Nummus 
          Artifex  
          Cosa vale di più, 
            l'oro o l'argento? La domanda sembra sciocca, eppure non lo è. 
            Facciamo un esempio. Voi siete un nobile cavaliere medievale che cavalca 
            da molte ore e avverte un principio di stanchezza, e anche un po' 
            di appetito. Vi fermate in un piccolo villaggio anche perché 
            son sorti problemi alle cinghie della sella. L'oste per una scodella 
            di minestra e una pagnotta chiede pochissimi spiccioli; il sellaio 
            altrettanto. Ma il cavaliere nella borsa ha solo monete d'oro, non 
            esistono ancora sportelli bancari per cambiare la moneta e la gente 
            del villaggio non ha mai visto, forse, una moneta d'oro. Una moneta 
            d'oro pesa un'oncia (circa trenta grammi), un po' troppo per lasciare 
            il resto come mancia, nè poveri diavoli come l'oste e il sellaio 
            possono fare grazioso omaggio al cavaliere delle loro prestazioni. 
            E' una situazione imbarazzante.
            E non è la sola. Nelle compere quotidiane (quando non interviene 
            lo scambio in natura) pochi spiccioli d'argento sono più che 
            sufficienti; l'oro appare negli alti ranghi per comperare spezie, 
            gioielli, stoffe, armi, ecc.
            E qui ci accorgiamo che in alcuni secoli del medioevo (X-XIII) l'oro 
            e l'argento erano distribuiti in modo diseguale sul territorio europeo, 
            e non solo europeo. La sfera nord-europea aveva più argento, 
            il Sud dell'Europa più oro. Nel mondo merovingio, in Gallia, 
            l'oro si esauriva in acquisti di lusso, mentre le miniere di argento 
            della Boemia, di Poitou, dei monti dell'Harz fornivano materia prima 
            per una monetazione corrente.
            Non basta. Se vogliamo porgere ascolto a quanto scrive Louis Charpentier 
            in "I misteri dei Templari", edizione italiana Atanor, i 
            Templari, con la flotta, che si muoveva nel porto di La Rochelle, 
            raggiungevano l'America (già raggiunta, molto tempo prima da 
            Vichinghi e Normanni partiti dalla Groenlandia) riportando carichi 
            di argento. Questa tesi è sostenuta da Jean de La Varende nel 
            libro "I Gentiluomini", ed entrambi gli autori portano numerosi 
            argomenti a sostegno del loro assunto che, non possiamo negare, sono 
            molto convincenti.
            Per esempio: sei grandi strade partono dal porto di La Rochelle e 
            si dirigono per tutta la Francia, tra cui una versola costa atlantica 
            e la Bretagna, un'altra verso la regione parigina, un'altra ancora 
            verso Ginevra e il Basso Poitou, ecc.. Si deve necessariamente concludere 
            che il porto di La Rochelle avesse per i Templari una importanza tutta 
            particolare.
            Nè si può pensare che servisse per i rapporti con l'Inghilterra, 
            perché a questo scopo c'erano i porti sulla costa fiamminga. 
            Le relazioni con la Spagna e il portogallo erano assicurate più 
            facilmente per terra che per mare; di qui il sospetto che i collegamenti 
            fossero con l'America del Nord dove esistevano miniere d'argento. 
            Mancano le prove, ma, d'altra parte, non vi sono mai prove quando 
            si tratta di templari. Le piste sono sempre accuratamente cancellate. 
            Resta certo che i Templari disponevano di una grande ricchezza che 
            consentì loro straordinarie realizzazioni (non dimentichiamo 
            i diecimila castelli in Europa). La Rochelle poteva rappresentare 
            il grande polmone.
            L'argento dunque abbondava nella Gallia merovingia.
            Al contrario nel Sud d'Europa, e più esattamente nel mondo 
            arabo-islamico, l'oro era di più facile reperibilità 
            perché prodotto nell'Africa del nord. C'è da aggiungere 
            una curiosità che troviamo nel libro "Carlo Magno e Harun 
            al-Raschid" di Giosué Musca, ed. Dedalo, e cioè 
            "nel secolo VIII "(siamo chiaramente in un'epoca notevolmente 
            anteriore)" le riserve auree delle chiese e dei monasteri non 
            erano commerciabili, almeno sino a quando non venivano depredate, 
            e si verificò una concentrazione di oro nelle mani dei musulmani 
            che mettevano in circolazione i tesori delle chiese siriache e delle 
            tombe faraoniche di cui nel secolo IX iniziarono metodiche ricerche".
            Nondimeno, lo scambio di questi metalli avveniva continuamente per 
            mezzo dei pellegrini, dei mercenari, dei commercianti, ma in misura 
            non sufficiente a sofddisfare le necessità. E dovevano avvenire 
            veri e propri "accaparramenti" (da alimentare una specie 
            di mercato nero), se consideriamo i seguenti episodi.
            In una abbazia di Montescaglioso, in Lucania, è stato rinvenuto 
            un tesoro, depositato verso la fine del XIII secolo, costituito soltanto 
            di monete d'argento d'ogni tipo. Di contro, in Toscana, nel 1925, 
            è stato trovato, presso Pisa, un tesoro costituito soltanto 
            da monete d'oro d'ogni epoca e d'ogni tipo, quali soldi bizantini, 
            tari siciliani, grossi d'oro di Lucca, fuorini, ecc. Si trattava chiaramente 
            di accaparramenti che servivano alle due parti per effettuare degli 
            scambi presentandosi la necessità.
            Va detto, nondimeno, che lo squilibrio territoriale dei due metalli 
            pregiati sia stato anche eccessivamente drammatizzato per motivi di 
            mercato, come dire per rendere l'oro più accessibili e a minor 
            costo. Comunque, le circostanze storiche ed economiche condussero 
            gradualmente ad una rinascita dell'argento nell'Oriente islamico, 
            con conseguente coniazione argentea in tutto il Mediterraneo. Le coniazioni 
            auree, tuttavia, rimasero come un fatto di prestigio degli stati e 
            dei monarchi, ed è il caso dell'Augustale di Federico II, moneta 
            elegante (specie rispetto ai tari piuttosto grossolano) con il profilo 
            dell'Imperatore, l'aquila imperiale, i suoi poco più di cinque 
            grammi che le consentivano di svolgere la sua funzione di propaganda.
            E questo è confermato dal fatto che l'Imperatore continuò 
            ad autorizzare la produzione degli "augustales" anche durante 
            le sue ben note difficoltà economiche e finanziarie più 
            spiccate tra gli anni 1220 e 1240. Non dimentichiamo che, come scrive 
            Arthur Haseloff in "Architettura sveva nell'Italia meridionale", 
            Federico, negli anni 1239-40, al fine di ridurre le spese, si vide 
            costretto a ritirare le sue guarnigioni da numerosi castelli, a sospendere 
            le costruzioni in corso, a confiscare tutti i tesori della Chiesa. 
            Ma l'oro oer coniare gli "augustales" doveva esserci sempre.
            Non che l'oro dovesse rappresentare soltanto un mezzo di pagamento, 
            ma si trattava di un attributo reale, di una credenziale, di una etichetta 
            imperiale, tanto più che quel secolo vide una ascesa delle 
            monete d'argento verso una posizione più importante nella vita 
            economica nella sfera meridionale. Così l'argento nell'Italia 
            meridionale e in Sicilia determinò l'inizio di una nuova era 
            per le monete di queste regioni. Anche in questo caso Federico - che 
            accettò la svolta - si dimostrò monarca illuminato, 
            perché le monete d'argento migliorarono la reputazione internazionale 
            delle monete dell'Italia meridionale, trovando favorevoli anche i 
            successori degli Svevi, ossia Carlo d'Angiò II e Roberto il 
            Saggio.
            Appare chiaro che la teoria della relatività è una costante 
            della nostra vita, per cui se l'oro vale di più dell'argento 
            come metallo, nella vita pratica, quella quotidiana che vivono milioni 
            e milioni di uomini, l'argento può avere una funzione preminente 
            e lasciare all'oro - sempre in senso relativo - la funzione di rappresentanza.
          
