Prosperità e non fiscalità




Gennaro Pistolese



Quanto riferisco per taluni anni del secolo non è fantascienza; lo è purtroppo ancora oggi, come tutti sanno e molti smentiscono, però solo con le promesse. E' stata invece realtà in una fase - anche se lontana, ripeto - di questo secolo. Del resto, il passato corre in fretta e molto di rado suggerisce esperienza da rivivere. E così il pessimismo viene generato dal realismo. Perciò la storia è sempre contemporanea e noi stessi sentiamo la storia passata con il senno di oggi. Siamo perciò normali solo entro questi limiti. Anzi, speriamo di esserlo meglio (si parla pure di ressurezione continua) quando ci si dice che sta avvenendo o che avverrà. E questa è una premessa correntemente doverosa, di fronte alla rarità, che va sottolineata, del rispetto di inderogabili compatibilità e conseguenzialità.

L'avventura di un maestro che si sentiva anche discepolo
Ma chi è stato, è l'autore e protagonista del suddetto titolo, dello spirito, della sapienza, di una saggezza carica di volontà e responsabilità esecutiva? E che ha realizzato soprattutto per farne derivare i fatti, che in questo caso si sono tradotti in cifre, che oggi quando sono ufficiali pure in consuntivo sono prevalentemente intenzionali? Questa volta invece c'è l'eccezione, che chi scrive con i suoi quasi settant'anni di giornalismo militante ha la ventura di potere riferire.
Ed eccomi a parlare di Alberto de' Stefani: una persona che ho visto tante volte da studente alla Sapienza di Roma, da lontano, ma con l'ammirazione che uno studente pur della facoltà di giurisprudenza aveva per il presidente famoso della limitrofa facoltà di scienze politiche da lui fondata, e poi la prima volta incontrato in lunga conversazione poco prima di un anno dalla sua morte. Con lui ho avuto larga frequentazione di rapporti alimentati da suo figlio, Pietro, che per lunghi anni è stato apprezzato e prestigioso collaboratore delle pubblicazioni che ho diretto negli anni Cinquanta e Sessanta.
Forse per questo legame tra il mio pensiero e quello del figlio, la dedica fattami nel '64 di un suo libro, Avventure e disavventure governative del ministro Alberto de' Stefani, mi lusinga: "Per il suo legame con me, per la purezza del pensiero", che probabilmente premiava più quella del figlio che non la mia, di cui - se esiste - non credo siano stati in tanti ad accorgersi.
Di de' Stefani le enciclopedie dicono che è nato a Verona nel 1879 ed è morto a Roma nel 1969, che è stato ministro delle Finanze (1922-'23) e del Tesoro (1923-'25), fascista contrario a Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio. Qualche enciclopedia di quelle curate "sine ira et studio", come diceva Mondadori, che è stato tra i primi editori a curare piccole enciclopedie dopo il fascismo, aggiunge che è stato oltre che uomo politico, anche per la sua posizione al già ricordato Gran Consiglio (fu da contumace condannato a morte nel processo di Verona), anche economista e giurista. Mentre non ricordo a quale titolo fosse membro del Gran Consiglio, dopo il lontano 1925, so di lui che praticava pure l'arte della pittura e del disegno, come tra l'altro testimonia un suo autoritratto, sopra riprodotto.


