Per esaminare 
            il rapporto tra il Duce e la sua immagine, alla luce dei documenti 
            fotografici, occorre premettere alcune riflessioni più generali. 
            L'argomento, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro dalle penne 
            di storici e studiosi illustri, viene in queste note affrontato nella 
            specifica prospettiva dell'immagine fotografica senza presumere di 
            possedere alcuna pretesa storica; citazioni storiche si riveleranno 
            utili e qualche volta necessarie per una migliore comprensione delle 
            immagini qui scelte in numero limitato tra quelle disponibili.
            L'esposizione, ancorché ridotta all'essenziale, ha richiesto 
            la suddivisione in tre parti: la prima riguarderà il periodo 
            sino alla presa del potere; la seconda l'affermarsi e il consolidarsi 
            del consenso e l'ultima il declino e il crollo finale.
            L'immagine fotografica quale documento storico registra istanti gestuali 
            e comportamentali, momenti di autorappresentazione dei protagonisti; 
            l'analisi storica senza pregiudizi resta ancorata all'esame dei documenti.
            All'origine, la comunicazione ha avuto come protagonista il "gesto", 
            cioè l'atteggiarsi del viso e le movenze di parti del corpo, 
            soprattutto le mani. Era cosa nota sin dall'antichità - lo 
            narra Erodoto nel V secolo a.C. del faraone Psammetico - che l'attività 
            gestuale rappresentava un linguaggio completo e distinto rispetto 
            a quello parlato e scritto.
            Recentemente la rivista Nature ha riferito l'importante conclusione 
            cui sono giunti i ricercatori del Dipartimento di Psicologia e del 
            Dipartimento di Studi asiatici dell'Università di Chicago, 
            Susan Goldin-Meadow e Carolin Mylander, riguardo allo sviluppo spontaneo 
            di un linguaggio gestuale in bimbi sordomuti congeniti, figli di genitori 
            udenti e parlanti. La novità più significativa dello 
            studio dei ricercatori consiste nell'aver scelto due gruppi di bambini, 
            di cui uno americano e l'altro cinese, cioè provenienti da 
            culture e habitat molto diversi, e di aver acquisito il risultato 
            che le proprietà strutturali dei rispettivi linguaggi gestuali 
            rispondevano alle stesse "logiche" tanto da rendere possibile 
            la comunicazione, maggiormente quella tra loro che quella con le rispettive 
            madri.
            Sulle proprietà e varietà della parola, per non dire 
            poi dell'immagine, nella comunicazione sembra superfluo spendere in 
            questa sede anche un solo momento. Infatti l'evidenza di ciò 
            balza agli occhi, mentre è da sottolineare che le suggerite 
            proprietà appaiono diverse da individuo a individuo, da mezzo 
            a mezzo, da società a società. Tutto ciò consente 
            di constatare che nella comunicazione si utilizzano i suddetti tre 
            elementi: gesti, parole e immagini.
            Ma per comunicare è sempre occorso, e occorre, autorappresentarsi. 
            L'autorappresentazione consiste nel generare immagini mentali di sé 
            cui conformare e adeguare la propria apparenza fisica e il proprio 
            comportamento. Il processo vero e proprio del rappresentarsi è, 
            quindi, preceduto da un passaggio costruttivo intimo al quale contribuiscono 
            tutte, nessuna esclusa, le proprietà originarie e acquisite, 
            consapevoli o meno, dell'individuo. Il confine, labile e spesso indefinibile, 
            tra immagine eidetica e allucinazione definisce l'evento patologico, 
            che si verifica quando l'immaginazione trascende nella alterazione.
            Il confronto continuo con i dati della realtà esterna è 
            la garanzia del controllo necessario perché non avvenga il 
            superamento del limite fatale.
          
