Quanto
riferisco per taluni anni del secolo non è fantascienza; lo è
purtroppo ancora oggi, come tutti sanno e molti smentiscono, però
solo con le promesse. E' stata invece realtà in una fase - anche
se lontana, ripeto - di questo secolo. Del resto, il passato corre in
fretta e molto di rado suggerisce esperienza da rivivere. E così
il pessimismo viene generato dal realismo. Perciò la storia è
sempre contemporanea e noi stessi sentiamo la storia passata con il
senno di oggi. Siamo perciò normali solo entro questi limiti.
Anzi, speriamo di esserlo meglio (si parla pure di ressurezione continua)
quando ci si dice che sta avvenendo o che avverrà. E questa è
una premessa correntemente doverosa, di fronte alla rarità, che
va sottolineata, del rispetto di inderogabili compatibilità e
conseguenzialità.
L'avventura
di un maestro che si sentiva anche discepolo
Ma chi è stato, è l'autore e protagonista del suddetto
titolo, dello spirito, della sapienza, di una saggezza carica di volontà
e responsabilità esecutiva? E che ha realizzato soprattutto
per farne derivare i fatti, che in questo caso si sono tradotti in
cifre, che oggi quando sono ufficiali pure in consuntivo sono prevalentemente
intenzionali? Questa volta invece c'è l'eccezione, che chi
scrive con i suoi quasi settant'anni di giornalismo militante ha la
ventura di potere riferire.
Ed eccomi a parlare di Alberto de' Stefani: una persona che ho visto
tante volte da studente alla Sapienza di Roma, da lontano, ma con
l'ammirazione che uno studente pur della facoltà di giurisprudenza
aveva per il presidente famoso della limitrofa facoltà di scienze
politiche da lui fondata, e poi la prima volta incontrato in lunga
conversazione poco prima di un anno dalla sua morte. Con lui ho avuto
larga frequentazione di rapporti alimentati da suo figlio, Pietro,
che per lunghi anni è stato apprezzato e prestigioso collaboratore
delle pubblicazioni che ho diretto negli anni Cinquanta e Sessanta.
Forse per questo legame tra il mio pensiero e quello del figlio, la
dedica fattami nel '64 di un suo libro, Avventure e disavventure governative
del ministro Alberto de' Stefani, mi lusinga: "Per il suo legame
con me, per la purezza del pensiero", che probabilmente premiava
più quella del figlio che non la mia, di cui - se esiste -
non credo siano stati in tanti ad accorgersi.
Di de' Stefani le enciclopedie dicono che è nato a Verona nel
1879 ed è morto a Roma nel 1969, che è stato ministro
delle Finanze (1922-'23) e del Tesoro (1923-'25), fascista contrario
a Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio. Qualche
enciclopedia di quelle curate "sine ira et studio", come
diceva Mondadori, che è stato tra i primi editori a curare
piccole enciclopedie dopo il fascismo, aggiunge che è stato
oltre che uomo politico, anche per la sua posizione al già
ricordato Gran Consiglio (fu da contumace condannato a morte nel processo
di Verona), anche economista e giurista. Mentre non ricordo a quale
titolo fosse membro del Gran Consiglio, dopo il lontano 1925, so di
lui che praticava pure l'arte della pittura e del disegno, come tra
l'altro testimonia un suo autoritratto, sopra riprodotto.
E' stato anche consulente economico per vari anni di Chiang Kai Shek,
acquisendo sul posto una concreta e diretta esperienza concorrendo
alla crescita di un nuovo habitat, nel quale si inserì con
la sua famiglia e in particolare con suo figlio Pietro, che sposò
una cinese della Cina nazionalista.
A questa tempra appartengono altri decani della vita economica e finanziaria
italiana, fra cui ricordo - perché ho avuto il privilegio di
conoscerli o frequentarli - personalità come Giuseppe Paratore,
Ginori Conti, Raffaele Mattioli, per i quali mi sia consentita una
brevissima parentesi, a conferma del tema che vengo svolgendo.
