la sua età non ha bisogno di riconoscimenti, ma 
            solo di controllare con se stesso se i suoi conti personali tornano.
 Occasionali sono comunque i motivi che mi hanno condotto all'ufficio 
            stampa - e feci aggiungere io "studi" dell'Artigianato. 
            Il primo motivo è stato che quello che ne sarebbe divenuto 
            segretario generale era un ingegnere, che nel 1927 partecipava al 
            concorso di direttore della Scuola Arti e Mestieri di Tripoli. Io 
            in quell'anno, da matricola universitaria della Sapienza di Roma, 
            avevo organizzato il primo viaggio universitario a Tripoli. Non raggiungemmo 
            il numero di iscritti necessario e perciò accogliemmo universitari 
            e professori di Padova e anche l'aspirante ingegnere. Rimanemmo amici, 
            ma da lontano. Ad avvicinarci furono le frequenti sue visite al nonno, 
            già presidente della Corte dei Conti, che abitava in un palazzo 
            dirimpettaio del mio. La strada si chiamava e si chiama con il suggestivo 
            nome di Quintino Sella.
 Quando il mio nome fu proposto a Buronzo, questi lo accolse favorevolmente. 
            Ricordava il mio comportamento, da lui definito energico, alla Corporazione 
            delle Professioni e delle Arti dell'anno prima, allorché in 
            rappresentanza dei dipendenti degli studi professionali (molto più 
            semplicemente dattilografe) dichiarai che non poteva essere discusso 
            fra le "varie" il problema del contratto di lavoro della 
            categoria. Pavolini, quello dell'ultima raffica, era perentorio nel 
            chiedere il contrario, ma io mi limitai a dire che se la discussione 
            fosse continuata, portando ad un voto, io avrei votato contro e sarebbe 
            stata la prima volta che una Corporazione non avesse votato all'unanimità. 
            Non se ne fece più nulla. Dalla mia parte si schierò 
            solo il rappresentante dei lavoratori del credito, Gian Pietro Pellegrino, 
            successivamente ministro del Tesoro a Salò. E di me si disse 
            che ero un "ragazzaccio", da esonerare da compiti corporativi. 
            Il mio presidente di allora ai Lavoratori del Commercio mi designò 
            invece a membro aggregato della Corporazione del Legno. Da lui ho 
            imparato molto. Forse è l'unica persona dalla quale abbia tanto 
            imparato nella mia vita di lavoro. E perciò se per lui non 
            fu gradito il mio trasferimento all'Artigianato (mi disse "lo 
            fai pure senza il preavviso di otto giorni delle donne di servizio"), 
            volle riconoscermi per iscritto tutti i miei "meriti". Devo 
            dire che per me non fu facile il mio distacco da lui, che pure era 
            stimolato da più favorevoli prospettive di carriera e retributive.
 Alla Confindustria, dove già avevo un amico che mi faceva strada, 
            con il quale insolitamente per lui ci davamo del tu (parlo di Giovan 
            Battista Codina, al quale la mia vita, i miei ricordi, tutto intero 
            il mio passato sono legati), fui accolto con un allora più 
            che mai inconsueto incontro con il Direttore generale della Confindustria, 
            Giovanni Balella. Credetti di trarre vantaggio nel mio trasferimento 
            alla Confindustria con la mia rinuncia a membro della Corporazione 
            del Legno. Ma Balella mi fece rilevare che mi aveva già fatto 
            nominare membro aggregato della Corporazione delle Professioni e delle 
            Arti, in rappresentanza della categoria dei fotografi.
 Un buono, ma inconcludente inizio per me, perché questa corporazione 
            da allora non si è mai riunita. Le corporazioni erano divenute 
            fuori moda. Vari comitati, sempre presieduti da Mussolini, si avvicendavano 
            e si succedevano. Ognuno aveva la prerogativa di annullare le funzioni 
            del precedente istituto. Il regime dopo la proclamazione dell'Impero, 
            dopo la guerra di Spagna, dopo l'asse Roma-Berlino, dopo il razzismo, 
            dopo le dichiarazioni di guerra che Hitler annuciava all'alba a Mussolini, 
            perdette la coscienza di se stesso, acquisendo i disastri che si conoscono 
            e che sono in gran parte il segno della irresponsabilità. Togliamo 
            perciò a Mussolini tutti gli aggettivi che si è dati 
            o che gli hanno dato e lasciamogli solo quello che forse solitario 
            gli ho attribuito e cioè di grande giornalista sbagliato. Forse 
            egli stesso dall'aldilà mi darà ragione e addirittura 
            ne potrà restare lusingato, perché chi scrive alla mia 
            età parla più che altro per se stesso e solo per la 
            verità, come l'ha vista, affrontata, subita.