E' stato anche consulente economico per vari anni di Chiang Kai Shek, acquisendo sul posto una concreta e diretta esperienza concorrendo alla crescita di un nuovo habitat, nel quale si inserì con la sua famiglia e in particolare con suo figlio Pietro, che sposò una cinese della Cina nazionalista.
A questa tempra appartengono altri decani della vita economica e finanziaria italiana, fra cui ricordo - perché ho avuto il privilegio di conoscerli o frequentarli - personalità come Giuseppe Paratore, Ginori Conti, Raffaele Mattioli, per i quali mi sia consentita una brevissima parentesi, a conferma del tema che vengo svolgendo.
Di Paratore, politico palermitano, grande esperto finanziario, più volte ministro ed anche, nel 1953, presidente del Senato, dirò soprattutto, per averla sperimentata, della sua estrema e ironica semplicità. Da direttore del più antico quotidiano economico d'Europa, Il Sole, mi capitò di rilanciare una notizia Ansa che dava conto della sua improvvisa morte. La pubblicai con i dovuti commenti, non facendo in tempo però a pubblicare la relativa smentita. Me ne scusai sul giornale e con un telegramma a lui diretto di spiegazione e di vivo compiacimento per la prosecuzione della sua vita e della sua opera. Mi rispose con un immediato telegramma di ringraziamento, "a conferma che era vivo". Rideva così degli altri, ma rideva anche di se stesso.
Di Ginori Conti, uno dei fondatori nell'Ottocento dell'elettrificazione industriale italiana, quella che con il cosiddetto carbone bianco diede l'avvio all'intera produzione nazionale, dirò che l'ho incontrato già centenario, ad iniziativa di un suo diretto parente, Maranghi, pupillo di Cuccia e oggi suo successore a Mediobanca. Gli ultimi tre mesi di carriera giornalistica di Maranghi furono fatti con me a Il Sole. Ginori Conti mi deliziò a lungo con le vicende del suo tempo e mi diede in prestito un suo libro di rimembranze e cioè di vita vissuta in preparazione dell'intero secolo che gli avrebbe fatto seguito. Ne aveva una sola copia e me ne chiese la restituzione, cosa che purtroppo ho fatto. Non ho diari, non ho appunti più o meno superstiti. Ma ricordo l'uomo, che attivava un dialogo elevandolo con una persona di almeno mezzo secolo distante anagraficamente da lui. Sono questi i personaggi che per tutta l'esistenza sono stati davanti ai loro interlocutori, che non li potranno mai dimenticare: nelle opere, ma soprattutto nel pensiero.
Della stessa stampa era Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana fino al 1972. Grande finanziere, ma anche eminente uomo di cultura, prediligeva il suo compito di essere uno dei motori della vita finanziaria del Paese. Non era un vezzo, ma una vocazione, anche quella che l'ha condotto a dirigere una collezione di classici italiani, il cui editore era Ricciardi.
Ho incontrato Mattioli a Piazza della Scala nel 1965 allorché lo invitai a scrivere un articolo per il centenario del giornale che allora dirigevo. Ma il motivo dell'incontro diventò subito secondario rispetto a quello che effettivamente si svolse: una miscellanea di temi politici e di cultura. Mi disse che non amava scrivere di finanza perché per essa gli scritti necessari si esaurivano in un "quadernetto" di sedici pagine da mettere e tenere sempre in tasca con sole cifre. Io pensavo la stessa cosa ed egli promise di aiutarmi. Non avvenne. Ma chi percepì la stessa cosa fu Mazzocchi, l'editore da me ritenuto in anticipo di decenni sui tempi, con il quale sono riuscito a dare vita a questa pubblicazione. Oggi una siffatta pubblicazione non avrebbe più significato: cifre e fonti si sono moltiplicate e in larga parte sono pure irresponsabili; ci sono infatti le cifre ufficiali, c'è il reale e il virtuale, e così via.