Di Paratore, politico palermitano, grande esperto finanziario, più
volte ministro ed anche, nel 1953, presidente del Senato, dirò
soprattutto, per averla sperimentata, della sua estrema e ironica
semplicità. Da direttore del più antico quotidiano economico
d'Europa, Il Sole, mi capitò di rilanciare una notizia Ansa
che dava conto della sua improvvisa morte. La pubblicai con i dovuti
commenti, non facendo in tempo però a pubblicare la relativa
smentita. Me ne scusai sul giornale e con un telegramma a lui diretto
di spiegazione e di vivo compiacimento per la prosecuzione della sua
vita e della sua opera. Mi rispose con un immediato telegramma di
ringraziamento, "a conferma che era vivo". Rideva così
degli altri, ma rideva anche di se stesso.
Di Ginori Conti, uno dei fondatori nell'Ottocento dell'elettrificazione
industriale italiana, quella che con il cosiddetto carbone bianco
diede l'avvio all'intera produzione nazionale, dirò che l'ho
incontrato già centenario, ad iniziativa di un suo diretto
parente, Maranghi, pupillo di Cuccia e oggi suo successore a Mediobanca.
Gli ultimi tre mesi di carriera giornalistica di Maranghi furono fatti
con me a Il Sole. Ginori Conti mi deliziò a lungo con le vicende
del suo tempo e mi diede in prestito un suo libro di rimembranze e
cioè di vita vissuta in preparazione dell'intero secolo che
gli avrebbe fatto seguito. Ne aveva una sola copia e me ne chiese
la restituzione, cosa che purtroppo ho fatto. Non ho diari, non ho
appunti più o meno superstiti. Ma ricordo l'uomo, che attivava
un dialogo elevandolo con una persona di almeno mezzo secolo distante
anagraficamente da lui. Sono questi i personaggi che per tutta l'esistenza
sono stati davanti ai loro interlocutori, che non li potranno mai
dimenticare: nelle opere, ma soprattutto nel pensiero.
Della stessa stampa era Raffaele Mattioli, presidente della Banca
Commerciale Italiana fino al 1972. Grande finanziere, ma anche eminente
uomo di cultura, prediligeva il suo compito di essere uno dei motori
della vita finanziaria del Paese. Non era un vezzo, ma una vocazione,
anche quella che l'ha condotto a dirigere una collezione di classici
italiani, il cui editore era Ricciardi.
Ho incontrato Mattioli a Piazza della Scala nel 1965 allorché
lo invitai a scrivere un articolo per il centenario del giornale che
allora dirigevo. Ma il motivo dell'incontro diventò subito
secondario rispetto a quello che effettivamente si svolse: una miscellanea
di temi politici e di cultura. Mi disse che non amava scrivere di
finanza perché per essa gli scritti necessari si esaurivano
in un "quadernetto" di sedici pagine da mettere e tenere
sempre in tasca con sole cifre. Io pensavo la stessa cosa ed egli
promise di aiutarmi. Non avvenne. Ma chi percepì la stessa
cosa fu Mazzocchi, l'editore da me ritenuto in anticipo di decenni
sui tempi, con il quale sono riuscito a dare vita a questa pubblicazione.
Oggi una siffatta pubblicazione non avrebbe più significato:
cifre e fonti si sono moltiplicate e in larga parte sono pure irresponsabili;
ci sono infatti le cifre ufficiali, c'è il reale e il virtuale,
e così via.
Nella prima
facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza
Chiusa la parentesi, torno al "mio" de' Stefani. E' quello
della Sapienza, qualche tempo dopo la sua sostituzione con Volpi di
Misurata. Egli, come ho detto, era preside della facoltà di
Scienze Politiche, e disponeva per tutta la facoltà di una
sola stanza. In essa si alternavano i vari professori, non molti però.