Pubblicità
            La pubblicità ha origini remote. Non dobbiamo credere che il 
            martellamento cui ci sottopone la televisione sia l'invenzione di 
            solerti e creativi pubblicitari che posseggono le chiavi della persuasione 
            occulta e manifesta. Essi hanno soltanto aggiornato i loro metodi.
            Quando non c'erano giornali, libri, manifesti murali, a circolare 
            erano soltanto le monete ed era sulle monete che si scriveva ciò 
            che il regnante di turno voleva che il popolo s'imprimesse bene nella 
            testa. Naturalmente si trattava di brevissime frasi elogiative del 
            monarca come "padre della vittoria" oppure "padre della 
            benignità" (vedremo in seguito nel dettaglio come, dove 
            e quando avveniva la coniazione di tali monete).
            Sempre restando nella più remota antichità i nomi delle 
            persone avevano significato, ma, col tempo e con la mescolanza dei 
            vari popoli, si finì per perdere la traccia di questa primitiva 
            usanza. Ciò non avvenne nella lingua araba, ancor prima dell'islamismo, 
            per cui troviamo nomi che suonano; "servo del sole", "servo 
            di Dio", "servo del misericordioso iddio" e, se il 
            padre era ignoto, con molto spirito dicevano "figlio di suo padre". 
            Ma la strada era aperta ai soprannomi e di conseguienza ai titoli 
            onorifici, tanto che nella sfera araba i Califfi introdussero l'uso 
            di date tali soprannomi a titolo di onorificenza a uomini illustri 
            e benemeriti, nonché a quei Principi che riconoscevano il loro 
            dominio.
            Qui ci viene spontanea una malignità, (peraltro, non è 
            il solo caso nella storia). E' verosimile pensare che tali titoli 
            fossero elargiti anche in cambio di denaro e comunque di favori. Qualcosa 
            come i titoli nobiliari elargiti dagli spagnoli a Napoli durante la 
            loro dominazione che vide accrescersi il numero di baroni e nel contempo 
            le riserve monetarie della corona. Quindi nel mondo arabo i Principi 
            amici si videro definiti "sostenitore della religione di dio", 
            "contenuto di dio" e gli uomini illustri "spada dell'impero", 
            "sostenitore del mondo e della religione".
            Ma nulla vi è di più umano della vanità, del 
            piacere di essere ammirati, lusingati, riveriti, omaggiati, ecc. Per 
            cui anche i principi Tartari e Mongoli seguirono la stessa usanza. 
            Così il sultano di Romania, che in turco si chiamava "Leone 
            Nero", divenne in arabo "forza del modo e della religione".
            L'usanza prese a dilagare e i principi cristiani di georgia e di Sicilia 
            cominciarono spesso a coniare monete con i soprannomi elogiativi. 
            I re di Georgia prendevano il soprannome di "splendore del monddo 
            e della religione" e quelli di Sicilia di "vittorioso" 
            o di "sostegno dei cristiani"; il Gran Khan dei Mongoli 
            divenne "imperatore del mondo" o "imperatore della 
            faccia della terra".
            Qui ci si deve consentire una divagazione - anacronistica, ma pertinente 
            - che vuol ancora una volta sottolineare, oltre la vanità degli 
            uomini, la necessità della pubblicità. Il papa Clemente 
            XI, (1700-1721, siamo quindi in tempi relativamente recenti), forse 
            per compensare alcuni suoi errori diplomatici, compì, con i 
            suoi fondi, grandi opere di abbellimento di Roma e gran parte di esse 
            le ricorda nella sua monetazione. Il nuovo portico con statue di S. 
            Maria in Trastevere lo ricordò in una piastra del 1702; i lavori 
            all'obelisco e alla piazza del Pantheon li legò a mezza piastra 
            del 1711 e a due piastre del 1713; i restauri alla chiesa di S. Teodoro 
            al palatino sono ricordati da una piastra del 1703; il porto di Ripetta 
            sul Tevere da una mezza piastra del 1706; il ponte di Civitacastellana 
            da una piastra del 1711 e le numerose opere pubbliche effettuate nella 
            sua città natale, Urbino, il Papa le legò a un testone 
            del 1705 e ad una mezza piatra dello stesso anno. Va detto, a onor 
            del vero, che prima di lui, il suo predecessore, Clemente X, aveva 
            fatto coniare una piastra per ricordare i lavori al Porto di Civitavecchia.
            In parole povere il buon Clemente XI diceva ai suoi fedeli: Vedete 
            come sono bravo? E lo diceva con le monete.
            Ma attenzione, il vizietto della vanità è antico, lo 
            abbiamo già detto e qui non si vuol dare addosso ai papi perché 
            va ricordato quante e quante volte gli imperatori romani, sempre sulle 
            monete, si definivano "invictus", "optimus" e 
            "pater patriae.
            Non basta, perché anche loro ricordavano le imprese eccellenti, 
            non soltanto militari, come Domiziano, che su un sesterzio fece scrivere 
            che era stato l'autore dei giuochi secolari (Ludos saeculares fecit) 
            e lo stesso nerone che su un altro sesterzio scrisse: "Pace populi 
            romani terra marique porta Ianum clusit" per ricordare la dichiarazione 
            della pace universale dell'anno 66, in occasione della quale la cerimonia 
            comportava la chiusura delle porte del tempio di Giano che restavano 
            aperte in tempo di guerra. E, per la parte scenografica, la moneta 
            reca, sul rovescio, l'immagine del tempio del dio bifronte.
            Entriamo ora nel vivo di una questione che ci sta più a cuore, 
            perché riguarda l'Italia, dominata - specie nel meridione - 
            da vari popoli tra cui, il modo più massiccio, nei secoli che 
            c'interessano, dai Normanni e dagli Svevi. Qui bisogna subito dire, 
            senza scendere in dettagli che richiederebbero pagine e pagine, che 
            i Normanni nella gestione dello Stato avevano risentito molto dell'influsso 
            arabo sia nella organizzazione della corte, sia nei titoli, nel cerimoniale, 
            nella cancelleria e, infine, nella coniazione delle monete, sulle 
            quali non disdegnavano sovente di autodefinirsi Emir, alla maniera 
            araba, pur essendo principi, conti o governatori cristiani. E cominciamo 
            col dire, parlando per ora dei normanni, che i tre personaggi di maggiore 
            spicco, Ruggero, Guglielmo I e Guglielmo II ebbero, accanto al nome 
            occidentale, un titolo arabo al pari dei Califfi.
            Ruggero era "L'esaltato per grazia di dio": Guglielmo I 
            "Quei che guida secondo l'ordine di dio"; Guglielmo II "Quei 
            che cerca la sua esaltazione in dio".
            E tutto questo era scritto sulle monete. Una bella pibblicità.
            Non si vuole peccare di irriverenza nei confronti di questi grandi 
            personaggi della storia, ma come non sorridere dinnanzi a quella moneta 
            chiamata dirhem coniata a Palermo nel 1197 cui si legge, scritto in 
            cufico, "Il re - Federico - il potente? A quella data Federico 
            II di Svevia aveva tre anni e quindi, verosimilmente, quel "potere" 
            poteva intendersi che era un fanciullino vivace che faceva disperare 
            la baby-sitter.
            Ancora nel 1198 - Federico sempre in tenera età - troviamo 
            un denaro brindisino che definisce, in latino e in cufico, Federico 
            re di Sicilia".
          
