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| IO CANTO PER AMORE | 
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          Luca 
          Isernia | 
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         Conosciamo 
          e apprezziamo da anni gli studi compiuti, da molteplici prospettive, 
          sull'opera artistica del torinese Carlo Levi, compresi quelli riguardanti 
          la sua attività di pittore (1). Molto meno conosciuta e studiata 
          è, invece, la sua produzione poetica, che, invero, è stata 
          presentata al largo pubblico solo da qualche anno, per merito di un'edizione 
          curata da Plinio Perilli per i tipi della Mancosu editore (2). L'attività poetica di Carlo Levi è interessante non solo perché rappresenta l'ennesima manifestazione artistica di una natura poliedrica qual era, per l'appunto, quella del torinese, ma anche perché il lungo arco cronologico, ricoperto dalla poesia leviana, 1931-1973, permette di riconsiderare, anche da questo versante, alcuni aspetti della vita culturale italiana. La produzione lirica leviana si divide in più momenti o cieli, i quali scandiscono l'evolversi dello stile poetico attraverso gli anni, nonché, ovviamente, i temi che la ispirano nella frequente corrispondenza con le opere in prosa. Carlo Levi - e lo diciamo subito, per sgombrare il campo da possibili equivoci - non si sentiva affatto né si atteggiava a poeta. La poesia rimarrà per tutta la sua esistenza un fatto del tutto privato e personale, assolutamente intimo e sacralmente riservato, tant'è che, nonostante i ripetuti inviti fatti all'artista di dare alle stampe le poesie, egli non pubblicò mai i suoi componimenti. Le sue raccolte poetiche, quindi, si prestano ad essere lette come una sorta di diario esistenziale, cui affidare le proprie ansie, le aspettative, le gioie e le amarezze che lo accompagneranno per tutta l'esistenza. Per questo è vano presumere di ricondurre i versi di quest'artista ad una precisa corrente poetica o avvertirne forzatamente l'eco di questo o quell'altro poeta. Non si negherà, beninteso, il fatto che Levi potrebbe aver risentito, come cercheremo anche di dimostrare, degli atteggiamenti artistici e culturali contemporanei, ma non è proponibile un'esegesi della sua poesia vincolata a quest'ottica comparativa. Ancora, del tutto improponibile mi pare sia la proposta avanzata da Valeria Barani (3) di privilegiare, in vista di un'eventuale edizione critica, le liriche del periodo 1934-'46, ancorché proprio le poesie di questo periodo fossero ritenute da Linuccia Saba (4) le più indicate per la stampa (5). Improponibile, dicevamo, in primo luogo perché si opererebbe un "taglio" di crociana memoria, del tutto ingiustificato sotto l'aspetto estetico; in secondo luogo, per il fatto che, al di là di una minore o maggiore resa artistica, ogni singola poesia ci dà ragione del faticoso cammino di maturazione non solo artistica, ma anche civile e, se vogliamo, politica, di Levi. L'esordio poetico di Levi risale al 1931. I temi di questa prima raccolta sono, per un verso, l'amore e la passione per la donna amata, in ossequio al leitmotiv dominante nella poesia di ogni epoca e Paese; dall'altro quello della sua esistenza perennemente combattuta e, talvolta, fatta letteralmente ostaggio dagli uomini. La prima raccolta reca in sé qualcosa di morbosamente voluttuoso, la quale sembra tradire in parte il retroterra culturale di tipo decadentistico, che era certamente parte della formazione artistica e, segnatamente, pittorica di Carlo Levi. Dieci poesie vanno a comporre questo primo momento della lirica leviana, posta sotto il simbolico titolo de Il carcer tetro. Cosa fu per Levi questo "carcer" è facilmente deducibile da una lettura globale delle poesie composte tra il 1932 e il 1934. Il "carcer tetro" è per Levi una dimensione insieme ideale e reale della sua esistenza. Le liriche che compongono questa prima raccolta possono rappresentare, sotto l'aspetto stilistico e formale, un'ingenua ricerca di quella che veniva configurandosi, in quegli anni, come "poesia pura", cioè poesia tesa alla riscoperta del valore primigenio ed evocativo della parola, non consunta dall'uso e dall'abuso che se n'era fatto sino ad allora; per intenderci era un tentativo di dimostrare che la poesia non significava qualcosa, ma viveva per sé e in sé. In ordine ad alcune liriche, inoltre, sono avvertibili addirittura lontani echi leopardiani e petrarcheschi. E' il caso della lirica che apre la raccolta, ove i "passi lenti e vani" del poeta torinese richiamano troppo da vicino quelli "tardi e lenti" dell'autore del Canzoniere. D'altronde, la cosa può avere un pur indiretto riferimento col fatto che, proprio in quel periodo, un poeta non certo ignoto e, quindi, sicuramente letto dal Levi, Giuseppe Ungaretti, pubblicava la raccolta Sentimento del tempo (Firenze, 1933), nella quale si ritornava, per i temi e, a suo modo, anche per la struttura metrico-ritmica, alla tradizione lirica italiana più nobile, quella appunto del Petrarca e di Leopardi. La su menzionata lirica del Levi recita: Ritorno, cara, 
            in questa terra. L'aria / incandescente svela / le cose fatte piccole. 