Ricordo il professore di storia coloniale, Camillo Manfroni, con un
suo assistente, Giaccardi, che morì anni dopo volontario nell'Africa
Orientale del '35-'36. Ed altri insegnanti, tra i quali ricordo Gioacchino
Bolpe per la storia, Amedeo Giannini per la storia dei trattati, e
così via. Studenti della facoltà - alcuni di essi stranieri,
tra cui una iugoslava, un palestinese, un albanese, un maltese, ecc.
- e studenti di giurisprudenza che intendevano conseguire anche un'altra
laurea, aspiravano quasi tutti alla carriera diplomatica e a sbocchi
di alta burocrazia. De' Stefani disponeva di una sua assistente, che
poi si rivelò notevolmente esperta nel campo della statistica,
in cui conseguì anche qualche posizione direttiva.
De' Stefani attirava la nostra attenzione, perché si sapeva
che era stato un ottimo ministro, non legato alla poltrona, amante
sul serio di scienze economiche con la capacità di trasferire
anche ai suoi discepoli questa sua vocazione. Anche allora ciò
non era frequente tra i docenti, che erano attorniati da una lunga
schiera di diligenti liberi docenti, che tenevano anch'essi le loro
lezioni con un'impostazione complementare nella puntualizzazione delle
rispettive materie. Uno di questi era mio padre, libero docente in
diritto ecclesiastico, che avrà avuto tre o quattro discepoli
frequentatori, tra cui uno che molto tempo dopo è divenuto
Rettore della Sapienza.
Il mio interesse per de' Stefani, mai da me conosciuto a quei tempi,
è cominciato così. Una figura sostanzialmente estranea
alla politica, che pure sapeva esplicare, quando vi si trovava impegnato.
E lo è stato in maniera decisiva, quando è riuscito
a portare in pareggio il bilancio dello Stato (in questo secolo è
successo anche questo, all'indomani quasi della prima guerra mondiale),
e quando è stato tra i membri del Gran Consiglio uno dei pochissimi,
forse il solo, che abbia saputo documentare in maniera tanto scarna
quanto motivata e convinta il suo no a Mussolini. Ho conosciuto da
lontano questo de' Stefani, fino al 1967. Ne apprezzavo e praticavo
il figlio, Pietro, giornalista economico, presentatomi nel 1954, quando
avevo assunto la direzione della confindustriale "AGA",
che collegava una ventina di quotidiani di proprietà delle
Associazioni industriali provinciali. Mi era stato detto che l'agenzia
doveva essere rinnovata e io tra i collaboratori scelsi per la politica
economica Pietro de' Stefani, che in quei tempi mi pare si distinguesse
giornalisticamente su un rotocalco di Nelson Page, credo Lo Specchio.
E' molti anni dopo, e precisamente nel 1964, che Alberto de' Stefani
mi inviò nella mia qualità di direttore de Il Sole un
suo libro dal titolo Avventure e disavventure governative del ministro
Alberto de' Stefani. Aggiunse, alla dedica che mi indirizzò,
questa frase: "Perché apprezza mio figlio".
Con Alberto de' Stefani ebbi nuovamente a che fare allorché
lo invitai a tracciare la storia de Il Sole nel corso di un secolo
della vita economica del Paese: lo fece magistralmente con uno studio
comparso nel centenario del giornale, e cioè nel novembre del
1965.
Pubblicammo cinque numeri, riprodotti poi dalla See (la nostra società
pubblicitaria che aveva in campo uno dei maggiori leaders della pubblicità
italiana, Oscar Maestro) in un grossissimo volume in omaggio, scrisse
in lui, ai suoi inserzionisti, per le mille colonne di pubblicità
assicurate a quei numeri del giornale.
Mi sia consentito dire, con un sincero orgoglio interamente intimo
e privo ormai di qualsiasi risvolto esteriore, che nel corso di questo
secolo nessun giornale ha celebrato il suo centenario con un'ispirazione
che, realizzata, è riuscita essa stessa a fare e documentare
la storia. E la mia personale riconoscenza è sottolineata nell'apertura
del primo numero celebrativo con un mio neretto dal titolo "Testimonianza":
con il meticoloso riconoscimento di tutti i singoli meriti: di lettori,
di giornalisti, di tipografi, di spedizionieri, di distributori, ecc.,
di cui un direttore è sempre primo debitore.