 Ma che cosa era l'Artigianato a quei tempi? Il regime non se ne è 
            mai seriamente e direttamente interessato: l'ha ritenuto o una filiazione 
            più o meno artistica di secondo grado. L'ha dato in consegna 
            alla Confindustria, alla quale faceva comodo per motivi di rappresentanza 
            numerica. Gli artigiani erano più numerosi dei piccoli industriali. 
            Si pensi che gli abbonati al settimanale artigiano erano 300mila e 
            non sapevano di esserlo, perché in quegli anni il contributo 
            sindacale veniva a pesare sulle cartelle esattoriali e le dieci lire 
            allora dovute erano state indebitamente trasferite dalle categorie 
            al pagamento dell'abbonamento al settimanale. Il nulla dovuto per 
            l'abbonamento era spiegato con una cartolina gialla. Così si 
            riusciva a suscitare l'invidia dei periodici del tempo, che a rilevante 
            inferiore distanza dovevano confrontarsi con un oscuro, modesto settimanale. 
            Anche per l'editoria, esistono questi scherzi.
 La fase BuronzoDi questa fase sono stato partecipe nel solo biennio del suo finale. 
            La sua sede in Piazza Venezia, nel palazzo delle Assicurazioni, mi 
            ha fatto dirimpettaio di Mussolini fino alla conclusione del regime. 
            Lo intravvedevo con lo sguardo rivolto alla piazza nascosto dalle 
            tende azzurre dell'oscuramento apposte alle finestre del salone del 
            Mappamondo. Una lampada accesa perennemente sul fondo del salone faceva 
            di lui un capo insonne, che invece di fatto era solo immaginazione 
            popolare e rozza propaganda.
 Trovai un ufficio stampa composto in maniera quanto mai singolare. 
            Nessun giornalista, ma un artigiano restauratore, uno dei tanti segretari 
            gratuiti di Marinetti che più che agire commentava a modo suo, 
            un ingegnere che era lì perché aveva sposato la figlia 
            dello scrittore Milanesi e a questa dedicava il suo approssimativo 
            tuttofare. Ma riuscimmo a muoverci lo stesso per un quinquennio.
 Il complesso del personale centrale, a parte i direttori, era certamente 
            meno qualificato di quello che avevo trovato nella Confederazione 
            dei Lavoratori del commercio. Il suo reclutamento era stato più 
            distratto e la stessa Confindustria poco aveva fatto per migliorarlo, 
            prelevandone però, quando c'erano, gli elementi migliori. Tutto 
            al centro si fondava sulla rappresentatività di Buronzo, con 
            i supporti che lui stesso cercava e curava alla periferia con il buon 
            livello delle dirigenze regionali. Discorsi e articoli di giornali, 
            affiancati dalla generica simpatia del regime (Mussolini si vantava 
            di essere figlio di un fabbro) erano diretti più all'autoesaltazione 
            della categoria, che non alla determinazione e soluzione dei suoi 
            problemi. Per anni si è parlato della patente di mestiere, 
            ma il grosso del loro sviluppo o spesso sopravvivenza gli artigiani 
            dovevano farselo da sé. Tuttavia i meriti di Buronzo restano: 
            sono quelli di aver sempre creduto nell'artigianato, di avergli dato 
            un minimo di coagulo organizzativo, di aver intuito che l'artigiano 
            senza assistenza artistica, tecnica e commerciale avrebbe fatta poca 
            strada.