Nella prima facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza
Chiusa la parentesi, torno al "mio" de' Stefani. E' quello della Sapienza, qualche tempo dopo la sua sostituzione con Volpi di Misurata. Egli, come ho detto, era preside della facoltà di Scienze Politiche, e disponeva per tutta la facoltà di una sola stanza. In essa si alternavano i vari professori, non molti però. Ricordo il professore di storia coloniale, Camillo Manfroni, con un suo assistente, Giaccardi, che morì anni dopo volontario nell'Africa Orientale del '35-'36. Ed altri insegnanti, tra i quali ricordo Gioacchino Bolpe per la storia, Amedeo Giannini per la storia dei trattati, e così via. Studenti della facoltà - alcuni di essi stranieri, tra cui una iugoslava, un palestinese, un albanese, un maltese, ecc. - e studenti di giurisprudenza che intendevano conseguire anche un'altra laurea, aspiravano quasi tutti alla carriera diplomatica e a sbocchi di alta burocrazia. De' Stefani disponeva di una sua assistente, che poi si rivelò notevolmente esperta nel campo della statistica, in cui conseguì anche qualche posizione direttiva.
De' Stefani attirava la nostra attenzione, perché si sapeva che era stato un ottimo ministro, non legato alla poltrona, amante sul serio di scienze economiche con la capacità di trasferire anche ai suoi discepoli questa sua vocazione. Anche allora ciò non era frequente tra i docenti, che erano attorniati da una lunga schiera di diligenti liberi docenti, che tenevano anch'essi le loro lezioni con un'impostazione complementare nella puntualizzazione delle rispettive materie. Uno di questi era mio padre, libero docente in diritto ecclesiastico, che avrà avuto tre o quattro discepoli frequentatori, tra cui uno che molto tempo dopo è divenuto Rettore della Sapienza.
Il mio interesse per de' Stefani, mai da me conosciuto a quei tempi, è cominciato così. Una figura sostanzialmente estranea alla politica, che pure sapeva esplicare, quando vi si trovava impegnato. E lo è stato in maniera decisiva, quando è riuscito a portare in pareggio il bilancio dello Stato (in questo secolo è successo anche questo, all'indomani quasi della prima guerra mondiale), e quando è stato tra i membri del Gran Consiglio uno dei pochissimi, forse il solo, che abbia saputo documentare in maniera tanto scarna quanto motivata e convinta il suo no a Mussolini. Ho conosciuto da lontano questo de' Stefani, fino al 1967. Ne apprezzavo e praticavo il figlio, Pietro, giornalista economico, presentatomi nel 1954, quando avevo assunto la direzione della confindustriale "AGA", che collegava una ventina di quotidiani di proprietà delle Associazioni industriali provinciali. Mi era stato detto che l'agenzia doveva essere rinnovata e io tra i collaboratori scelsi per la politica economica Pietro de' Stefani, che in quei tempi mi pare si distinguesse giornalisticamente su un rotocalco di Nelson Page, credo Lo Specchio. E' molti anni dopo, e precisamente nel 1964, che Alberto de' Stefani mi inviò nella mia qualità di direttore de Il Sole un suo libro dal titolo Avventure e disavventure governative del ministro Alberto de' Stefani. Aggiunse, alla dedica che mi indirizzò, questa frase: "Perché apprezza mio figlio".
Con Alberto de' Stefani ebbi nuovamente a che fare allorché lo invitai a tracciare la storia de Il Sole nel corso di un secolo della vita economica del Paese: lo fece magistralmente con uno studio comparso nel centenario del giornale, e cioè nel novembre del 1965.
Pubblicammo cinque numeri, riprodotti poi dalla See (la nostra società pubblicitaria che aveva in campo uno dei maggiori leaders della pubblicità italiana, Oscar Maestro) in un grossissimo volume in omaggio, scrisse in lui, ai suoi inserzionisti, per le mille colonne di pubblicità assicurate a quei numeri del giornale.
Mi sia consentito dire, con un sincero orgoglio interamente intimo e privo ormai di qualsiasi risvolto esteriore, che nel corso di questo secolo nessun giornale ha celebrato il suo centenario con un'ispirazione che, realizzata, è riuscita essa stessa a fare e documentare la storia. E la mia personale riconoscenza è sottolineata nell'apertura del primo numero celebrativo con un mio neretto dal titolo "Testimonianza": con il meticoloso riconoscimento di tutti i singoli meriti: di lettori, di giornalisti, di tipografi, di spedizionieri, di distributori, ecc., di cui un direttore è sempre primo debitore.