          
            L'autorappresentazione, inoltre, è la condizione necessaria 
            per svolgere il ruolo politico, poiché il fare politica richiede, 
            tra le altre, l'attitudine e la capacità di comunicare, non 
            solo in modo determinato, unico e rigido ma anche adatto all'interlocutore, 
            individuo o folla, e, in più, di aver presente l'occasione 
            e il momento nel quale avviene l'incontro. Questa elasticità, 
            a sua volta, presuppone intuizione, sensibilità e ricchezza 
            di linguaggio, caratteristiche necessarie a raggiungere la sintonia 
            con l'interlocutore. Gesto, parola ed immagine concretizzano l'autorappresentazione 
            di chi intende comunicare con altri soggetti. In tempi recenti è 
            divenuto possibile imparare le tecniche che consentono di autorappresentarsi; 
            queste tecniche, che all'inizio del secolo non erano ancora note e 
            in uso, erano surrogate dall'educazione dell'ambiente, familiare o 
            esterno, le cui norme comportamentali, indotte o imposte, quando si 
            incontravano con la predisposizione naturale, offrivano il mezzo capace 
            di costituire, anche se inconsapevolmente, una rappresentazione di 
            sé adatta alle varie circostanze. 
            Infine è importante citare Giovanni Berlardelli che afferma 
            che la storia non è, così come si è intesa anche 
            nel recente passato, la pretesa di indicare il futuro e di imporre 
            i suoi fini - cioè la storia dei "falsi ricordi" 
            -, ma la riscoperta delle identità collettive quando essa può 
            "aiutarci a chiamare le cose con i loro nomi, crimini i crimini, 
            illusioni le illusioni", cosicché l'ingombrante fardello 
            del passato non faccia velo al nostro sguardo del futuro; opportunamente 
            l'articolo ha il titolo "Viva la Storia, quando non è 
            politicamente corretta" (Corriere della Sera del 27 gennaio '98).
          
          
            Queste brevi considerazioni introduttive - il significato nella comunicazione 
            del gesto, della parola e dell'immagine, l'autorappresentazione nella 
            comunicazione del politico e la ricerca storica tramite i documenti 
            anche fotografici - come si è detto sono necessarie per tentare 
            di comprendere il personaggio Mussolini e con lui il fascismo, ma 
            risulta anche opportuno dare qualche cenno della sua biografia soprattutto 
            sino alla presa del potere.
            Le modeste origini familiari - il padre era fabbro, socialista, e 
            la madre insegnante delle scuole elementari - fornirono a Benito Mussolini 
            (1883-1945) quella sensibilità e attenzione che alimentano 
            l'ambizione del piccolo borghese e la concretezza dell'artigiano. 
            Fu educato dal 1892 al 1894 presso il collegio dei salesiani di Faenza, 
            poi nel collegio laico Giosuè Carducci per diplomarsi, infine, 
            maestro nel 1901. Già nel 1900 era iscritto al Partito socialista 
            nel quale cercò l'equilibrio tra il suo carattere, impulsivo 
            e violento, e il bisogno di protagonismo, tra il senso di ribellione 
            verso la società e l'ideologia socialista mutuata dal padre. 
            
          
          
            Dopo un periodo anarchico, durante il quale collaborò alla 
            rivista Giustizia di Prampolini, insegnò, da supplente, in 
            una scuola rurale in provincia di Reggio Emilia, ma fu costretto nel 
            1902 a emigrare in Svizzera per sottrarsi alla leva militare, cosa 
            che gli costò la condanna, non scontata, ad un anno di reclusione. 
            Restò in Svizzera sino al 1905, insegnando e lavorando anche 
            manualmente, finché ne fu espulso per propaganda rivoluzionaria 
            e anticlericale. L'anno prima era stata concessa in Italia un'amnistia 
            - era nato il principe Umberto - che gli consentì di tornare 
            e, con una delle sue incomprensibili decisioni, di arruolarsi volontario 
            nei bersaglieri, con i quali rimase sino al 1906, per poi dedicarsi 
            nuovamente all'insegnamento e per incominciare ad esercitare l'attività 
            di giornalista. 
            Nel 1908 per aver partecipato allo sciopero di braccianti nel suo 
            paese natale, Predappio, fu arrestato e costretto in carcere per 15 
            giorni. Alla fine dello stesso anno fu chiamato a Trento, città 
            ancora austro-ungarica, come segretario della camera del lavoro e 
            quale direttore della rivista L'avvenire del lavoratore; collaborò, 
            come redattore capo, al Popolo diretto da Cesare Battisti, per un 
            solo mese, in quanto i toni fieramente nazionalistici di Battisti 
            non coincidevano con la sua visione classista e pacifista. Venne espulso 
            anche dal Trentino per i suoi attacchi anticlericali e antireligiosi 
            particolarmente nei confronti del partito sociale cristiano e del 
            giornale Il Trentino diretto da Alcide De Gasperi. 
          