Il Cufico
            Abbiamo visto che, nei secoli che ci interessano, le monete, anche 
            quelle ricadenti fuori dalla sfera musulmana, recavano iscrizioni 
            in cufico. Ma cos'è questo cufico? Nient'altro che arabo, che 
            invece di presentarsi con una grafia ad andamento rotondo, diciamo 
            corsivo, si presenta ad andamento angolare. pensate a una nostra vocale 
            "a" scritta in corsivo e scritta in maiuscolo a stampa e 
            noterete la grande differenza. Non è qui il caso di ricordare 
            che la parola cufico discenderebbe dalla città di Kufa in Iraq, 
            anche perché pare che tale modo di scrivere fosse anteriore 
            alla fondazione di quella città avvenuta nel 636 dell'E.V.
            Ciò che più incuriosisce è perché una 
            così vasta diffusione del cufico (ossia della scrittura araba) 
            fuori della sfera musulmana.
            Abbiamo già detto che era un modo dei regnanti di farsi pubblicità, 
            di dire al popolo quanto fossero bravi, belli e buoni, amati da dio 
            e amanti di dio, potenti e vittoriosi e, come Tancredi, "vittorioso 
            per grazia di dio", "riverito e onorato", ma questa 
            spiegazione non basta. Perché avevano quasi tutti scelto di 
            farsi questa propaganda in arabo in maniera massiccia, con pochi spiragli 
            aperti al greco e al latino?
            Prima di dare una risposta dobbiamo aprire una parentesi storica. 
            Era la seconda metà del X secolo (952-975) e il califfo Moez 
            coniava una moneta d'oro (il moezzino) che godeva alta stima per la 
            purezza del metallo ed era preferita ad ogni altra anche negli scambi 
            diciamo "internazionali". Ciò comportò, come 
            sempre, un espediente truffaldino da parte di Gisulfo I, principe 
            di Salerno, che fece contraffare i moezzini. Fu l'inizio di una lunga 
            serie di imitazioni più o meno impegnate formalmente, quasi 
            sempre meno nella purezza del metallo. Ma lo scopo era un altro: una 
            maggiore penetrazione.
            Quando l'Occidente fu investito dalla civiltà araba, si ritrovò 
            dinnanzi, oltre una nuova religione, una nuova filosofia che, in parte, 
            aveva riesumato quella classica ossidatasi sotto interessi confessionistici. 
            Chi di noi non cuistodisce nelle reminescenze scolastiche quell' "Averrois 
            che il gran commento feo", quell'Averroè che col suo commeno 
            alle opere di Aristotele, tradotto in ebraico e in latino, esercitò 
            grande influenza sul pensiero medievale? E nella memoria ci è 
            rimasto Avicenna, che come filosofo segue la dottrina di Al Farabi, 
            un aristotelismo, anche qui, con influenze neoplatoniche. E con la 
            filosofia giunse una matematica più snella, più pratica, 
            più accessibile con quei numeri indo-arabi portati in occidente, 
            per primo, da Gerberto d'Aurillac (divenuto poi papa Silvestro II) 
            che, nondimeno, li rinchiuse nelle biblioteche dei monasteri, non 
            vedendone l'uso pratico. Ma la praticità di quei numeri fu 
            vista dal figlio di un commerciante, introdotto alle matematiche da 
            arabi del Nord Africa, dove seguiva il padre nei suoi viaggi d'affari. 
            Si tratta niente meno che di Leonardo Fibonacci da Pisa, il grande 
            matematico, figlio di Bonaccio, mercante pisano.
            E con la matematica, resa più accessibile con i numeri arabi, 
            giunse una astronomia complemente rivisitata, perfezionata, approfondita 
            (ho un elenco di trenta astronomi arabi che vanno da una dei primi, 
            Almamun (786-833)b ad uno degli ultimi, El Magrebi, morto nel 1285). 
            E giunsero la poesia araba ed una valutazione della donna che capovolse 
            la sua collocazione nella società e schiuse quella visione 
            della femminilità che ispirò l'amor cortese che, per 
            la prima volta, poneva la donna su un piedistallo, adorandola come 
            una dea. Va ricordato che la mistica sufica include l'amor terreno 
            idealizzato quale mezzo per conseguire la perfezione spirituale, e 
            la contemplazione di Dio nella donna è la più perfetta. 
            E il cammino continua con i poeti del dolce stil nuovo. E, sovrana, 
            giunse l'architettura. Ancora oggi, ad oltre mille anni di distanza, 
            basta andare in Sicilia o in Spagna per restare incantati dinnanzi 
            all'eleganza di quelle forme che racchiudono inequivocabilmente una 
            grande spiritualità.
            Fu quella spiritualit࣠della civiltà araba che 
            suggestionò, soggiogò, catturò ipnotizzandoli 
            gli uomini dell'Occidente. La civiltà araba conquistò 
            l'Europa ed i suoi regnanti che, istintivamente, cercarono una identificazione 
            per spartirne il prestigio, non trascurando un tentativo di surretizia 
            penetrazione.
            Questo spiega la diffusione dei caratteri arabi e più precisamente 
            del cufico, che in sé, non ha nulla di magico, ma è 
            simbolo di quel vento d'Oriente che porta con sè spiritualità, 
            classe, eleganza e quindi inevitabile dominio.
            aldo tavolaro
          
 
          
          
          