Fatti di ieri,
elusi insegnamenti di oggi
Anni dopo, cioè dodici anni dopo (giugno 1967), Alberto de'
Stefani indirizzava nella mia casa di via Cortina d'Ampezzo la lettera
di cui ho detto prima. Si indirizzava ad un amico che non aveva conosciuto
di persona ed è riprodotta in queste pagine. Ha come titolo
"Dall'armistizio di Villa Giusti al compimento della ricostruzione
finanziaria".
In quel libro, egli illustra anzitutto quello che ha trovato. E poi
- è la sostanza della sua trattazione - la strada seguita per
arrivare al pareggio del bilancio dello Stato. Ed ecco alcuni elementi
del modello operativo: collaborazione del personale tale da provocare
un radicale rinnovamento dell'intera struttura, 72 provvedimenti riguardanti
il personale e gli ordinamenti amministrativi con il rispetto delle
aspettative di perequazione dovute, inpegno intransigente e concreto
di non "tagliare l'albero per raccogliere il frutto".
Ed egli aggiunge (oggi dovrebbe essere un memorandum da non trascurare):
"Fui l'autore dell'abolizione dell'imposta sull'eredità
nel nucleo familiare, della tassa sul vino, del ritorno alla proporzionalità
nelle aliquote delle imposte dirette, di una complementare calcolata
su imponibili limitati alla somma degli accertamenti già definiti
nell'applicazione delle imposte base, di una pubblicità tempestiva
nelle documentazioni finanziarie, della massima coerenza nei metodi
adoperati e perciò di un'inflessibilità che escludeva
il sospetto di qualsiasi deviazione". E poi liberismo doganale
controllato, rifiuto della spallata inventata da Gilardoni del Partito
Popolare e cioè della simultaneità delle decisioni nel
quadro di tutte le imposte dirette, l'abolizione dell'imposta di famiglia
e sul valore locativo dei comuni con la surrogazione di un'imposta
sul reddito consumato, l'unificazione delle innumerevoli tasse sugli
scambi commerciali con un'unica tassa da applicare a tutte le fatture
(1925).
Ed eccoci alle tappe del pareggio: novembre '22, abolizione dell'obbligo
della nominatività dei titoli, e cioè inaugurazione
della politica della prosperità, radicale revisione dell'iniquo
dazio sulle farine, che era richiesta come condizione di una civile
polizia amministrativa, pieni poteri al governo (3 dicembre 1922)
per riordinare il sistema tributario, riorganizzare l'amministrazione
con tendenze limitatrice delle funzioni economiche dello Stato, adottare
una politica di severità nelle spese, obbligo di rendere conto
a breve al Parlamento della spesa fatta. Tutto ciò si ispirava
ad un'ottimistica malinconica politica finanziaria: una definizione
non certo ricorrente oggi.
La scacchiera derivante da tutto ciò si riassume in tre pilastri:
provvedimenti amministrativi e di contabilità, provvedimenti
tributari, revisione delle spese.
Nulla di nuovo in tutto ciò, ma occhi più che aperti,
e immediatamente coerente esecutività.
Non c'è bisogno di dire delle ragioni di oggi, opposte, contraddittorie,
promettenti ma immediatamente divergenti.
Nella revisione delle spese si è ricorso al riequilibrio finanziario
della gestione delle Ferrovie dello Stato e di quelle postelegrafoniche,
ai trasferimenti di controlli decentrati nella Ragioneria Generale,
alla sostituzione dell'Economato Generale, ecc.
L'elencazione minuziosa di de' Stefani, nei vari passaggi della sua
condotta politica, continua a lungo, ma si conclude con una sintetica
affermazione: il debito dello Stato venne ridotto da un massimo di
97,5 miliardi del 3 settembre 1923 a cinque miliardi durante l'esercizio
1924-1925.