 Un salto di qualità venne compiuto invece con il cambio della 
            guardia nella presidenza intervenuto sul finire del 1930. L'occasione 
            fu determinata dalla sostituzione del segretario del partito Starace, 
            un gerarca che aveva esercitato quel ruolo per una decina d'anni, 
            dando corpo e spesso anche il nome (di frequente il suo suggeritore 
            era proprio Mussolini, che però lo faceva negare) a tipi enfatici 
            di saluti al "duce", a contenuti risibili di fogli d'ordine, 
            ad esercitazioni ginniche dei gerarchi nei cerchi di fuoco, a nuotate 
            mirabolanti e così via. Tutto ciò aveva alla fine risultati 
            di popolarità e di simpatia opposti a quelli attesi e lo stesso 
            Mussolini, anche se tardi, se ne accorse.
 Un altro segretario nazionale di partito gli subentrava. Ma questi 
            era un pilota di guerra, un eroe della guerra di Spagna, un ex squadrista 
            aitante ed esuberante, con i suoi amici naturalmente, ma raccolti 
            con l'ironica fantasia romagnola: nella fattispecie ravennate.
 I segretari federali di estrazione staraciana furono sostituiti e 
            comparvero così sulla piazza nelle liste d'attesa, per nuovi 
            incarichi non sempre conseguiti.
 Un'eccezione fra le maggiori è stata quella del federale di 
            Torino, staraciano di ferro, Piero Gazzotti, organizzatore delle adunate 
            "oceaniche" che accolsero Mussolini a Torino. Una Torino 
            che Gazzotti riuscì a far apparire per primo anziché 
            sabauda entusiasticamente fascista: con le accoglienze al Lingotto 
            e con il vibrante saluto romano e fascista del senatore Giovanni Agnelli, 
            con l'orbace tanto deprecata e negata poi dal nipote.
 Mussolini, nel cambio della guardia della presidenza a Palazzo Venezia, 
            ebbe a pronunciare un discorso di vivo elogio delle capacità 
            sindacali, economiche, organizzative di Gazzotti, che suscitò 
            in me la più grande e pure ironica sorpresa, perché 
            i miei primi contatti con il nuovo presidente mi avevano condotto 
            ad opposte conclusioni. Giudicai allora Mussolini o un pessimo conoscitore 
            di uomini o un istrione. Penso oggi che sia stato e l'uno e l'altro, 
            sottolineandone anche una sua certa timidezza nel predisporre i cambi 
            della guardia. Li faceva annunciare, all'insaputa degli interessati 
            (dei quali se erano ministri aveva una lettera di dimissioni da utilizzare 
            quando lo riteneva), alle undici di sera e non sarebbero mai state 
            accompagnate da commento: era ordinaria amministrazione, proclamata 
            proprio quando non esisteva.
 La mia frequentazione con Gazzotti, dal posto da me occupato e che 
            per lui era essenziale, e cioè l'ufficio stampa, mi ha consentito 
            di stabilirne l'esatto livello di capacità. E cioè: 
            sapeva scegliere i suoi collaboratori, fraternizzava subito con loro. 
            "Fascistizzava" al massimo l'organismo - quale che fosse 
            - che era chiamato a dirigere, cercava in tutti i modi che il riflettore 
            di vertice fosse costantemente puntato pure su di lui, era aperto 
            a tutte le inventive così motivate. Capirlo in queste sue attitudini 
            significava divenirne non solo collaboratore insostituibile, ma anche 
            consigliere primario e amico. A me è occorsa questa ventura, 
            che fra l'altro non mi è stata particolarmente difficile.
 Ho ricordato altre volte, forse anche su queste pagine, che in un 
            incontro sulle scale dell'EIAR fra Giuseppe Bottai e Gazzotti, cui 
            anch'io ero presente, il primo nel rallegrarsi con il secondo per 
            il suo nuovo incarico ebbe a dirgli: "Tutto sta nel dare impronta 
            e peso all'incarico che si ha, quale esso sia. A me il Duce conferendomi 
            l'incarico di ministro dell'Educazione ebbe a dirmi che c'era da fare 
            solo dell'ordinaria amministrazione. Io invece ho varato la Carta 
            della Scuola".