          
            Nel 1909 tornò a Forlì, si unì a Rachele Guidi, 
            che sposò civilmente nel 1915, e nel 1910 fu nominato segretario 
            della sezione di Forlì del partito socialista di cui fondò 
            e diresse l'organo di stampa La lotta di classe; fu alla guida delle 
            manifestazioni contro la guerra italo-turca e ciò gli procurò 
            la condanna a cinque mesi di prigione insieme a Pietro Nenni. Quale 
            guida dell'ala intransigente del partito provocò , nel 1912, 
            l'espulsione dei riformisti Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi e nel 
            dicembre dello stesso anno fu nominato direttore dell'Avanti, per 
            cui si trasferì a Milano, ove assunse rilevanza e influenza 
            nell'azione del socialismo nazionale. 
          
          
            Continuò nella linea di intransigente lotta contro i propugnatori 
            della guerra, il potere economico e il clero cosicché allo 
            scoppiare della guerra la sua posizione era neutralista, ma, pochi 
            mesi dopo, improvvisamente, nell'Avanti del 18 ottobre, si dichiarò 
            favorevole all'intervento. Questa tesi non fu accolta dall'assemblea 
            del partito, che il 24 novembre lo espulse. Ma il 15 novembre era 
            già apparso il nuovo giornale di Mussolini, Il Popolo d'Italia, 
            seguito, subito dopo, dalla nascita del movimento dei fasci d'azione 
            rivoluzionaria, movimento che si schierò totalmente a favore 
            della guerra contro gli imperi centrali. Nell'agosto 1915 Mussolini 
            fu richiamato alle armi e assegnato al corpo dei bersaglieri; ferito 
            in esercitazione, nel 1917, e congedato, riprese il suo posto a Il 
            Popolo d'Italia, ricomparendo nella scena politica nel marzo del 1919 
            alla fondazione dei fasci italiani di combattimento avvenuta a piazza 
            San Sepolcro, i cui caratteri si identificavano nell'esasperato nazionalismo, 
            nell'appoggio all'impresa fiumana di D'Annunzio, nella violenza esercitata 
            dalle squadre d'azione, nell'avversione allo stato democratico e alle 
            istituzioni parlamentari, ma soprattutto nel seguire il capo spregiudicato 
            e demagogo che venne chiamato "il Duce".
            Questa rievocazione - che durante il ventennio "doveva" 
            essere conosciuta da chiunque in Italia così come dopo la guerra 
            è stata dalla massima parte degli italiani ignorata - è, 
            invece, necessaria quale cornice all'analisi dei documenti fotografici. 
            Il personaggio in questione appare, così, formato da elementi 
            culturali e psicologici ambigui e contrastanti: tenacia e opportunismo, 
            coraggio e prudenza, utopia e realismo, intuito e furbizia, gli consentirono 
            sin dai suoi esordi di destreggiarsi nello sviluppo degli eventi di 
            quei primi sconvolgenti venti anni del nostro secolo.
            
          
          Nonostante ciò, 
            le fotografie che ci vengono rimandate mostrano del nostro personaggio 
            un aspetto generalmente costante, sia nell'abito sia nell'espressione; 
            ciò si può vedere nell'attenta considerazione in cui 
            egli teneva la propria immagine e del controllo della persona.
            Traspare dai suoi atteggiamenti l'influenza di Nietzsche e di Sorel, 
            i cui scritti lo avevano indirizzato alla speculazione dei problemi 
            della gente, ma con la prerogativa dell'eletto e con i modi evocati 
            e suggeriti, e poi imitati, dalla parola e dall'azione di D'Annunzio; 
            anche di ciò ritroviamo tracce in alcune fotografie.
            L'immagine che riassume e conclude la prima fase dell'avventura del 
            personaggio (foto 1), non a caso, venne proposta ne Il Popolo d'Italia 
            - il giornale da lui fondato nel 1914 - del 31 ottobre 1922. Emerge 
            da essa l'estrema serietà e concentrazione del volto, l'abito 
            borghese, e l'atteggiamento di chi scrive traducendo il pensiero in 
            azione, sottolineando la differenza rispetto all'usato e abusato mezzo 
            busto ufficiale mediante il quale venivano rappresentati nei giornali 
            di allora gli uomini politici. 
            La stessa impressione suscita la fotografia dell'incontro con il Re 
            (foto 2), dove, però, sorprende la rigidezza di Mussolini che 
            sembra attendere, nel completo tre quarti scuro corredato di rispettabili 
            "ghette", il sovrano, il quale è invece in atteggiamento 
            di chi si fa cordialmente incontro. Il rapporto di Mussolini con le 
            istituzioni, fino ai primi anni venti, di cui riconosceva il valore 
            e l'importanza, fu sempre ambiguo e controverso, tanto che egli si 
            mosse sempre al loro interno, persino in occasione della presa del 
            potere seppure cogitasse la necessità di mutarle. Tale ambiguità 
            lo portò ad essere, almeno formalmente, timido e ossequioso 
            ma pure diffidente e sospettoso. Comunque, si conferma l'attenzione 
            e la cura con le quali, sin dagli inizi, Mussolini curava la propria 
            immagine, così come la parola e il gesto, ma con una strana 
            incongruenza, manifestata e sviluppatasi ancor più nel seguito 
            tra le prime, asciutte, semplici e dirette, e il gesto esagerato e 
            italianamente abbondante.
          