Ed egli commenta con il compiacimento, forse lo stesso di cui parlerò
subito dopo: "Ho raccolto il governo finanziario quando parevano
inevitabili il ritorno al pane bigio di guerra e l'adozione di un'imposta
generale nei consumi". E qui c'è l'aneddoto. Scrive de'
Stefani: "Passate le consegne al mio successore il 10 luglio
1925, salivo per l'ultima volta nell'automobile ministeriale per farmi
condurre a casa sulle pendici del Gianicolo, il mio animo era in uno
stato di esultante allegrezza in cui si confondevano la gioia per
la libertà riavuta e la gratitudine verso tutti coloro che
avevano lavorato con me. Nel passare per la piazza Pasquino ho veduto
che sull'insegna di una merceria era dipinto il nome del titolare,
Felice De Stefani. L'incontrai e mi ripetette il suo nome. Io replicai
de' Stefani felice; fino a questa mattina sono stato il ministro delle
Finanze, ma da un'ora sono diventato libero e felice!".
Una grande avventura, la sua. Fatta anche di piccole cose. Pensate
ad un ministro delle Finanze che si trova innanzi una Gazzetta Ufficiale
con le prime pagine dedicate a novelle e romanzetti d'appendice, perché
così lo Stato riteneva di remunerare scrittori bisognosi. E
pensate ad un ministro che deve licenziare decine di migliaia di ferrovieri
perché del tutto incapaci, ma solo politicamente raccomandati
da partiti prefascisti.
C'è oggi una rubrica su di un importante giornale dal titolo
"Scritto appena ieri", cioè attuale oggi, ma realmente
di tempi lontani. E' la sola possibile postilla.
Nella lettera riprodotta, de' Stefani mi sottolinea che la sua "prosperità
e non fiscalità ha anticipato di oltre quaranta anni [oggi
devo dire 52 anni] la politica di Kennedy e di Johnson, fuorviata
dai loro predecessori con un'interpretazione assoluta e incondizionata
della dottrina di Keynes, la cui utilità è condizionata
alle circostanze".
Ma qui vorrei collegarmi alla testata dannunziana della lettera, "Tutto
prima del tramonto", che mi ricorda questo passato. Anche mio:
da matricola universitaria della "Sapienza", quella per
me unicamente vera per la grandezza di tutti i suoi sommi maestri,
che noi poco capivamo allora di quale irrepetuto spessore fossero,
da giornalista poi, che ha avuto a che fare con un grande maestro
non solo di scienza, ma di vita. Con il tutto prima del tramonto.
Da maestro a ministro, da nuovamente maestro a prestato nuovamente
alla politica questa volta a scelta di un grande Paese estero, quale
alto consulente a vita della Repubblica Nazionale Cinese: investitura
avuta nel 1937 dal suo presidente su proposta del generalissimo Chiang
Kai Schek; e poi con i suoi studi e i suoi hobby.
Di lui sapevo e ricordo tante cose, tra cui il suo comportamento al
Gran Consiglio, di cui parlerò più innanzi.
Tante veloci
domande e risposte, tutte salde nella memoria
Per ringraziarlo del libro di cui fin qui ho cercato di riferire come
mi è stato possibile, di fronte a un documento che ritengo
secondario mi sono incontrato per la prima volta con lui, in un giorno
del giugno del 1967: io avevo 58 anni, lui 88 (è morto nel
'69) e nella sua casa, questa volta a Montesacro, ci intrattenemmo
per varie ore. Io per apprendere con l'interesse per tutte le cose
e le persone che nella mia vita sono state sempre dominanti e lui
con la pazienza del maestro di alta classe e con la voglia di ricordare
anche a se stesso. Molti non si sono ancora accorti che i nostri ricordi
non sono né vanterie, né recriminazioni. Ma solo conferme
per se stessi. E così parlammo di tante cose, che avevano tutte
le affinità con un mondo che pur nella diversità degli
anni più o meno era stato lo stesso.