Fatti di ieri, elusi insegnamenti di oggi
Anni dopo, cioè dodici anni dopo (giugno 1967), Alberto de' Stefani indirizzava nella mia casa di via Cortina d'Ampezzo la lettera di cui ho detto prima. Si indirizzava ad un amico che non aveva conosciuto di persona ed è riprodotta in queste pagine. Ha come titolo "Dall'armistizio di Villa Giusti al compimento della ricostruzione finanziaria".
In quel libro, egli illustra anzitutto quello che ha trovato. E poi - è la sostanza della sua trattazione - la strada seguita per arrivare al pareggio del bilancio dello Stato. Ed ecco alcuni elementi del modello operativo: collaborazione del personale tale da provocare un radicale rinnovamento dell'intera struttura, 72 provvedimenti riguardanti il personale e gli ordinamenti amministrativi con il rispetto delle aspettative di perequazione dovute, inpegno intransigente e concreto di non "tagliare l'albero per raccogliere il frutto".
Ed egli aggiunge (oggi dovrebbe essere un memorandum da non trascurare): "Fui l'autore dell'abolizione dell'imposta sull'eredità nel nucleo familiare, della tassa sul vino, del ritorno alla proporzionalità nelle aliquote delle imposte dirette, di una complementare calcolata su imponibili limitati alla somma degli accertamenti già definiti nell'applicazione delle imposte base, di una pubblicità tempestiva nelle documentazioni finanziarie, della massima coerenza nei metodi adoperati e perciò di un'inflessibilità che escludeva il sospetto di qualsiasi deviazione". E poi liberismo doganale controllato, rifiuto della spallata inventata da Gilardoni del Partito Popolare e cioè della simultaneità delle decisioni nel quadro di tutte le imposte dirette, l'abolizione dell'imposta di famiglia e sul valore locativo dei comuni con la surrogazione di un'imposta sul reddito consumato, l'unificazione delle innumerevoli tasse sugli scambi commerciali con un'unica tassa da applicare a tutte le fatture (1925).
Ed eccoci alle tappe del pareggio: novembre '22, abolizione dell'obbligo della nominatività dei titoli, e cioè inaugurazione della politica della prosperità, radicale revisione dell'iniquo dazio sulle farine, che era richiesta come condizione di una civile polizia amministrativa, pieni poteri al governo (3 dicembre 1922) per riordinare il sistema tributario, riorganizzare l'amministrazione con tendenze limitatrice delle funzioni economiche dello Stato, adottare una politica di severità nelle spese, obbligo di rendere conto a breve al Parlamento della spesa fatta. Tutto ciò si ispirava ad un'ottimistica malinconica politica finanziaria: una definizione non certo ricorrente oggi.
La scacchiera derivante da tutto ciò si riassume in tre pilastri: provvedimenti amministrativi e di contabilità, provvedimenti tributari, revisione delle spese.
Nulla di nuovo in tutto ciò, ma occhi più che aperti, e immediatamente coerente esecutività.
Non c'è bisogno di dire delle ragioni di oggi, opposte, contraddittorie, promettenti ma immediatamente divergenti.
Nella revisione delle spese si è ricorso al riequilibrio finanziario della gestione delle Ferrovie dello Stato e di quelle postelegrafoniche, ai trasferimenti di controlli decentrati nella Ragioneria Generale, alla sostituzione dell'Economato Generale, ecc.


L'elencazione minuziosa di de' Stefani, nei vari passaggi della sua condotta politica, continua a lungo, ma si conclude con una sintetica affermazione: il debito dello Stato venne ridotto da un massimo di 97,5 miliardi del 3 settembre 1923 a cinque miliardi durante l'esercizio 1924-1925.
Ed egli commenta con il compiacimento, forse lo stesso di cui parlerò subito dopo: "Ho raccolto il governo finanziario quando parevano inevitabili il ritorno al pane bigio di guerra e l'adozione di un'imposta generale nei consumi". E qui c'è l'aneddoto. Scrive de' Stefani: "Passate le consegne al mio successore il 10 luglio 1925, salivo per l'ultima volta nell'automobile ministeriale per farmi condurre a casa sulle pendici del Gianicolo, il mio animo era in uno stato di esultante allegrezza in cui si confondevano la gioia per la libertà riavuta e la gratitudine verso tutti coloro che avevano lavorato con me. Nel passare per la piazza Pasquino ho veduto che sull'insegna di una merceria era dipinto il nome del titolare, Felice De Stefani. L'incontrai e mi ripetette il suo nome. Io replicai de' Stefani felice; fino a questa mattina sono stato il ministro delle Finanze, ma da un'ora sono diventato libero e felice!".
Una grande avventura, la sua. Fatta anche di piccole cose. Pensate ad un ministro delle Finanze che si trova innanzi una Gazzetta Ufficiale con le prime pagine dedicate a novelle e romanzetti d'appendice, perché così lo Stato riteneva di remunerare scrittori bisognosi. E pensate ad un ministro che deve licenziare decine di migliaia di ferrovieri perché del tutto incapaci, ma solo politicamente raccomandati da partiti prefascisti.
C'è oggi una rubrica su di un importante giornale dal titolo "Scritto appena ieri", cioè attuale oggi, ma realmente di tempi lontani. E' la sola possibile postilla.
Nella lettera riprodotta, de' Stefani mi sottolinea che la sua "prosperità e non fiscalità ha anticipato di oltre quaranta anni [oggi devo dire 52 anni] la politica di Kennedy e di Johnson, fuorviata dai loro predecessori con un'interpretazione assoluta e incondizionata della dottrina di Keynes, la cui utilità è condizionata alle circostanze".
Ma qui vorrei collegarmi alla testata dannunziana della lettera, "Tutto prima del tramonto", che mi ricorda questo passato. Anche mio: da matricola universitaria della "Sapienza", quella per me unicamente vera per la grandezza di tutti i suoi sommi maestri, che noi poco capivamo allora di quale irrepetuto spessore fossero, da giornalista poi, che ha avuto a che fare con un grande maestro non solo di scienza, ma di vita. Con il tutto prima del tramonto. Da maestro a ministro, da nuovamente maestro a prestato nuovamente alla politica questa volta a scelta di un grande Paese estero, quale alto consulente a vita della Repubblica Nazionale Cinese: investitura avuta nel 1937 dal suo presidente su proposta del generalissimo Chiang Kai Schek; e poi con i suoi studi e i suoi hobby.
Di lui sapevo e ricordo tante cose, tra cui il suo comportamento al Gran Consiglio, di cui parlerò più innanzi.