Il giovane 
            Kircher
          
Ultimo di nove 
            figli, Athanasius Kircher nacque alle tre del mattino del 2 maggio 
            1602 a Geisa, un villaggio vicino Fulda. Suo padre Johann, strana 
            figura di laico professore di teologia, aveva addirittura insegnato 
            in un monastero benedettino dalle parti di Heiligenstadt ed era riuscito 
            a collezionare, nel corso degli anni, una ricca biblioteca che sarebbe 
            andata perduta durante la Guerra dei trent'anni. Venuto al mondo sotto 
            il segno del toro, il più piccolo dei Kircher apparve ai suoi 
            genitori - ed in seguito a se stesso - contrassegnato da benefici 
            influssi astrali: mite, paziente e, tuttavia, abbastanza avventata 
            di temperamento; il cognome già collaudato nella carriera paterna 
            che gli avrebbe, senza dubbio riservato uin destino d'uomo di chiesa; 
            la scelta di battezzarlo come il santo del giorno di nascita a garanzia 
            di longevità e buona sorte nei pericoli; tutto costituiva un 
            fortunato e benaugurante tema natale, quasi i termini di un progetismo 
            biografico scandito da vicende davvero eccezionali.
            Fu senza intenzioni, la sua, una via cattolica e tutta personale a 
            testimoniare la ricaduta della grazia divina sull'uomo, una versione 
            anticalvinista e antiweberiana della fortuna, un riscontro continuo 
            e persuasivo che la Provvidenza esiste, eccome. Quella della sua giovinezza 
            era forse una Germania vitalissima anche se tempestosa, costellata 
            - come vedremo - di violenza ma anche di incredibili episodi di umanità; 
            un mondo in cui un giovane scolaro del collegio di Fulda, precoce 
            e brillante come lui, poteva essere mandato a lezioni di ebraico presso 
            un rabbino del luogo per rinforzare il proprio curriculum studiorum. 
            Una Germania che ormai non c'è più e che nel racconto 
            del vecchio gesuita ci suona cara e familiare.
            Da bambino Athanasius sfuggì alla morte almeno in quattro occasioni, 
            e tutte le volte in circostanze spettacolari e prodigiose. In realtà 
            tutta la sua infanzia fu tempestata di fatti e coincidenze che egli 
            avrebbe riportato nelle sue memorie illuminandoli di un travolgente, 
            tenero, a tratti ingenuo alone aneddotico che rivelano ancor oggi 
            il temperamento sanguigno del protagonista.
            Un giorno afoso d'estate, nuotando nella vasca di un mulino ad acqua, 
            fu rapito dalla corrente e trascinato, sotto gli occhi terrorizzati 
            dei compagni di gioco impotenti a trarlo in salvo, fin dentro le pale 
            della ruota. Ma quando ormai gli altri si aspettavano di vederlo rimergere 
            dall'altra parte della roggia maciullato dagli ingranaggi, egli apparve 
            fra la schiuma senza alcun danno se non un brutto spavento.
            Qualche settimana dopo, in paese si stava svolgendo una corsa di cavalli. 
            Il piccolo Athanasius, sfuggito al controllo della madre, andò 
            a godersi la gara proprio in prima fila lungo il percorso, facendosi 
            largo fra la ressa dei curiosi e degli scommettitori. All'improvviso 
            fu spinto dalla folla in mezzo alla pista proprio mentre i palafreni 
            scattavano al segnale del mossiere. Molti, mordendosi le mani per 
            il raccapriccio, lo videro rotolarsi in una nube di polvere sotto 
            gli zoccoli mortali; ma il ragazzino si rialzò incolume subito 
            dopo, anche se un po' stordito.
            La terza volte che la fece franca fu al ritorno da una delle sue frequenti 
            fughe dal collegio, allorché come Pinocchio aveva marinato 
            le lezioni per assistere ad una rappresentazione di attori girovaghi 
            in una cittadina a due giorni di cammino da Magonza, dove nel frattempo 
            era passato a frequentare il locale collegio dei gesuiti. Perdutori 
            di notte nella foresta, per paura degli orsi, dei cinghiali e dei 
            briganti non trovò di meglio che arrampicarsi su un albero 
            e lì aspettare l'alba in un dormiveglia guardingo.
            Evidentemente lo spirito di erlebniss fu in lui prepotente e irrefrenabile 
            se in un rigido giorno d'inverno del 1617 uscì dal suo studiolo 
            e andò a pattinare su uno stagno ghiacciato: ne trasse un bel 
            principio di congelamento ai piedi che fece temere gli si dovessero 
            amputare gli arti. Stette a letto per parecchi mesi tra la vita e 
            la morte, anche perché un'ernia addominale si aggiunse alla 
            cancrena e fece disperare per la sua salvezza i maestri e gli altri 
            scolari. Ma una notte si destò di soprassalto e, stringendo 
            fra le mani il rosario, pregò trepidante la Santa Vergine che 
            gli venne in soccorso misericordiosa, perché ebbe inizio una 
            benefica crisi di sudorazione seguita da un sonno profondissimo. Il 
            mattino seguente l'ernia si era riassorbita e le piaghe e il turgore 
            dei piedi miracolosamente dissolti. Kircher avrebbe sempre ricordato 
            nelle sue memorie questi eventi come qualcosa di prodigioso che, inaspettatamente 
            ma provvidenzialmente, lo avevano fatto sentire sotto l'ala protettrice 
            del Signore nei momenti più critici della sua esistenza.
            Terminati gli studi a Magonza, nel 1618 Athanasius si trasferì 
            a Paderborn, ove fu accolto come novizio dalla Compagnia di Gesù. 
            Furono due anni che sopportò a stento come una tappa necessaria 
            alla propria formazione, durante i quali si accorse del divario culturale 
            che si andava allargando tra la propria intelligenza e la mediocrità 
            dei compagni. per non parlare delle incomprensioni con i docenti che 
            lo consideravano testardo e scavezzacollo. A quel loro allievo dallo 
            spirito libero, i cattedratici pedanti non perdonavano la curiositas 
            che pure la regola dell'ordine riconosceva a ciascun gesuita purché 
            subordinata al rispetto per la gerarchia. E per quanto anarcoide e 
            bislacco, il giovane Kircher si risolse sempre all'obbedianza, anche 
            quando questa consegna appariva assurda e mortificante.
            Poi, finalmente, nel 1620 prese gli ordini religiosi ed iniziò 
            gli studi di filosofia che dovette, però, ben presto interrompere 
            bruscamente per lo scoppio della Geurra dei trent'anni. Alla fine 
            del 1621, infatti, il Duca Cristiano di brunswick aveva cinto d'assedio 
            e bombardato Paderbon: non c'era, per i seminaristi, nulla di buono 
            da sperare da questo principe luterano che si era proclamato nemico 
            giurato dei cattolici e particolarmente dei seguaci di Ignazio di 
            loyola. E così, dopo aver provato la fame e il terrore per 
            la soldataglia protestante, nel gennaio del 1622 Athanasius convinse 