Purtroppo, come ho detto, di lui ho i due volumi che mi ha dedicato,
lo studio che ha fatto per Il Sole, e tutte le altre cose che più
che alla mente parlano subito al mio cuore. Uno dei temi non poteva
che essere il Gran Consiglio. Ne era stato, come ho detto agli inizi,
uno dei protagonisti. Ma mi dava atto di una sua delusione, amara,
anche se aliena da intenti di postuma sua rivalsa morale.
Era convinto di aver seguito al meglio una strada: la sua, con l'alta
consistenza dei livelli positivamente raggiunti. Ma, parlando, non
mi disse di eccezionalità e straordinarietà compiute.
Si attendeva solo che ognuno di noi ad un certo momento avrebbe potuto
aggiungere qualcosa di nuovo, molto o poco che fosse non importa.
Anche quasi contemporanei, i decenni che veramente contano per gli
uomini sono gli stessi e perciò ci rendono, oltre l'anagrafe,
contemporanei. E, debbo aggiungere, devono essere accompagnati da
quella malinconia allegra, ma pure ironica.
Chi se n'è privato non ha avuto generalmente buona fortuna,
come la cronaca e ogni storia ci ricordano. Di qui il tutto prima
del tramonto di de' Stefani. Il tutto che gli piaceva, perché
l'ha o l'avrebbe sicuramente realizzato con l'immaginazione che sfocia
nei fatti. E non già nella fiction politica in uso oggi. Era
stato fascista, con le note indicazioni e perciò anche i limiti
dei pur controversi motivi che resero biennale l'incubazione del governo
Mussolini.
De' Stefani tra l'altro mi ricordò un ordine del giorno, per
lui molto determinante, del Fascio patriottico fiorentino del 16 aprile
1921. E' un ordine del giorno inviato al governo presieduto a quel
tempo da Giolitti.
Lamentava il fiorire di scioperi e di agitazioni che immiserivano
il Paese e si invitava il governo a decidersi una buona volta tra
il rispetto dell'autorità e le deboli transazioni che finora
avevano caratterizzato tutta l'opera sua, adottando, sull'esempio
recentemente dato dalla libera America, quei mezzi energici che la
legge gli consentiva contro i pochi facinorosi che miravano soltanto
al sovvertimento del Paese.
Tutto perciò per l'autorità e nell'autorità dello
Stato, sempre nella legalità: è stata la convinzione
di de' Stefani, che della sua fase di governo ricordava le grandi
opere non politiche fasciste, oltre che la ricostruzione finanziaria
(1923-'24), la battaglia del grano (1925) e poi, dopo di lui al governo,
le bonifiche pontine, la trasvolata atlantica, ecc. Da questo spirito
discese naturalmente il suo comportamento al Gran Consiglio, del quale
già sapevo perché me ne aveva riferito uno dei presenti,
e cioè il capo dei Lavoratori dell'Industria, Luciano Gottar-di,
fucilato poi a Verona.
De' Stefani naturalmente mi disse qualcosa di più. Fu Federzoni
a parlargli per desiderio di Grandi dell'ordine del giorno che condusse
alla fine del regime. De' Stefani ne aveva parlato pure a De Vecchi
e Bastia-nini, che pure era sottosegretario agli Esteri con Mussolini,
suoi ministri.
Tra gli ultimi a parlare fu proprio de' Stefani. Con la mente forse
già rivolta altrove, al divorzio tra le premesse e lo svolgimento
di un'azione ventennale. Al rogo che ne era derivato. E con me usò
proprio questa parola, rogo.
Con il suo intervento de' Stefani dichiarò anzitutto di voler
lasciare da parte ogni considerazione politica o retrospettiva. Due
crisi erano, secondo lui, di fronte: una spirituale, l'altra di mezzi.
Quanto era stato detto dallo stesso Mussolini stava a confermare l'assoluta
insufficienza dei mezzi disponibili. E qui si susseguirono con me
altre precisazioni, note perché pubblicate dai libri che rievocano
quegli anni, o nuove almeno per me.