Tante veloci domande e risposte, tutte salde nella memoria
Per ringraziarlo del libro di cui fin qui ho cercato di riferire come mi è stato possibile, di fronte a un documento che ritengo secondario mi sono incontrato per la prima volta con lui, in un giorno del giugno del 1967: io avevo 58 anni, lui 88 (è morto nel '69) e nella sua casa, questa volta a Montesacro, ci intrattenemmo per varie ore. Io per apprendere con l'interesse per tutte le cose e le persone che nella mia vita sono state sempre dominanti e lui con la pazienza del maestro di alta classe e con la voglia di ricordare anche a se stesso. Molti non si sono ancora accorti che i nostri ricordi non sono né vanterie, né recriminazioni. Ma solo conferme per se stessi. E così parlammo di tante cose, che avevano tutte le affinità con un mondo che pur nella diversità degli anni più o meno era stato lo stesso.
Purtroppo, come ho detto, di lui ho i due volumi che mi ha dedicato, lo studio che ha fatto per Il Sole, e tutte le altre cose che più che alla mente parlano subito al mio cuore. Uno dei temi non poteva che essere il Gran Consiglio. Ne era stato, come ho detto agli inizi, uno dei protagonisti. Ma mi dava atto di una sua delusione, amara, anche se aliena da intenti di postuma sua rivalsa morale.
Era convinto di aver seguito al meglio una strada: la sua, con l'alta consistenza dei livelli positivamente raggiunti. Ma, parlando, non mi disse di eccezionalità e straordinarietà compiute. Si attendeva solo che ognuno di noi ad un certo momento avrebbe potuto aggiungere qualcosa di nuovo, molto o poco che fosse non importa.
Anche quasi contemporanei, i decenni che veramente contano per gli uomini sono gli stessi e perciò ci rendono, oltre l'anagrafe, contemporanei. E, debbo aggiungere, devono essere accompagnati da quella malinconia allegra, ma pure ironica.
Chi se n'è privato non ha avuto generalmente buona fortuna, come la cronaca e ogni storia ci ricordano. Di qui il tutto prima del tramonto di de' Stefani. Il tutto che gli piaceva, perché l'ha o l'avrebbe sicuramente realizzato con l'immaginazione che sfocia nei fatti. E non già nella fiction politica in uso oggi. Era stato fascista, con le note indicazioni e perciò anche i limiti dei pur controversi motivi che resero biennale l'incubazione del governo Mussolini.