            Ristanno / pochi per via (6), in un anno / poco è mutato, e 
            neppure più si cela / la noia della vita solitaria (7). / Lunghe 
            le strade senza gente, sole / ed ombre corte / e passi lenti e vani 
            (8). Tutto è vuoto / e risaputo, e noto, / e calmo ed ordinato, 
            d'una morte / che ha spento sulle labbra le parole. / Perché 
            parlare se nessuno ascolta? / Non è più verde / il bosco, 
            morti gli uomini oppure stanchi. / Ma pur se tu manchi (9) / vogliam 
            provare, ed anche se si perde / la speranza, tentare un'altra volta. Si noti, inoltre, 
            come l'uso insistito del polisindeto ([ ... ] ed ombre corte / e passi 
            lenti e vani. Tutto è vuoto / e risaputo e noto / e calmo ed 
            ordinato [ ... ]) sia di chiara ascendenza petrarchesca e leopardiana. Solitudine Ed ancora: In questa fetta di melone / c'è un po' d'ombra e un po' di sole: / dall'alto del suo balcone / la bambinaia in divisa mi guarda. / Parla con voce sarda / tutelari parole: / non si fermi, se s'attarda / sarà messo in punizione. / Guardo l'erba, i muri di cemento / ed il cielo sopra le grate / non m'arresto un sol momento cammino avanti e indietro. / A questo ugual metro (12) / quasi quasi m'addormento. E' questo il carcer tetro? / Preciso come Kant. 
 Il pensiero del 
            filosofo tedesco, citato da Levi in explicit, rigoroso ed inequivocabile, 
            è paragonato alla prigionia di cui è vittima il poeta, 
            anch'essa avvertita come condizione "assoluta", tanto dello 
            spirito, quanto del corpo. Il riferimento a Kant e alla sua filosofia 
            non è certamente casuale; proprio negli anni immediatamente 
            a ridosso del 1934, infatti, Levi legge e medita sulla filosofia kantiana. 
            A casa Gobetti, afferma lo stesso torinese, "si giocava, si scherzava, 
            ma si leggeva Kant" (13). Le sedute platoniche di casa Gobetti, 
            fucina d'idee e di riflessioni sulla cultura universale, saranno in 
            seguito nostalgicamente rievocate anche da Ada Prospero, compagna 
            e poi moglie del fondatore di "Energie Nuove" (14). Ogni pensiero 
            è ricoperto d'ombra: / come in un sonno pieno di sussulti / 
            traggo la vita, compagno d'angoscia. / Sopra ogni istante piede, ventre, 
            coscia / col peso stanno; e coi banali insulti / rendon la mente d'ogni 
            bene sgombra. / Sta sopra me questa vendetta, immensa / ira senza 
            ragione; altri colpisce / perch'io non possa armarmi alla difesa, 
            / e senta alfine quanto è amaro e pesa / quello che è 
            eterno, a chi libero ardisce / un mondo porre intero in quel che pensa. 