            altri due confratelli che non era il caso di attendere l'irruzione 
            dei lanzichenecchi. I tre si travestirono da laici, scivolarono di 
            notte oltre i bastioni con delle funi ed iniziarono un'avventurosa 
            fuga per le campagne, appena in tempo per non farsi sgozzare insieme 
            agli altri gesuiti nelle sale del collegio. Febbricitanti e senza 
            un pfenning per sfamarsi in qualche locanda, i fuggitivi vagarono 
            per altrettanti giorni per i boschi e i campi, con la neve fino alla 
            cintola, pietendo circospetti l'elemosina per borghi e cascinali più 
            poveri di loro, finché, quando ormai tutto sembrava perduto, 
            furono ospitati e rifocillati nel castello di un nobile cattolico. 
            Muniti di salvacondotti per attraversare le linee di guerra, giunsero 
            dopo una settimana a Munster. Da lì i partigiani cattolici 
            che li presero in consegna, dopo il solito ristoro precipitoso, consigliarono 
            Kircher e compagni di prendere alla svelta la via di Colonia.
            Allora toccò loro fungersi nuovamente viandanti; traversarono 
            Düsseldorf e marciando a tappe forzate verso occidente arrivarono 
            sulle rive del Reno ghiacciato, incerti se dirigersi verso un vicino 
            ponte col rischio di essere identificati dai luterani, oppure azzardare 
            la traversata a piedi sul ghiaccio. Non fu una decisione facile: alla 
            fine diedero rettaa dei contadini che avevano loro assicurato non 
            esserci alcun pericolo. Ma mentre erano a mezza via, accadde ciò 
            che si era temuto: la crosta si spaccò e Athanasius cadde nell'acqua 
            gelida mentre gli altri due chiamavano aiuto a squarciagola e già 
            piangevano dando per spacciato l'amico. Si ripeté, invece, 
            il miracolo del mulino, e Kircher riemerse sbuffando dalle acque del 
            fiume, cerò più volte di aggrapparsi al banco di ghiaccio 
            e, all'ennesimo tentativo ebbe partita vinta sul Vater Rhein.
            Per tre ore arrancò intirizzito fra canneti aguzzi come lance 
            e interminabili ghiaioni, lottando contro l'assideramento, infine 
            trascinato dai compagni: poi, anche questa brutta avventura ebbe il 
            suo lieto fine e i fuggiaschi varcarono il portone della domus professa 
            di neuss, ove li accolsero l'affetto dei confratelli, il fuoco scoppiettante 
            di un grande camino e un pasto caldo dopo giorni di inedia e peripezie. 
            Neuss era un primo porto sicuro sulla rotta per Colonia, ma ancora 
            troppo esposto alle pattuglie del brunswick che incrociavano a cavallo 
            lungo gli argini di quel gelido confine d'acqua fra due mondi sempre 
            più lontani. perciò, tre giorni dopo, lasciati i suoi 
            compagni di fuga in quell'avamposto cattolico, Athanasius riprese 
            il cammino per Colonia dove avrebbe ripreso gli studi laureandosi 
            in filosofia.
            L'anno seguente fu trasferito a Coblenza per proseguire la formazione 
            umanistica; e in quella città avrebbe iniziato pure il suo 
            magistero nella locale scuola gesuita. Qui finalmente poté 
            dissimulare l'habitus di aurea mediocritas, che si era fino ad allora 
            imposto, mostrandosi in tutta la propria statura intellettuale. Ma 
            i suoi meriti gli attirarono presto le invidie dei colleghi che riuscironoa 
            trasferirlo nuovamente nella città ove aveva insegnato tanti 
            anni prima il padre Johann: Heiligenstadt.
            Il viaggio in territorio protestante si annunciava davvero pericoloso, 
            ma Kircher non aveva alcuna intenzione di rinunciare all'uniforme 
            della Compagnia di gesù: disse agli ipocriti superiori di Coblenza 
            che avrebbe preferito morire piuttosto che attraversare indisturbato 
            le linee piene di incognite in abiti laici: una bella risposta a chi 
            gli stava dando il benservito spedendolo a nuova destinazione per 
            la porta dell'inferno.
            Neanche a farla apposta, dopo poche miglia che ebbe percorso nella 
            valle della Mosella, fu intercettato da una pattuglia di luteranio 
            che lo malmenarono, lo rapinarono e, per dileggio, lo spogliarono 
            dell'abito alare. Fu un pomeriggio da incubo in balia di quella teppaglia 
            che si passava la botticella di vin bianco rubata in qualche fattoria 
            dei dintorni; e più aumentava l'ubriachezza di quegli scalmanati, 
            più forti e frequenti erano le bastonate che davano al prete. 
            Alla fine della giornata Athanasius, più morto che vivo, udì 
            incredulo la sentenza che lo condannava all'impiccagione, intercalata 
            da rutti e bestemmie da colui che sembrava il presidente di quella 
            improvvisata corte di giustizia sommaria. Fu tirato su dagli sgherri 
            che gli misero il cappio al collo. Athanasius, allora, fece appello 
            all'ultimo coraggio che gli restava e iniziò a pregare cantando 
            ad alta voce il Salva Regina. E mentre due soldati stavano per dare 
            lo strattone fatale alla corda, un altro commilitone intervenne urlando 
            e chiedendo di sospendere l'esecuzione, forse commosso da quella figura 
            di giovane novizio che affrontava con calma e dignità la morte. 
            Non solo gli fu risparmiata la vita, ma gli furono restituiti anche 
            gli abiti e i libri prima sottrattigli. E quando ormai il drappello 
            ondeggiante sembrava essersi allontanato nel bosco, il soldato pietoso 
            che lo aveva salvato persuadendo i compagni tornò indietro, 
            gli lasciò del denaro e si dileguò unendosi agli altri.
            Heiligenstadt fu raggiunta senza ulteriori incidenti. Qui Kircher 
            tornò a fare il professore insegnando matematica, ebraico e 
            siriano. Aveva solo ventitre anni, ma già appariva presso i 
            superiori come uno straordinario umanista. Un giorno capitò 
            in visita al collegio l'Arcivescovo Elettore di Magonza ed in suo 
            onore Kircher allestì un mirabile spettacolo di fuochi pirotecnici 
            e macchine semoventi frutto dei suoi studi di meccanica. La prima 
            impressione della curia itinerante fu di trovarsi di fronte ad uno 
            straordinario eppure seducente malefico di magia nera, finché 
            il giovane gesuita non spiegò il funzionamentop di quell'incredibile 
            apparato, cosa che gli valse l'ingaggio immediato da parte del presule 
            che lo portò con sè nel suo castello di Aschaffenburg. 
            L'Arcivescovo, infatti, cercava da tempo qualcuno che mettesse a punto 
            delle kuriositatem per la sua corte e compilasse una relazione descrittiva 
            del principato, lavoro che Kircher completò in soli tre mesi. 
            Fu in quest'ambiente tranquillo, ove non gli mancarono finanziamenti 
            alle proprie ricerche sul magnetismo, che fu redatto il manoscritto 