 Bottai, come si sa, ha avuto sempre la predilezione per le Carte (si 
            ricordi quella del Lavoro), è stato presidente dell'INPS, il 
            Governatore di Roma, quello per 40 giorni di Addis Abeba, ha fatto 
            tutte le guerre in calendario, tranne quella di Spagna. Ha cercato 
            sempre di essere presente con il suo "io" dove il suo sentire 
            - oltre pure talvolta la coscienza - lo conduceva. Ha compiuto errori, 
            ma ha saputo anche cercare di riscattarsi. Non l'ho visto che una 
            sola volta, ma ricordo che subito dopo la marcia su Roma fondò 
            una rivista che si chiamava Critica Fascista. Era stato fondatore 
            del fascismo romano, già futurista, già ardito di guerra 
            della prima guerra mondiale, già comandante delle squadre fasciste 
            che dal quartiere tiburtino entravano in Roma, essendo stato dal Re 
            abrogato lo stato d'assedio. L'ambizione di Bottai è stata 
            sempre quella di far riconoscere che sempre c'era anche lui, anche 
            quando si trattava di pagare: il suo conclusivo arruolamento nella 
            Legione Straniera sta a ricordarlo.
 Gazzotti, pur a livello largamente inferiore, era fatto della stessa 
            stoffa. Voleva far sapere di continuo che dove stava lui c'era sempre 
            qualcosa che si muoveva in senso fascista. Aveva un desiderio permanente: 
            quello di far muovere il settore nel quale era allocato, di richiamare 
            l'attenzione di Mussolini e avere il più frequentemente possibile 
            l'occasione di incontrarlo. Per lui l'artigianato doveva essere assolutamente 
            fascista. I suoi problemi sarebbero stati risolti più o meno 
            alla stessa maniera di prima, però se possibile anche con altre 
            iniziative.
 La mia prima interpretazione di questa sua aspirazione fu quella di 
            suggerirgli di cambiare la testata de L'Artigiano in quella de L'Artigianato 
            Fascista. Mi disse subito: "preparami un telegramma per il Duce". 
            E poi iniziò una serie di editoriali su problemi artigiani 
            che io gli scrivevo e che erano preceduti da una mezza colonna scritta 
            personalmente da lui, in cui gli artigiani venivano esortati ad essere 
            fascisti condividendo problemi ed esigenze generali del momento. Sempre 
            sul piano giornalistico riusciva a far pubblicare alcuni suoi articoli 
            (erano scritti miei d'occasione) su Il Popolo d'Italia, ma ciò 
            avveniva solo quando la mia macchina da scrivere aveva vinto le proprie 
            indolenze al riguardo.
 Ogni tanto mi diceva: "Non vado da Mussolini da molto tempo, 
            che possiamo fare?". Una volta l'occasione fu la presentazione 
            di un bollettino ciclostilato che aveva per oggetto problemi internazionali 
            dell'Artigianato. Un'altra volta fu la presentazione del progetto 
            per la costituzione di un Istituto mediterraneo e coloniale dell'Artigianato, 
            denominato "Alessandro Mussolini".
 Accompagnai Gazzotti in questa visita, attendendolo in anticamera. 
            Ne uscì soddisfatto. Mussolini aveva dato il suo assenso, aveva 
            elargito duecentomila lire per l'esecuzione del progetto in un'area 
            di Ostia che avrebbe dovuto essere messa a disposizione da parte del 
            Governatore di Roma. Ma si era espresso contrario alla denominazione 
            Alessandro Mussolini, che considerava un atto di improduttiva piaggeria. 
            Non altrettanto aveva fatto per le scuole intestate alla madre, maestra 
            elementare, Rosa Maltoni. (La storia mi ha sempre ricordato l'importanza 
            eccezionale dell'aver avuto come madre un'insegnante elementare. È 
            un titolo di studio per un figlio che vale più di tante lauree). 
            Sennonché l'indomani i giornali pubblicarono il comunicato 
            come io l'avevo predisposto, con il fabbro di scena. Ripensamento 
            o disattenzione del Duce nell'inserimento compiaciuto sempre, quando 
            si trattava di Gazzotti, del comunicato nella cartella da inviare 
            al ministero della Cultura popolare?.