          
            Nella foto 3 presa ad un comizio a Roma nel giugno 1919 e nella foto 
            4 in occasione di una manifestazione di arditi e di fascisti tenutasi 
            in quello stesso anno - ambedue riferentisi ad incontri con la folla, 
            che potevano indurlo a far sfoggio delle sue capacità istrioniche 
            - appare, invece, un Mussolini contenuto, serio e concentrato. E' 
            da ritenere che poiché entrambe hanno avuto il suo placet e 
            pertanto sono state da lui scelte le considerasse, ai suoi fini, maggiormente 
            rappresentative.
            Ma anche nella foto 5, da considerare meno controllabile data l'occasione 
            - i funerali di Sidney Sonnino -, la sua figura si staglia e si evidenzia 
            con la sua immota concentrazione, su tutte le altre preda dell'agitazione 
            dell'evento. Si può dire che era per lui preminente apparire 
            rispettabile, distante dalla violenza degli avvenimenti, quasi super 
            partes, presentando di sé un'immagine che contribuì 
            non poco a far accettare l'idea di una sua possibile partecipazione 
            alla cosa pubblica, non rappresentando un vero pericolo per lo stato 
            liberale e la monarchia, a differenza di quanto poteva apparire dalle 
            azioni delle squadre fasciste, per esempio nei confronti degli avversari 
            - nella foto 6 il deputato comunista Misiano trascinato per Torino 
            con la testa rasata -. 
            Nel maggio del 1921, per contrastare i socialisti, che avevano ottenuto 
            un discreto successo nelle elezioni comunali dell'ottobre dell'anno 
            prima, Giolitti raccolse nelle liste del blocco nazionale i liberali, 
            i democratici, i nazionalisti e i fascisti. Questi ultimi ottennero 
            35 seggi raggiungendo l'obiettivo sfuggito nel novembre 1919 quando 
            si erano presentati a Milano con una propria lista - nella quale erano 
            Mussolini, Marinetti e Arturo Toscanini - ottenendo solo 4.795 voti 
            e nessun seggio. Seguirono mesi di scontri tra squadristi e antifascisti, 
            e il 22 luglio, a seguito di una spedizione punitiva e dimostrativa 
            dei secondi a Sarzana, i fascisti - come riporta Renzo De Felice - 
            lamentarono decine di morti e operarono una rappresaglia mortale in 
            quel di Roccastrada, Grosseto. Il 3 agosto fu firmato il "patto 
            di pacificazione" tra fascisti - rappresentati dall'on. Acerbo 
            - e socialisti, rappresentati dall'on. Zaniboni, che appaiono nella 
            foto 7. Dal 7 al 10 novembre del 1921 fu convocato, su iniziativa 
            di Dino Grandi, Italo Balbo e Roberto Farinacci, che intendevano rompere 
            il patto di pacificazione, il congresso nazionale fascista a Roma, 
            foto 8, che si concluse con la trasformazione del movimento in partito 
            fascista. L'ascesa al trono di S. Pietro di Pio XI - papa Ratti - 
            che a Milano non aveva nascosto la propria simpatia per i fascisti, 
            lo sciopero "legalitario", comunque fallito, che aveva autorizzato 
            l'ultimatum fascista al governo Facta, la caduta della pregiudiziale 
            antimonarchica nel discorso di Mussolini a Udine, condussero alla 
            marcia su Roma che si svolse tra il 27 e il 28 ottobre del 1922 (foto 
            9), e il 29 il Re affidò a Mussolini l'incarico di formare 
            un nuovo governo. Già il giorno dopo, il 30, il governo è 
            formato foto 10.
            Emilio Gentile in un suo saggio, Il mito di Mussolini, così 
            si esprime: "Il mito di Mussolini non fu l'espressione emotiva 
            di un popolo predisposto a subire il fascino di un dittatore. Il mito 
            del duce appartiene a una situazione storica e a una tradizione culturale 
            e politica che scorre lungo tutto il corso della storia europea dopo 
            la rivoluzione francese. Le sue radici sono nel culto romantico del 
            genio, ma il tronco è cresciuto e si è ramificato con 
            lo sviluppo della società di massa. In principio, il mito mussoliniano 
            fu un mito socialista, il mito del capo rivoluzionario venerato da 
            tutti gli estremisti ma rispettato anche dai riformisti che lo combatterono. 
            Tanto in questa fase che nella successiva, quando Mussolini divenne 
            il campione del radicalismo interventista e antigiolittiano, il suo 
            mito ebbe soprattutto una connotazione morale, in cui le doti di fede, 
            di carattere e anche della sua ostentata cultura prevalevano sugli 
            elementi propriamente politici".
          