            / Così conosco la divina sorte / e ferito mi giaccio sulla 
            terra / della ferita per cui altri langue. / Tutto macchiato del tuo 
            caldo sangue / non vinto, voglio seguitar la guerra. / Ma in fondo 
            al mar non v'è più che morte. Levi avverte che 
            l'eredità di Gobetti non può andare perduta. Scrive 
            a Natalino Sapegno nel febbraio 1927, un anno dopo la morte a Parigi 
            del comune amico e maestro: "[...] Continuare dobbiamo, noi, 
            poveri uomini, che non sappiamo neppure bene dove andiamo, che cosa 
            ne sarà di noi. Continuare, se ne saremo capaci" (17). " 14 luglio 
            1935 Sostanzialmente borghese, inoltre, era l'estrazione sociale e culturale dei giovani che formavano l'entourage gobettiano, di cui faceva parte anche Levi. E, partendo da tale semplice constatazione, non possiamo dimenticare che alla borghesia torinese apparteneva Guido Gozzano (20), il quale era stato sicuramente soggetto di riflessione da parte di Gobetti circa gli orientamenti "poetici" della letteratura piemontese degli anni Venti (21). Vi sono, però, almeno due ordini di motivi i quali ci spingono a sostenere che Levi non poté subire pienamente l'influenza della poetica di Gozzano o di quella crepuscolare in genere. Il primo è di carattere cronologico. Guido Gozzano pubblicò la sua opera più matura già nel 1911, quando Levi aveva poco più che nove anni, e morì nel 1916, quando Levi invece di anni ne aveva quattordici. In secondo luogo il Levi che gravita intorno a Rivoluzione Liberale vive l'atmosfera di una Torino in cui la borghesia comincia a fare i conti con la classe operala e coi fermenti sindacali e culturali ad essa collegati (22). La Torino del Gozzano, invece, era quella ancora un po' salottiera e preindustriale di fine Ottocento. Così, mentre nelle poesie gozzaniane l'amore e il sesso, in un contesto sociale dominato dall'etica del guadagno e della rispettabilità esteriore, non potevano essere cantati che attraverso il filtro dell'ironia (23). in Levi, invece, in presenza di un diverso atteggiamento dei giovani intellettuali "borghesi", gli stessi temi assumevano il carattere della trasgressione. L'amore diventa speculare e, insieme, complementare al dolore, la vita alla morte e il sesso è tentativo d'annullamento delle barriere della fisicità: Desiderio di molli 
            / tenere cose colorate / senza forme determinate / ma come donne, 
            sognate. / Boschi peluria sui colli / fantasie, ondulate / colline 
            - anche voi ricordate / gli amplessi; anche / di donne, allungate 
            / al sole, bianche - / ma le figure sdraiate / sul sepolcro, piegate 
            / in piccole pieghe le vesti, abbracciati / in eterno, son boschi, 
            fantasie, ondulate / colline. Come abbiamo potuto 
            notare, sarebbe arduo collocare la poesia di questo primo periodo 
            all'interno di una corrente letteraria ben definita. Spagnoletti (24) 
            aveva sostenuto per primo che Levi sembrava, con le prime liriche, 
            voler "gareggiare" con Saba. Ci sembra quanto meno azzardato 
            parlare d'influenze o d'inserimenti di Levi in questa o quell'altra 
            esperienza poetica. Questo sempre per il motivo anzidetto, ossia che 
            Levi guardò alla poesia con riserbo, coltivandola in margine 
            alla sua attività di scrittore e pittore. Prova ne è 
            che la pubblicazione dei suoi versi era, a dieci anni dalla sua morte, 
            ancora pressoché inedita. Lucania A differenza della poesia esordiale, superato l'impatto traumatico con la realtà lucana, Levi cerca di venire fuori dalla sua solitudine e di incontrare gli uomini di quelle terre sconosciute. Il vero protagonista di queste liriche è ancora il simbolo, che Levi usa costantemente come metafora della vita, della morte, dell'amore. Il bosco è adesso metafora del rigoglio della vita, della natura, in aperta opposizione agli scenari lucani, fatti unicamente di nude argille, di terra povera e desolata; ma il bosco diviene anche simbolo d'evasione dal confino. In senso più strettamente politico si potrebbe pensare che Levi proiettasse già nelle sue liriche il desiderio della lotta, antifascista naturalmente, insieme ai compagni, la quale si svolse principalmente sulle montagne, tra i boschi. Si legga a tal proposito la lirica del