 Un'altra occasione ancora fu la presentazione al Duce di un paio di 
            scarpe autarchiche, delle quali ancora mi vergogno. Erano di tela 
            con una suola articolata in pezzi di legno sui quali erano sovrapposti 
            alcuni tondini di gomma, ricavati da gomme d'auto esauste. Mussolini 
            esaminò compiaciuto queste scarpe: erano presenti, me compreso, 
            anche i massimi dirigenti dell'Artigianato tedesco. Ma quelli erano 
            i tempi in cui Mussolini comandava che le mele in Italia, come quelle 
            presentategli, dovessero tutte pesare almeno mezzo chilo.
 Gazzotti è stato questo e l'Artigianato con lui ha vissuto 
            fino al termine del regime. Di lui si è scritto che il 26 luglio 
            ha cercato di passare il confine di Bardonecchia con i lingotti d'oro, 
            che invece non c'erano e furono smentiti dallo stesso Badoglio. Io 
            con altri due gli sono rimasto accanto in questa vicenda ed ho fatto 
            per lui quanto dovevo fare con la pubblicazione della smentita sui 
            giornali di Roma, in ciò aiutato da Vittorio Gorresio. Mussolini 
            lo sottopose ad un lungo Purgatorio nominandolo presidente dell'Ente 
            tessile autarchico poco prima del 25 aprile del 1945. Gazzotti è 
            venuto a trovarmi dopo di allora, con un ruolo semplicemente scambiato: 
            prima io accompagnavo lui; dopo lui accompagnava me. Eravamo, dunque, 
            amici e per me quella politica aveva esaurito il suo tempo. Quanto 
            gratificante è l'animo umano quando riesce a dirci queste cose 
            e la stessa conclusiva vecchiaia ci consente di dire che l'unica contabilità 
            veramente perenne è questa.
 L'Artigianato 
            in più di mezzo secoloUn nuovo spirito, una nuova struttura, una nuova dinamica hanno caratterizzato 
            l'Artigianato nell'ultimo mezzo secolo del millennio. Le organizzazioni 
            nazionali sono divenute tre o quattro, nella scia delle opposte ispirazioni 
            politiche. Una sola è stata la maggiore, la più trainante, 
            più stabilmente motivata, ed è stata la Confederazione 
            Generale, con la permanenza mia nell'intero mezzo secolo ai suoi vertici 
            diretti e indiretti, in parallelo con le mie prevalenti funzioni nella 
            Confindustria.
 Difatti della Confederazione sono stato consulente diretto della presidenza 
            e della direzione generale, avendo concluso i miei incarichi nel settore 
            di consulente dell'Artigiancassa, nel campo degli studi, della stampa 
            e della propaganda. Il 1992 è stato l'anno del mio commiato.
 Avevo visto l'Artigianato ai primi albori del secondo decennio fascista 
            e l'ho continuato a vedere fino alla morte del suo presidente onorario, 
            Manlio Germozzi, del quale mi è occorso di dover scrivere l'introduzione 
            al volume che ne ha celebrato l'anniversario della morte.
 Dire di Germozzi, da me conosciuto, seguito, e in parte non secondaria 
            forse anche consigliato naturalmente in bene ma anche in inconsapevole 
            male dal 1938, scrivere di lui mi è sembrato perciò 
            anche scrivere, con la dovuta modestia, anche di me stesso. C'era 
            infatti simbiosi tra noi due: io cercavo di interpretare lui, lui 
            cercava di interpretare me. Eravamo profondamente diversi, come caratteri, 
            radici, livelli di affinità, ma abbiamo camminato insieme, 
            in reciproca soddisfatta coerenza.
 Fino al 1943 era stato segretario dell'Artigianato romano, essendo 
            anche delegato della Confederazione trasferitasi nella cosiddetta 
            Repubblica Sociale. Il 5 giugno 1944, giorno della liberazione di 
            Roma, era lo stesso al suo posto, pensando alla rinascita e alla ricostruzione. 
            Io avevo preferito essere cercato e sollecitato dalla Confindustria 
            per ridare il mio contributo nel campo della stampa e della propaganda 
            e poco dopo dallo stesso Germozzi per dare il mio apporto, che era 
            giornalistico ma anche politico, all'Artigianato che si rinnovava. 