De' Stefani tra l'altro mi ricordò un ordine del giorno, per lui molto determinante, del Fascio patriottico fiorentino del 16 aprile 1921. E' un ordine del giorno inviato al governo presieduto a quel tempo da Giolitti.
Lamentava il fiorire di scioperi e di agitazioni che immiserivano il Paese e si invitava il governo a decidersi una buona volta tra il rispetto dell'autorità e le deboli transazioni che finora avevano caratterizzato tutta l'opera sua, adottando, sull'esempio recentemente dato dalla libera America, quei mezzi energici che la legge gli consentiva contro i pochi facinorosi che miravano soltanto al sovvertimento del Paese.
Tutto perciò per l'autorità e nell'autorità dello Stato, sempre nella legalità: è stata la convinzione di de' Stefani, che della sua fase di governo ricordava le grandi opere non politiche fasciste, oltre che la ricostruzione finanziaria (1923-'24), la battaglia del grano (1925) e poi, dopo di lui al governo, le bonifiche pontine, la trasvolata atlantica, ecc. Da questo spirito discese naturalmente il suo comportamento al Gran Consiglio, del quale già sapevo perché me ne aveva riferito uno dei presenti, e cioè il capo dei Lavoratori dell'Industria, Luciano Gottar-di, fucilato poi a Verona.
De' Stefani naturalmente mi disse qualcosa di più. Fu Federzoni a parlargli per desiderio di Grandi dell'ordine del giorno che condusse alla fine del regime. De' Stefani ne aveva parlato pure a De Vecchi e Bastia-nini, che pure era sottosegretario agli Esteri con Mussolini, suoi ministri.
Tra gli ultimi a parlare fu proprio de' Stefani. Con la mente forse già rivolta altrove, al divorzio tra le premesse e lo svolgimento di un'azione ventennale. Al rogo che ne era derivato. E con me usò proprio questa parola, rogo.
Con il suo intervento de' Stefani dichiarò anzitutto di voler lasciare da parte ogni considerazione politica o retrospettiva. Due crisi erano, secondo lui, di fronte: una spirituale, l'altra di mezzi. Quanto era stato detto dallo stesso Mussolini stava a confermare l'assoluta insufficienza dei mezzi disponibili. E qui si susseguirono con me altre precisazioni, note perché pubblicate dai libri che rievocano quegli anni, o nuove almeno per me.
Una frase da me pronunciata allora mi fu da lui stesso ripetuta. Nell'antitesi tra Italia e regime, io sono schierato dalla parte dell'Italia.
De' Stefani mi parlò dell'ordine nazionale che in quell'aula, quella notte, era stato anche spesso retoricamente evocato. Ma mi disse che a suo modo di pensare egli dovette dire che non avevamo dinanzi a noi la Grecia, ma i due più potenti imperi del mondo. La lotta era dell'Italia piccola e povera, l'Italia proletaria contro una preponderanza di mezzi dai quali non era disonorevole essere soverchiati. Secondo lui, infine, i concreti interessi del popolo italiano, eventuali e immanenti, dovevano guidare le decisioni e la scelta delle azioni. Il resto non contava se non subordinatamente ai fini da raggiungere.
Confrontando queste parole con quelle degli altri, di quelli che firmarono o si opposero all'ordine del giorno Grandi, Bottai, ecc. ne trassi, ne ho tratto la convinzione che per de' Stefani esse riflettevano un pensiero, che affermava la sua coerenza e continuità nell'arco dell'intera sua esistenza. Era stato così con la sua iniziale adesione della fine degli anni Dieci, era così con le stesse idee nei primi anni Quaranta.
Questa volta a confermare siffatta mia conclusione è il testo stenografico di quella seduta, desumibile dal volume di Feder-zoni Italia di ieri per la storia di domani. Di Luigi Federzoni (quando egli era ministro delle Colonie e io promotore del primo gruppo universitario coloniale italiano, mi definiva "acino di pepe": è una qualifica scherzosa che mi è stata di incoraggiamento e di guida addirittura nella vita professionale) c'è in detto libro un'appendice stenografica, preceduta dalle seguenti parole: "Durante l'ultima seduta del Gran Consiglio, per antica abitudine di giornalista, ebbi cura di prendere nota particolareggiata di ciascun intervento. Nei giorni immediatamente seguenti la riunione completai questo resoconto con l'animo di chi sente di adempiere un preciso dovere". Con animo non diverso anch'io ho tracciato queste pagine, che mi riportano al titolo di questo scritto.