luglio 1935: "Scamperò da questa cella / rivedrò la prima stella / salirò sugli alti luoghi / degli antichi sacrifici / passerò senza la manna / i deserti dei mendici / lascerò qui quest'arsura / per un'altra, sull'altura". Inoltre, come accadrà più tardi per la stesura del Cristo, Levi si affiderà per la composizione delle sue poesie ad una gamma cromatica piuttosto vasta per significare i vari aspetti della sua esistenza e della terra di Lucania. Il nero è il colore degli occhi delle donne e di quelli bassi dei contadini, come anche dei veli che, ancora metaforicamente, sono simbolo di clausura, non solo per Levi, ma anche per l'intera civiltà meridionale (27). Ancora, le argille sono gialle, mentre le nubi sono rosa e il verde è "senza coscienza". Forse è stata questa sapiente opera di "colorazione", dote ereditata dalla sua natura di pittore, la quale ha fatto dire a Perilli che, leggendo le poesie di Levi, sembra ci si ritrovi dinanzi a delle "liriche pittoriche" o a delle "poesie dipinte" (28). Rosa colore nuovo 
            / tra questi visi affranti / pallide viole, eleganti / tra morti occhi 
            neri, / - se l'altra vita gentile / come il profumo ritrovo / irriperibile 
            ieri / fatto di amore e di grazia / civile; se in voi si riposa / 
            felice lo sguardo e si sazia / dei sensi amorosi lei sola / lontana 
            e primaverile / voi siete, o saffica viola, / o dolce femminea rosa. Inutile dire che, 
            dietro quasi tutte le liriche di questo periodo (1935-1936), vi è 
            ancora, trasfigurata, l'immagine della donna amata, lontana da Levi 
            ormai tre anni e dalla quale adesso egli avverte ancora più 
            dolorosamente il distacco (29). In Nuvola serena, Levi compone la 
            lirica giocando sugli effetti di mimetizzazione dell'uno e dell'altra 
            dietro aspetti della natura, i quali sono anche i luoghi che ospitano 
            rispettivamenti i due amanti, scandendo così la lontananza 
            tra i due. La donna amata è"pianta dai rami aperti", 
            "leggera, e fiorita", "bosco", "erba", 
            "volante uccello", "acqua corrente", "nuvola 
            serena". Mentre Levi, confinato in Lucania, si sente ed è, 
            di contro, "sabbia del deserto, / arsa dai venti e rapita / lontano, 
            ad un fosco / orizzonte, zimbello / dell'onde furiose, amara arena, 
            / non giovane non vecchio [ ... ] "[ ... ] Dopo che ci fummo abbracciati, che mi ebbe portati i saluti di mia madre, di mio padre e dei fratelli, e ci trovammo soli, fuori dagli sguardi della gente, nella cucina della vedova, io cominciai a interrogarla con impazienza, e Luisa, mia sorella, mi raccontò i grandi e piccoli avvenimenti famigliari e privati e pubblici occorsi durante la mia assenza, e quello che facevano i miei amici e le persone a me care, e quello che si diceva in Italia, mi parlò dei quadri e dei libri, e dei pensieri della gente. I quattro giorni della sua permanenza passarono presto. Mi rimasero i libri, le medicine e i consigli, e mi servirono subito[ ... ]" (30). 
 Infine, ci sono le liriche più commosse, più vere; quelle in cui un Levi ormai libero da pregiudizi, abbandonato il pessimismo della prima ora, conosce, scopre e ama la terra che lo tiene prigioniero. E' questo un punto di svolta importante per capire tutto il resto della poesia leviana. D'ora in poi moltissime liriche avranno come tema centrale il suo amore per il Sud, l'instancabile impegno per esso. Questo, in coincidenza coi mutati atteggiamenti intellettuali e artistici italiani ed europei, segnerà l'inizio di quello che noi potremmo definire il terzo momento della poesia di Levi, di cui parleremo più avanti. Per ora ci basterà leggere una poesia del luglio 1936, quindi degli ultimi giorni del confino, per renderci più chiaramente conto di quanto diciamo: M'avete fatto umano / baci dolenti, terre nascoste / dove un dolore antico era prima del mio arrivo. // Come un classico dio mendico / sono stato in mezzo al grano / povero e alle scomposte / colline del grigio ulivo; / secoli di pene imposte / e di desiderio vano / sul biondo tuo viso amico come / in quei monti scoprivo // che un egoismo lontano / arse paterno e passivo / spogliando d'erbe l'aprico / terreno e le tenere coste. Alle offerte senza risposte / so solo rispondere, e dico / parole che apran l'arcano / grembo del fonte vivo. 