            Germozzi invece non si era mosso dal suo posto, pur nelle contraddizioni 
            delle vicende e degli incarichi che aveva ricoperti. Mi venne riferito 
            che si compiacesse di fruire della collaborazione - la mia - di uno 
            che da tre sue parole faceva discendere premesse e conclusioni di 
            profonda ed esatta meditazione e applicabilità. Ma non sono 
            certo, a mio modo di vedere, le benemerenze o intuizioni personali 
            a valere, bensì il fatto che abbiamo potuto compiere insieme 
            un lungo cammino.
 Gli inizi della Confederazione Generale risalgono proprio al 4 giugno 
            1944, con la costituzione ufficiale il 10 gennaio 1945.
 Nell'intreccio tra intuizioni, battaglie, conquiste, l'Artigianato 
            ha coperto e vinto tante tappe. Quando, ad esempio, si rileva che 
            15 milioni di persone operano nelle dimensioni minori contro 5mila 
            nella grande industria, quando si guarda alle radici del made in Italy, 
            quando si esaltano le tradizioni produttive che in tanti centri italiani 
            si rinnovano e continuano ad elevarsi a prototipi d'arte, quando si 
            riscontra la progressiva incidenza richiesta da produzione e servizi, 
            quando ancora gli orizzonti dischiusi dalla tecnologia - cui anche 
            gli artigiani con le loro invenzioni minori da secoli concorrono - 
            si espandono e si fa appello nelle stesse applicazioni alla mente 
            e alla mano dell'uomo, c'è stato sempre anche Germozzi, come 
            ci sono quanti agli stessi vertici oggi ne continuano l'opera, avente 
            come meta il progresso.
 Ma l'espressione del rinnovamento conseguito dall'Artigianato in questi 
            ultimi decenni, la stessa natura delle sue rivendicazioni, la stessa 
            dimensione, anche aziendale, delle sue allocazioni, hanno trovato, 
            nella parola e nell'azione, alcuni punti fermi, da sempre rivivere, 
            ma sempre soprattutto da sospingere oltre.
 E perciò sono da sottolineare in questa panoramica, che riaffiora 
            dalla mia memoria di testimone:
 - la naturale capacità artigiana determinante non solo nelle 
            fasi congiunturali positive, ma anche e soprattutto in quelle di crisi, 
            da sempre potenziare. Ed oggi siamo appunto in una fase se non di 
            crisi certo estremamente delicata e difficile (in termini di sviluppo, 
            di occupazione, di Mezzogiorno che pone l'Artigianato nell'interesse 
            del Paese in prima linea).
 - la crescente attualizzazione dell'Artigianato non solo per il suddetto 
            motivo, ma nella pratica dei suoi valori essenziali, che riguardano 
            la libertà, la creatività del lavoro, l'identità 
            della persona con l'impresa, la vocazione all'insegnamento nei confronti 
            dei giovani, la stretta saldatura con la famiglia che frequentemente 
            vive unita nella sfera del lavoro. Su questo terreno tante sono le 
            risposte che la nostra società continua a sollecitare e che 
            sono tanto più urgenti, quanto più l'artigianato certamente 
            ha continuato ad avanzare, prevalentemente con le sue forze, né 
            protette o incentivate come altre.
 E perciò si guarda risolutamente innanzi.
 Così l'Artigianato, come anche noi l'abbiamo potuto vivere 
            in questi anni, si presenta al Paese con una cultura che sa essere 
            sempre nuova; con la capacità di risposta alla domanda di rinnovamento 
            che si leva dalla nostra società. Di qui la denuncia artigiana 
            che comporta il ripensamento dello Stato sociale, alla luce delle 
            esperienze fin qui compiute e che sono largamente negative in termini 
            non solo di rapporti costi-ricavi, ma anche di ingiustificabili sperequazioni 
            alla luce pure di un'autocritica, che deve sempre meglio qualificarsi 
            non solo nella denuncia, ma anche nella costruzione.
 Oggi c'è da aggiungere la globalizzazione, che per l'Artigianato 
            però non è mai stato un fenomeno in fieri. Ricordiamo 
            infatti che il primo viandante del mondo è stato sempre l'artigiano, 
            cui fra l'altro vanno attribuite tutte le iniziative di integrazione, 
            di collaborazione anche organizzativa intervenuta in Italia per l'Artigianato 
            occidentale e mediterraneo pure a cominciare dagli anni Trenta.