            di quella che sarebbe stata la sua prima opera a stampa, l'Ars Magnesia 
            (1631), teoria di una visione della natura che gli avrebbe applicato 
            al fenomeno del tarantismo nel Magnes sive de arte magnetica (1641) 
            contenente altresìle partiture della iatromusica trascritte 
            dai suoi corrispondenti salentini, i padri Nicolello e Galimberto.
            Poi, alla morte dell'Elettore porporato, tornò a magonza, ufficialmente 
            per continuare gli studi di teologia, in realtà intento a studiare 
            le macchie solari con un telescopio che si era procurato sin dal 1625. 
            Nel 1628 fu ordinato sacerdote ed entrò nel suo terziariato 
            a Spira. Fino a questo momento i suoi interessi precipui erano stati 
            di carattere scientifico, ma all'improvviso un nuovo mondo di studi 
            filologici gli si spalancò davanti quando, in un libro sull'obelisco 
            Sistino, egli si imbattè per la prima volta nelle immagini 
            dei geroglifici. Questa lettura pose in lui le basi per quella che 
            sarebbe stata una passione costante della sua vita: il mondo dell'entico 
            Egitto. Queste ricerche avrebbero dato forma ad una monumentale serie 
            di scritti sull'argomento: Prodromus coptus sive Aegyptiacus (1636), 
            Lingua Aegyptiaca restituta (1643), Rituale ecclesiae Aegyptiacae 
            sive cophitarum (1647), Obeliscus Pamphilius (1650), Oedipus Aegyptiacus 
            (1652-1654) in tre volumi, Obeliscus aegyptiacus (1666), Sphinx mystagoga 
            (1676).
            Tuttavia, presto dovette lasciare Spira e recarsi a Würzburg. 
            Indubbiamente frustrato dalla sua carriera di clericus vagons, tentò 
            una svolta alla propria vita ed un diversivo allo spettro della nuova 
            destinazione chiedendo di poter partire come missionario in Cina, 
            ma la sua istanza fu rigettata e dovette accontentarsi di allestire 
            una collezione per i reperti artistici ed etnografici che gli venivano 
            spediti da altri gesuiti recatisi in quel lontano paese. Nel frattempo 
            gli eventi interni della germania precipitavano con l'invasione dell'armata 
            svedese. Proprio in questi giorni Athanasius ebbe un sogno premonitore: 
            si svegliò di soprassalto e, affacciatosi alla finestra, vide 
            il cortile del collegio occupato da una folla di soldati. Destò 
            gli altri confratelli ma questi, seccati, tornarono a dormire perché 
            dabbasso non c'era nessuno. Kircher si convinse di aver avuto un'allucinazione, 
            ma si sbagliava perché in quelle stesse ore l'esercito di re 
            Gustavo Adolfo aveva fatto ingresso in territorio tedesco. Di li a 
            pochi giorni gli eventi precipitarono: il collegio fu occupato e messo 
            a soqquadro dagli scandinavi e Kircher fu costretto a fuggire con 
            il suo fedelissimo segretario Caspar Schott lasciandosi dietro tutti 
            i propri manoscritti. Entrambi trovarono rifugio ancora una volta 
            a Magonza e, fortunatamente per il futuro di Kircher, i superiori 
            lo lasciarono partire per la Francia, paese che percorse passando 
            per Lione stabilendosi finalmente ad Avignone dove tenne lezioni di 
            matematica, filosofia e lingue orientali. Proclive, come suo solito, 
            alle disavventure, Athanasius per poco non morì fra le stesse 
            mura del collegio gesuita risucchiato da un vortice d'acqua che la 
            sua morbosa curiosità per le scienze naturali lo aveva portato 
            a studiare troppo da vicino.
            Ad Avignone fece ingresso nel mondo cosmopolita degli uomini di cultura 
            del tempo grazie all'incontro con Nicolas Claude Fabri de Peiresc, 
            un ricco mecenate che aveva già sentito parlare di lui e della 
            sua bravura nelle lingue antiche. Peiresc, che possedeva dei papiri, 
            invitò Kircher ad aiutarlo nella loro decifrazione; a tal uopo 
            gli procurò dei libri ed una copia della Tavoletta Bembina 
            di Iside; in cambio il tedesco gli prestò dei vari volumi della 
            biblioteca del collegio di Spira.
            La loro ricerca in tandem era a buon punto quando, nel 1633, Kircher 
            ricevette l'onore poco gradito di un incarico di docenza a Vienna 
            per succedere al ruolo di matematico di corte lasciato vacante da 
            Giovanni Keplero, morto due anni prima. Mentre Athanasius faceva i 
            bagagli per il viaggio alla reggia degli Asburgo, Peiresc scrisse 
            vibranti lettere di protesta al papa Urbano VIII e al cardinale Barberini, 
            ma l'amico dovette partire; e poichè la Germania era ancora 
            malsicura per un gesuita, Kircher decise di viaggiare attraverso l'Italia 
            settentrionale. Si imbarcò, quindi con alcuni confratelli alla 
            volta di Marsiglia, ma durante la navigazione tutti i religiosi si 
            amalarono, evento che spinse il comandante del battello a far sosta 
            su un'isoletta con la scusa di qualche ora di riposo, a scaricare 
            gesuiti e a ripartire con tutti i loro averi facendo perdere le sue 
            tracce. Furono salvati da una barca da pesca che li portò fino 
            a Marsiglia, molo da cui partirono per Genova su una nave comandata 
            questa volta da un galantuomo.
            Ma ripresero le peripezie alle quali Kircher era da sempre abituato: 
            una tempesta li trattenne per tre giorni in una caletta riparata; 
            poi il mare si calmò e salparono nuovamente, ma una seconda 
            burrasca li rigettò sulla costa dove il capitano evitò 
            per un pelo di sfracellarsi sugli scogli pilotando con perizia la 
            nave dentro un'angusta caverna. Finalmente raggiunsero Genova: lì 
            Kircher si trattenne per due settimane, senza alcuna fretta di raggiungere 
            l'Austria. Si imbarcò, anzi, per Livorno e puntualmente, in 
            pieno Tirreno, scoppiò un altro fortunale che sospinse il veliero 
            fino in Corsica.
            Provvidenzialmente - si fa per dire - il vento girò da maestrale 
            con una forza incredibile e riportò l'avventuroso gesuita presso 
            le coste italiane. Non a Livorno, però, ma in vista del porto 
            di Civitavecchia dove la nave trovò scampo al rischio di un 
            naufragio. Allora Athanasius pensò bene di rinviare la partenza 
            per vienna e farsi una gitarella a Roma.
            Era il 1635, ed entrando nella Città Eterna scoprì con 
            sorpresa che lì era atteso da molte settimane: la supplica 
            di Peiresc aveva avuto successo, ma non per farlo tornare in Provenza, 
            bensì per assegnarlo al Collegio Romano, il sancta sanctorum 
            della Compagnia di gesù, con l'incarico particolare di studiare 
            i geroglifici. Roma sarebbe stata la sua dimora fino alla morte, avvenuta 
            all'età di 78 anni il 27 novembre 1680.
            gino l. de mitri
          