 L'arco cronologico, 
            che va dal marzo 1936 al febbraio 1946, rappresenta un periodo di 
            ulteriore maturazione della lirica leviana. Tale decennio fu, oggettivamente, 
            un periodo piuttosto travagliato per Levi, e non soltanto per Levi. 
            Eventi come la seconda guerra mondiale, con i suoi morti e le sue 
            sofferenze, la caduta del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, 
            la lotta partigiana, l'olocausto degli ebrei, le lotte e le speranze 
            dei primissimi anni del dopoguerra, non poterono essere analizzati 
            allora, e forse ancora neanche oggi, "con il comune metro del 
            tempo", per dirla con le parole dello stesso Levi. Intensa era 
            stata durante questo periodo la sua attività intellettuale 
            e artistica. Sfuggito in Francia, scrive Paura della libertà, 
            (1939), tornato in Italia (1941) scrive, nel rifugio di Firenze, Cristo 
            si è fermato a Eboli, mentre continua la sua attività 
            di oppositore del fascismo, che dal 1938 aveva emanato, in ossequio 
            alle disposizioni hitleriane, le leggi razziste contro gli ebrei. Tra i rami portano 
            l'ore / un rombo di mine e di guerra / ma un muro di fronde chine 
            / pel vento mi cela alla terra. / Celato rimango, come / un germoglio 
            sotto la scorza / dell'albero, che una forza / oscura apre in silenzio. L'interpretazione 
            sul piano denotativo di questa poesia non può essere che quello 
            testé accennato e che così potremmo sintetizzare: le 
            ore sono quelle che Levi vive, con ansia e terrore, a Firenze e che 
            recano al Nostro il rumore tremendo delle bombe che i tedeschi, occupanti 
            il capoluogo toscano, fanno esplodere per far saltare ponti e case. 
            Levi, nascosto per non essere braccato dai nazisti, si sente celato 
            da un metaforico muro di fronde. Ma è momentanea questa sorta 
            di sepoltura, come per il germoglio, che una forza oscura, la primavera, 
            farà fiorire. La primavera dell'umanità, rinata dagli 
            orrori della guerra, farà dischiudere Levi al mondo e all'uomo, 
            traendolo dalla sua forzata segregazione e proiettandolo, ora e per 
            tutto il resto della sua esistenza, nel vorticoso movimento della 
            storia. Guarda il ciclista 
            (32) il muro, e fuma, i morti / sono elencati e numerati in calce 
            / bianca: Melissa due, Montescaglioso / uno e feriti quindici, altri 
            tre / Torremaggiore, e alla lista ne manca. // Bianca la calce e bianche 
            l'ossa e bianca / l'argilla che le stringe in fosse avare. / Pesan 
            quell'ossa sotto il piombo, oppure / leggere il vento le ammucchia 
            e trascina / con quelle che ogni giorno, che ogni falce / fame, malaria, 
            fatica perdé? // Fatto hanno case delle sepolture / che l'immobile 
            tempo ha sfatto e roso / tra l'erba stenta nata sulle bare / fissa 
            la capra l'occhio di requia. / All'eterna pazienza contadina / chi 
            conta i morti, chi conta le sorti? La poesia si rifà 
            ai disordini che attraversarono la Sicilia e tutto il Meridione nel 
            secondo dopoguerra. I moti contadini di quegli anni furono così 
            intensi, per drammaticità e partecipazione di massa, che lo 
            Stato non poté non prendere atto che urgeva nel Meridione d'Italia 
            una riforma dell'assetto sociale ed economico che assecondasse le 
            rivendicazioni contadine. Levi scrisse la lirica su riportata proprio 
            in occasione dell'emanazione della nota Riforma agraria; ciò 
            dimostra come, mutati i tempi, egli vada ora cercando nella quotidianità, 