 Molti però sono ancora i ribaltamenti che devono essere compiuti, 
            avendo lo sguardo rivolto all'artigiano non solo impresa, ma anche 
            cittadino. E perciò determinanti sono e saranno: un rinnovamento 
            della struttura statale diretto a garantire efficienza (la sua inefficienza, 
            invece, comporta per le imprese un costo non distante da quello provocato 
            dall'inflazione), piena giustizia, eliminazione del parassitismo pubblico 
            in parte secondaria pure di pretesa socialità, che è 
            ancora nella fase dei propositi, a parte qualche passo innanzi certamente 
            compiuto in forza pure dell'azione della Confederazione Generale; 
            una progettualità organica (il termine "programmazione" 
            non mi è congeniale, perché ha sempre manifestato un 
            esercizio abusivo, in conseguenza di deviazioni e aberrazioni politiche, 
            fino a tradursi in "libro dei sogni") che non è ancora 
            entrata in azione. Di qui la persistente latitanza della strutturazione, 
            fra l'altro quella della spesa, latitanza che non solo va combattuta, 
            ma realmente sconfitta, senza altri indugi.
 E i bersagli per l'Artigianato di ieri e di oggi non possono essere 
            che quelli di una fiscalità che promette, ma non si placa. 
            A quest'ultimo proposito mi piace ricordare come scritto oggi il pensiero 
            di un nostro egregio economista del primo decennio del secolo, "Qualcuno 
            imbecille - insegnava Pantaleoni - può inventare ed imporre 
            tasse. L'abilità consiste nel a) ridurre le stesse, dando nondimeno 
            servizi efficienti corrispondenti all'importo delle tasse; b) fissare 
            le tasse in modo che non ostacolino la produzione o per lo meno che 
            la danneggino il meno possibile.
 Il monito fa parte degli studi, dei fondamenti storici della nostra 
            economia, con particolare riferimento per quelle piccole imprese - 
            fra queste, in prima linea, quelle artigiane - che devono subire gravami 
            oltrepassanti la misura dei balzelli, a causa pure delle lievitazioni 
            dei costi burocratici derivanti dalla natura degli adempimenti richiesti. 
            Altro che semplificazione! Non sono solo le cifre ufficiali poste 
            sotto i nostri occhi a contare, ma il gigantismo statistico, che i 
            politici negano, ma che il contribuente ben conosce. La realtà 
            è che l'Artigianato dà, potrebbe dare di più, 
            ma per andar avanti nell'interesse di tutti deve soprattutto combattere.
 Senza lembi 
            nascosti o strappatiNel commentare l'anniversario della morte di un protagonista di questo 
            cammino che continua, e cioè di Manlio Germozzi, e parlando 
            della Confederazione da lui presieduta e da me pure vissuta, ho scritto 
            che il suo vessillo, a differenza di altri vessilli che pure continuano 
            a sventolare, è senza lembi strappati o nascosti.
 Mi sia consentita qui l'immodestia, ma facendo questa constatazione 
            ho pensato anche a quella che per mia ventura è stata la mia 
            esistenza. E forse questa è stata la mia storia con vista, 
            come oggi scrive qualcuno.
 Nel concludere questo spicchio di Artigianato che ho vissuto da dentro, 
            c'è implicito un ammonimento che non è mio, ma senza 
            conoscerlo letteralmente è stato sempre nel mio subcosciente: 
            "Senza nulla rinnegare, non aggrapparti al sistema di principi 
            e di abitudini al quale si è sempre rimasti fedeli, adattali 
            ai tempi, ma non perseguire stupidamente le mode, capirai meglio il 
            mondo che cambia".
 D'altra parte storia, cronaca, verità hanno sempre avuto rapporti 
            difficili; e i lettori quando leggono spesso ne sono più convinti 
            di chi scrive o riferisce. Anch'io di questa modestia ho cercato di 
            essere custode. Lo dico a me stesso, con la speranza che gli eventuali 
            lettori me ne diano riconoscimento.
 
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