            LE PRINCIPALI BIBLIOGRAFIE DI A. KIRCHER
            - G. J. Rosenkranz, Aus dem Leben des Jesuiten Athanasius Kircher 
            1602-1680, in "Zeitschrift für vaterländische Geschichte 
            un Alterthumskunde", vol. 13, n. 9, 1852, pp. 11-58.
            - N. Seno, Selbstbiographie des P. Athanasius Kircher aus der Gesellschaft 
            Jesun Fulda 1901 (traduziuone dal latino).
            - G. Richter, Athanasius Kircher und seine Vaterstadt Geisa, in "Fuldaer 
            Geschichtsblätter", vol. 2, 1927, pp. 49-59.
            - R. Major, Athanasius Kircher, in "Annals of Medical History", 
            vol. 1, 1939, pp. 105-120.
            -J. Godwin, Athanasius Kircher, A. Renaissance Man and the Quest for 
            Lost Knowledge, Londra 1979.
          
 
          
          
          
L'epopea protestante
          
La rilettura degli 
            autori Giorgio Tourn e Giorgio Bouchard sugli avvenimenti che hanno 
            costellato la storia del pensiero umano e che hanno portato all'evoluzione 
            del giudizio filosofico del concetto di religione ci pone nella sofferta 
            considerazione del tempo da noi perduto nei confronti dei grandi movimenti 
            di opinione che hanno soltanto sfiorato la nostra nazione, soprattutto 
            a causa della nostra impalcatura politica a partire dalla fine del 
            secolo XII.
            La rilettura dei temi dibattuti da uomini che malgrado tutto avevano 
            rivendicato la libertà di revisione di alcuni dogmi, dicevamo, 
            ci rimanda al vero precursore di quella svolta storica che va sotto 
            il nome di "riforma protestante".
            Infatti, nell'anno 1173 un cittadino di Lione, di nome Valdesio, usuraio 
            di professione, misto alla folla che in quel momento stava ascoltando 
            un trovatore, improvvisamente convinto dalle sue parole lo invitò 
            a casa per ascoltarle più attentamente. Impressionato dai concetti 
            di quel girovago, l'indomani Valdesio si portò alla scuola 
            di teologia per chiedere consiglio sulla salvezza della sua anima. 
            Il maestro teologo glielo diede citando una frase del Signore: "Se 
            vuoi essere perfetto vai e vendi tutto ciò che hai ... ".
            Abbiamo raccontato il fatto come introduzione al tema sui movimenti 
            protestanti ricavato dalla nutrita bibliografia del teologo Giorgio 
            Tourn e in particolare dal libro I Valdesi, la singolare vicenda di 
            un popolo Chiesa.
            L'aneddoto storico può indicare in Valdesio da Lione l'antesignano 
            dei movimenti protestanti d'Europa. Un popolo Chiesa, ossia l'inizio 
            di quella linea di pensiero che determinò lo sviluppo di una 
            generale scuola filosofica la cui portata fu determinante per l'identità 
            nazionale dei popoli di Francia, Germania e Inghilterra. Anche in 
            Italia, sia pure lentamente, sorsero comunità cristiane riformiste: 
            ricordiamo le Comunità valdesi in Piemonte e nella Savoia oltre 
            che in Calabria e nel Lazio. Tutti movimenti che subirono la reazione 
            spesso violenta della Chiesa di Roma. Riferimenti e documenti storici 
            parlano di repressione cruenta con massacri indiscriminati.
            La predicazione dei Valdesi, durata tre secoli, è la testimonianza 
            di una latente crisi spirituale nel cuore di quella civiltà 
            potente e organizzata che è l'Europa cattolica dinanzi alla 
            quale le vecchie civiltà dovranno "inchinarsi".
            La scoperta dell'America ad opera di Cristoforo Colombo segnò 
            la fine di un millennio occidentale. Quella data, 1492, segnò 
            l'inizio dell'era moderna dando luogo ai grandi movimenti riformatori. 
            Da più parti l'interpretazione dei vangeli viene messa in discussione.
            Le avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto si ebbero quando 
            la Santa Inquisizione riuscì metodicamente a emarginare la 
            protesta valdese contro papa Silvestro I che, accettando "la 
            donazione di Costantino", trasformò la Chiesa in uno dei 
            tanti poteri temporali dell'epoca. Registrata l'emarginazione dei 
            Valdesi, sorse nel cuore dell'Europa cattolica, 67 anni prima dell'era 
            colombiana, un movimento di protesta sostenuto dalla predicazione 
            del boemo Jan Hus sulla scia di un inglese, John Wyclif, ma appoggiata 
            da un movimento popolare: e allorquando Hus viene condannato, il movimento 
            diventa rivoluzione. Questo moto rivoluzionario fu represso e il suo 
            animatore portato sul rogo. Il moto di Hus però fu solo il 
            preludio di quello che avvenne con la fine del Medio antico, suggellato 
            dalla scoperta del Nuovo Continente.
            La svolta epocale si chiamò Erasmus da Rotterdam, seguito dalla 
            tempesta chiamata Lutero. Seguì poi Giovanni Calvino che, riassumendo 
            le idee generali della riforma, scrive un libro che si chiamerà 
            L'istituzione della religione cristiana.
            Calvino, a differenza di Lutero, monaco, è un laico uscito 
            dall'università. Uomo moderno, compreso di cultura umanista 
            e quindi profondamente protestante.
            A differenza di Lutero, che rivendica la libertà generica del 
            cristiano, il fondamento filosofico di Calvino è nella razionalità 
            della disciplina, senza la quale non vi può essere vera vita 
            cristiana. Abbiamo omesso altri protagonisti che nel comune intento 
            di riformare la Chiesa hanno suggellato la nascita di una nuova società 
            più libera nella propria coscienza religiosa.
            Nel frattempo, in Italia, dopo il Concilio di Trento, si continuò 
            a reprimere ogni anelito di riscatto, ristabilendo l'egemonia imperante 
            della Chiesa cattolica, che divenne virtualmente religione di Stato. 
            Tutto ciò fu confermato politicamente nel XX secolo con il 
            Concordato del 1929. Una timida apertura alle altre confessioni cristiane 
            fu sancita dalla Costituzione repubblicana, completata con il secondo 
            concordato stipulato con Craxi, presidente del Consiglio. Resta comunque 
            un fatto: la Chiesa di Roma con il suo integralismo ha impedito che 
            l'Italia partecipasse a quell'evento riformatore mercé il quale 
            sorsero le democrazie operanti con i propri popoli, che divennero 
            padroni del proprio destino con quel pensiero laico, unico a sviluppare 
            nelle coscienze individuali e collettive un ampio respiro di una sempre 
            più vasta cultura.
            A noi tutto questo è mancato, ritardando il nostro sviluppo 
            sociale per oltre due secoli con le conseguenze politiche e culturali 
            che sono sotto gli occhi di tutti coloro che anelano, forse ormai 
            inutilmente, alla liberazione delle coscienze verso una cultura genuinamente 
            laica.
            fulvio summaria
          
 
          
          
          
Holding mafia 
            
          
La stima di Newsweek 
            Report valuta il business complessivo delle mafie di tutto il mondo 
            in un milione di miliardi di dollari. Il crimine organizzato è 
            l'attività economica predominante nel mondo. I traffici di 
            droga e di armi occupano rispettivamente il primo e il secondo posto 
            tra le fonti di reddito, superando perfino l'industria petrolifera. 
            