Un "tramonto" che segue l'alba di una strada
Di lui è stato detto che è stato un campione dell'honnet homme di Pascal. Ha cercato cioè la strada in cui si realizzava, con la sua preparazione, la sua attitudine, la sua morale. Si batteva sempre per questi obiettivi o per altri itinerari solo quando non si sentiva realizzato. Perciò secondo lui non c'era differenza tra un fare e l'altro di una medesima creatura. Perciò è stato detto di lui che è stato scienziato e politico, narratore (ha scritto tra l'altro un romanzo nel periodo in cui nel Ventennio era stato emarginato, dall'emblematico titolo Fuga dal tempo), ha fatto il pittore, ha fatto quello che si sa ed è più vivo oggi che non quando si susseguivano i suoi decreti; con l'introduzione in questo secolo, almeno per l'Italia per la sua preveggenza finanziaria a lungo termine, dell'obiettivo prosperità e non fiscalità.
La mia generazione ha avuto a che fare con il dannunzianesimo, che ha cercato di creare un'atmosfera, non riuscendovi, anzi presto provocando nette distanze. Altri momenti, addirittura cicli, si sono susseguiti, rappresentando più tappe non di rado devianti che mete.
De' Stefani non si è certo mai nascosto dietro questa o quella suggestione, ma si è segnata una strada e l'ha sempre seguita, assumendone rischi e responsabilità, che per tutti in questo secolo sono stati rilevanti.
A me piace ricordarlo così e forse averlo scoperto per alcuni dei miei eventuali lettori. E desidero anche ricordarlo attraverso la sua famiglia: il figlio Pietro, che è stato il mio tramite verso di lui, tra l'altro con il richiamo alla dedica del libri di cui prima ho detto.
Del mio lungo passato, sul quale ho poco da far vedere perché su queste "memorie del secolo" riferisco solo i miei ricordi, le testimonianze documentarie di cui dispongo sono solo pochissime. Tra queste i due libri di de' Stefani, che anche rileggendoli mi fanno scorgere sempre qualche cosa di nuovo. Nel caso specifico, pure di doveroso incitamento, con un linguaggio che per i nostri politici di oggi dovrebbe essere alfine anche il loro.


Nota a margine

Alla lettera di Mussolini, riprodotta nella pagina a lato, de' Stefani replicò il 30 maggio 1925 - sei giorni dopo - precisando che i buoni rapporti coltivati con la finanza internazionale e la stabilità gli avevano reso possibile fissare tra l'11 e il 14 aprile sempre del 1925 (e non già con le distanze temporali che la politica oggi conosce) i termini generali dell'azione che lo stesso Mussolini prospettava. E proprio il 24 maggio ogni accordo veniva concluso, mancando solo lo scambio dei documenti. Così che pochissimo tempo dopo l'apertura di credito di 50 milioni di dollari della Banca Morgan, 15 ne erano già stati prelevati per la prevista azione italiana.
Aggiunge però de' Stefani che dovette adattarsi ad una politica di non convinzione nel valore riequilibrante dei prestiti esteri. De' Stefani infatti mirava a creare sulle scelte da lui predilette e prescelte tutte le condizioni necessarie e sufficienti della stabilità del potere d'acquisto della lira.
All'atto del suo commiato preventivato con l'approvazione del bilancio, egli concludeva il suo mandato sottolineando i risultati conseguiti, ed affermando: "Non sono un dilettante di imposte, non ho principi dottrinali, non ho che criteri di giustizia e di moderazione. Politica produttivistica la mia, quella che favorisce il risparmio con la legge, ma non contro la legge. Politica di compiacenti immunità, no! Con l'assestamento della complementare si compie il ciclo della nostra attività tributaria". Completamento dunque, aggiungiamo noi, e non stillicidi tardivi, insufficienti, contrastanti, di quelli cui gli ultimi anni ci hanno posti di fronte.
Il complemento di questa nota riguarda una figura, la sua, che rifuggiva dal discutere, perchŽ la sua preferenza esclusiva era il fare.
Un fare che l'ha visto ideatore, promotore e motore in ogni fase e scelta della sua vita. Anche quella finale, politica, al Gran Consiglio.
Egli è stato infatti il quarto firmatario dell'ordine del giorno del Gran Consiglio del 25 luglio, dopo Grandi presentatore, presidente della Camera - Grandi non vi aggiunse dei Fasci e delle corporazioni - dopo due quadrumviri, i soli viventi, della marcia su Roma, De Bono e De Vecchi, la firma di de' Stefani precede tutte le altre.
Ogni storia è un mosaico di fatti e di interpreti. E tante versioni non riescono quasi mai a determinarne una sola. L'uomo singolarmente, alla sua conclusione, sovente vi riesce. E' il caso di de' Stefani, che pure si è ricercato in vari settori d'azione e di identità, ma è riuscito ad essere sempre se stesso nel pensiero e pure nei ricercati diversi campi d'azione. Come egli fa notare in uno dei suoi scritti, "ha voluto e potuto essere allo stesso tempo maestro e discepolo". Poter affermare nel vero ciò è difficile, frequente invece è il vezzo di dirlo.
L'ho già ricordato prima. Ma è il suo suggello.


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