          
            Per poter comprendere la politica di massa del XX secolo e dei nostri 
            giorni, il fenomeno fascismo - il primo movimento di massa che ha 
            portato il mito al potere - deve essere attentamente studiato nell'esame 
            del suo manifestarsi e nel suo contesto storico, ma soprattutto nell'esperienza 
            compiuta e conclusa dello stesso fascismo. Dal dopoguerra, contemporaneamente 
            agli eventi italiani, si andava sviluppando la comunicazione di massa, 
            che alla tradizionale stampa affiancava la fotografia, il cinematografo 
            e la radio, il cui bagaglio documentale non può essere trascurato. 
            Pur tuttavia le nuove fonti della comunicazione, sia per motivi dovuti 
            alla ancora non generalizzata conoscenza e diffusione dei mezzi tecnici 
            sia per l'azione del protagonista, che era limitata entro ristretti 
            ambiti territoriali ovvero tra i militanti di partito, non risultano 
            abbondanti almeno sino all'ascesa del fascismo al potere, mentre lo 
            divennero dopo durante l'evoluzione dei fatti, i quali insieme ai 
            documenti iconografici seguirono una sorta di spirale ascendente. 
            La radio e la fotografia - parola e immagine - registrarono pur sempre 
            gli avvenimenti ma in più collaborarono al loro affermarsi 
            indirizzandoli secondo linee desiderate e volute per poi sfociare 
            nella propaganda.
          
          
            Il mito di Mussolini consiste proprio nella coniugazione e congiunzione 
            della sua autorappresentazione con quella della massima parte dei 
            fascisti prima e degli italiani poi. Pur non essendovi, attualmente, 
            il rischio di una sua ripresentazione, Luisa Passerini annota nel 
            suo saggio L'immagine di Mussolini: specchio dell'immaginario e promessa 
            di identità del 1985 che "i fenomeni degli anni '30 appaiono 
            per molti versi l'inizio di processi di società massificata 
            che il secondo dopoguerra ha portato avanti, nonostante che la forma 
            di dominio sia stata democratica".
            Nel 1926 Roberto Michels nel corso di lezioni di sociologia politica, 
            che egli tenne all'Università di Roma, affrontò il tema 
            "del sorgere del fattore massa nella vita politica" in un 
            tempo in cui l'affermarsi del suffragio universale aveva trasferito 
            il carattere sacro del diritto divino dal re alla moltitudine; divenne 
            così possibile che proprio dalla democrazia fosse originata 
            la dittatura in quanto "dato il risveglio delle folle operaie 
            e contadinesche, non è possibile nell'era presente che l'élite 
            possa affermarsi vittoriosa senza il continuo tacito consenso delle 
            masse".
            Quanto ciò sia vero lo constateremo nella seconda parte di 
            queste note.  
          (1 - continua)