            Il Fondo monetario internazionale ha stimato che circa 700-1.000 miliardi 
            di dollari sono sottratti alle finanze mondiali. Il narcotraffico 
            era stimato pochissimi anni fa in 310 miliardi di dollari; nello stesso 
            periodo di tempo il giro d'affari delle tre principali società 
            americane, la Esso, la Ford e la General Motors, era di circa 330 
            miliardi di dollari.
            Non è una singola organizzazione criminale ad essere responsabile 
            dell'ammontare di questo giro d'affari illegale. C'è una quantità 
            di grandi associazioni a delinquere, quali la "Hong Kong-based 
            Triads", il "Call cartel" della Colombia, la "Mafia" 
            italiana, la giapponese "Yakuza", la russa "Vorl v. 
            Zakonye", e gli affiliati neo-venuti e rapidamente impiegati 
            gruppi criminali west-africani. Comunque, è largamente riconosciuto 
            che questi gruppi criminali si sono accordati per massimizzare le 
            loro operazioni.
            Mentre la maggior parte degli Stati nazionali è impreparata 
            di fronte ai cartelli internazionali del crimine, l'economia mondiale 
            è diventata globale e più liberale. Migliaia di miliardi 
            di dollari, di marchi, di yen sono giornalmente scambiati con transazioni 
            elettroniche. Le organizzazioni criminali hanno immense risorse a 
            loro disposizione, e ciò le mette in grado di fare uso di moderne 
            e sofisticate tecnologie, nelle loro operazioni che includono traffici 
            di droga, di armi e di organi umani, furto internazionale d'auto, 
            contrabbando di immigrati, crimini ambientali, lavaggio e riciclaggio 
            di black money, traffico illegale di opere d'arte. Le somme di denaro 
            guadagnate sono tali che i cartelli criminali transnazionali sono 
            diventati il fattore predominante della finanza mondiale. Sono stati 
            persino capaci di influire sui destini di alcuni Paesi, portando a 
            livelli critici il loro sviluppo economico e sociale.
            La risposta delle nostre società democratiche a questa minaccia 
            illegale deve: 1) combattere la flessibilità, l'inventiva e 
            il potere dei cartelli del crimine; 2) migliorare la legislazione 
            nazionale. Fra l'altro, l'analisi scientifica del fenomeno mafia è 
            molto esigua. La maggior parte dei Paesi si limita alla registrazione 
            delle azioni criminali e non analizza sistematicamente le organizzazioni 
            che stanno dietro. Il miglior modo di combattere le mafie è 
            quello di combattere le organizzazioni stesse, e non i singoli delitti, 
            che spesso sono commessi da criminali di rango inferiore. Qualche 
            successo è stato ad esempio raggiunto analizzando i flussi 
            dei trasferimenti di denaro effettuati dalle mafie e intercettandoli. 
            Dunque, ciò che occorre è una "mappa" del 
            crimine organizzato, basata su una banca dati computerizzata dove 
            vengano registrati tutti i dati che emergono da un'analisi scientifica 
            del fenomeno.
            Le mafie internazionali possono essere combattute con successo solo 
            se gli organi di sicurezza sono disponibili alla cooperazione mondiale. 
            Pertanto, sono necessari nuovi trattati e accordi internazionali che 
            coinvolgano tutte le comunità, e accordi bilaterali di reciproca 
            assistenza in campo giudiziario. Ad esempio, la validità dell'azione 
            di task force bilaterali e reciproche è stata testimoniata 
            dall'Operazione Green Ice,nel 1992, quando le forze di polizia appartenenti 
            a sette Paesi di tre continenti effettuarono oltre 200 arresti, dopo 
            avere individuato i piani di un'alleanza tra Cosa Nostra Siciliana 
            e Call Cartel colombiana.
            La cooperazione pratica deve comprendere: lo scambio di manuali che 
            illustrino le procedure nazionali; la designazione di "Autorità 
            centrali per la mutua assistenza giudiziaria"; la formazione 
            di task force congiunte; l'identificazione dei tecnici più 
            qualificati per lo svolgimento delle procedure d'indagine; l'impegno 
            di avanzate tecnologie investigative.
            Industrie, compagnie di assicurazione, banche, liberi professionisti 
            (avvocati e commercialisti) e governi, devono tutti lavorare insieme 
            per far rispettare l'etica degli affari e impedire che il crimine 
            penetri nelle operazioni d'affari legittime. Al tempo stesso, i governi 
            devono imprimere nella mente dei cittadini il principio che la legge 
            deve essere rispettata. A New York il sindaco è stato capace 
            di abbassare considerevolmente il tasso della criminalità, 
            affidandosi fra l'altro alla teoria del "vetro infranto": 
            se la città lasciasse che il vetro infranto della finestra 
            di un edificio non venisse riparato e omettesse di punire i colpevoli 
            del danno, dopo breve tempo tutte le finestre di quell'edificio sarebbero 
            infrante. Se invece la città non trascura nessuna finestra 
            rotta, si crea un clima in cui i cittadini sono portati ad osservare 
            la legge e ad esercitare al massimo livello quel controllo sociale 
            che previene il verificarsi di crimini più gravi.
            Nel 1994 l'Onu organizzò a Napoli una Conferenza mondiale sulla 
            criminalità transnazionale organizzata, che si concluse con 
            una Dichiarazione politica e un Piano d'Azione Globale, poi adottato 
            dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel 1997 si discusse 
            la bozza di convenzione a Vienna. Prevedeva queste misure:
            - confisca dei proventi derivanti dal crimine organizzato (art. 2);
            - criminalizzazione delle compagnie che traggono profitto dal crimine 
            organizzato (art. 3); 
            - incaricare gli Stati di creare una legislazione sui crimini presenti 
            nel loro territorio (art. 5);
            - incaricare gli Stati di estradare i propri cittadini, qualora sia 
            richiesta l'estradizione per reati di criminalità mafiosa (art. 
            7);
            - rimuovere il segreto bancario (art. 10);
            - finanziare l'addestramento degli investigatori (art. 11);
            - creare un'apposita banca dati mondiale (art. 12).
            I risultati della collaborazione tra gli Stati membri dell'Unione 
            europea sono stati finora assai modesti. E' stata istituita l'Unità 
            Europea Droga (Ued) e una sola Convenzione, quella di Dublino. Il 
            Trattato di Maastricht prevede il coordinamento nel settore della 
            Giustizia e degli Affari Interni (il cosiddetto "Terzo Pilastro"). 
            E' stato inoltre istituito un comitato di funzionari di alto livello 
            (High Level Group), con un ruolo di coordinamento, consultazione e 
            preparazione, nei confronti del Consiglio Europeo, e che può 
            svolgere questo ruolo di propria iniziativa. Il Parlamento Europeo 
            non ha ruolo nel Terzo Pilastro, ha solo il diritto di essere informato. 
            La Corte Europea di Giustizia non ha alcuna competenza. Aree di coordinamento: 
            tossicodipendenza, immigrazione clandestina, riciclaggio di denaro 
            sporco, furto d'auto internazionale e frode internazionale.
            Nello sviluppo di un piano d'azione contro la criminalità transnazionale, 
            i diritti fondamentali svolgono un ruolo esiguo ma al tempo stesso 
            importante. Un ruolo esiguo perché il piano d'azione si limita 
            a migliorare la collaborazione tra Stati sovrani. Non è compito 
            del piano fornire un sistema legislativo internazionale o europeo, 
            sviluppare una legislazione penale internazionale o europea, perseguire 
            azioni criminali o adire la Corte di Giustizia internazionale o europea. 
            D'altra parte, la storia controversa della nascita di questa collaborazione 
            tra Stati sovrani e dell'adozione di convenzioni contro le mafie mostra 
            che la segretezza nel processo decisionale e un mancato rispetto dei 
            diritti fondamentali, come ad esempio il controllo parlamentare e 
            giudiziario, sono non solo antidemocratici, ma anche impraticabili. 
            In definitiva, il mancato rispetto dei diritti fondamentali serve 
            solo a ritardare considerevolmente il processo.
            tom de waard
            (Presidente dell'Ordine olandese degli Avvocati)