            nella realtà, i motivi ispiratori della sua lirica. Costanti 
            rimangono ancora una volta le ricorrenti corrispondenze tra poesie 
            e la contemporanea opera in prosa. Si legga quanto Levi scriverà 
            di ritorno dal viaggio in Terra di Riforma: "[ ... ] A San Giovanni 
            in Fiore eravamo stati alla sala dell'Opera, e avevamo parlato con 
            assegnatari sparuti e reticenti; e alla Camera del lavoro, nel calore 
            delle proteste e degli occhi vivi tra i mantelli neri, avevamo ascoltato 
            le poesie contadine contro i metodi della Riforma: "Si si benutu 
            cu la leggi a mmanu / u meritu e chi neri lu sapimu: / i muorti e 
            li feriti re Melissa / e lutte camu fattu e chi facimu (33)" 
            (Se sei venuto con in mano la legge di Riforma, sappiamo chi ne ha 
            merito: sono i morti e i feriti di Melissa, le lotte che abbiamo fatto 
            e che facciamo)". L'asino è grande come la porta / la casa è grande come una stalla / cinque bambini stanno su un letto / e se dio volle l'altra era morta, / dentro il lamione c'è la Madonna / l'incoronata nera di Foggia / ed il ritratto di Di Vittorio / per la famiglia, l'uomo e la donna, / è un dio del cielo che ci protegge / è una madonna di questo mondo / mettiamo insieme questi dei lari / se vogliamo farci la nostra legge. // Uomini siamo in questo inferno / d'arida terra e di calanchi / ed il lamione è il paradiso dove si muore senza governo. // Ci avete detto che son peccati / muovere i tempi, prender la terra / ma non possiamo ormai fermarci / perché siam nati, noi, e esistiamo. // Ci avete detto che non dobbiamo / muovere i tempi prender la terra / ma non temiamo più di morire / perché soffriamo che siamo nati. E dal ricordo della visita a Bronte, in Sicilia, nasce la seguente lirica: Tra glorie antiche 
            e eterne onte / la fatica dei jurnatari (37) / su dal fango dei pagliari 
            (38) / nera copre il feudo a Bronte. / Là la folgore dei mari 
            (39) / in un albergo è sepolta: / qui ogni albero è 
            una fonte / di speranza e di rivolta. / Ha il bracciante chi lo ascolta: 
            / non è solo sopra al monte (40): / avvocati e feudatari / 
            troveranno braccia pronte. La lirica di Levi 
            passa quindi dall'individuo all'umanità, dal particolare all'universale, 
            dall'io al noi. Anche i fatti di cronaca internazionale sono motivo 
            d'ispirazione per la poesia leviana. Si legga ad esempio Viet Nam. 
            Qui Levi tende idealmente la mano ad un paese che simboleggia la lotta 
            di tutti gli sfruttati contro tutti gli sfruttatori, degli oppressi 
            contro gli oppressori, che incarna le speranze di tutti i Sud del 
            mondo (41). Io canto per amore 
            / della vita, di te, di me stesso / ed il senso e il consenso / e 
            la lotta e il compenso / ed il sesso e l'amplesso / ed i ricordi perduti 
            / e la sorte la morte / e dei piccoli / sconosciuti / la volontà 
            più forte, / la speranza dei delusi / la giustizia degli esclusi 
            / ogni cosa reale, / io canto per amore. // Io canto per amore / ogni 
            cosa che è nuova / e parlando si trova / e si conosce e sta 
            / verde tra quel che muore. / Quello che è libertà / 
            io canto per amore. Il 1972 segna 
            una fisiologica flessione della poesia leviana verso modi e temi più 
            pacati. Meglio sarebbe affermare che, con l'incalzare della vecchiaia 
            e della cecità, la poesia di Levi si fa malinconica e cupa. Qualche cosa è finita / che non tornerà più, mai: / del pianto si è inaridita / la fonte; ed i gesti gai / sembran d'un'altra vita, ove odorai. 
 
 
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