Una frase da me pronunciata allora mi fu da lui stesso ripetuta. Nell'antitesi
tra Italia e regime, io sono schierato dalla parte dell'Italia.
De' Stefani mi parlò dell'ordine nazionale che in quell'aula,
quella notte, era stato anche spesso retoricamente evocato. Ma mi
disse che a suo modo di pensare egli dovette dire che non avevamo
dinanzi a noi la Grecia, ma i due più potenti imperi del mondo.
La lotta era dell'Italia piccola e povera, l'Italia proletaria contro
una preponderanza di mezzi dai quali non era disonorevole essere soverchiati.
Secondo lui, infine, i concreti interessi del popolo italiano, eventuali
e immanenti, dovevano guidare le decisioni e la scelta delle azioni.
Il resto non contava se non subordinatamente ai fini da raggiungere.
Confrontando queste parole con quelle degli altri, di quelli che firmarono
o si opposero all'ordine del giorno Grandi, Bottai, ecc. ne trassi,
ne ho tratto la convinzione che per de' Stefani esse riflettevano
un pensiero, che affermava la sua coerenza e continuità nell'arco
dell'intera sua esistenza. Era stato così con la sua iniziale
adesione della fine degli anni Dieci, era così con le stesse
idee nei primi anni Quaranta.
Questa volta a confermare siffatta mia conclusione è il testo
stenografico di quella seduta, desumibile dal volume di Feder-zoni
Italia di ieri per la storia di domani. Di Luigi Federzoni (quando
egli era ministro delle Colonie e io promotore del primo gruppo universitario
coloniale italiano, mi definiva "acino di pepe": è
una qualifica scherzosa che mi è stata di incoraggiamento e
di guida addirittura nella vita professionale) c'è in detto
libro un'appendice stenografica, preceduta dalle seguenti parole:
"Durante l'ultima seduta del Gran Consiglio, per antica abitudine
di giornalista, ebbi cura di prendere nota particolareggiata di ciascun
intervento. Nei giorni immediatamente seguenti la riunione completai
questo resoconto con l'animo di chi sente di adempiere un preciso
dovere". Con animo non diverso anch'io ho tracciato queste pagine,
che mi riportano al titolo di questo scritto.
Un "tramonto"
che segue l'alba di una strada
Di lui è stato detto che è stato un campione dell'honnet
homme di Pascal. Ha cercato cioè la strada in cui si realizzava,
con la sua preparazione, la sua attitudine, la sua morale. Si batteva
sempre per questi obiettivi o per altri itinerari solo quando non
si sentiva realizzato. Perciò secondo lui non c'era differenza
tra un fare e l'altro di una medesima creatura. Perciò è
stato detto di lui che è stato scienziato e politico, narratore
(ha scritto tra l'altro un romanzo nel periodo in cui nel Ventennio
era stato emarginato, dall'emblematico titolo Fuga dal tempo), ha
fatto il pittore, ha fatto quello che si sa ed è più
vivo oggi che non quando si susseguivano i suoi decreti; con l'introduzione
in questo secolo, almeno per l'Italia per la sua preveggenza finanziaria
a lungo termine, dell'obiettivo prosperità e non fiscalità.
La mia generazione ha avuto a che fare con il dannunzianesimo, che
ha cercato di creare un'atmosfera, non riuscendovi, anzi presto provocando
nette distanze. Altri momenti, addirittura cicli, si sono susseguiti,
rappresentando più tappe non di rado devianti che mete.
De' Stefani non si è certo mai nascosto dietro questa o quella
suggestione, ma si è segnata una strada e l'ha sempre seguita,
assumendone rischi e responsabilità, che per tutti in questo
secolo sono stati rilevanti.
A me piace ricordarlo così e forse averlo scoperto per alcuni
dei miei eventuali lettori. E desidero anche ricordarlo attraverso
la sua famiglia: il figlio Pietro, che è stato il mio tramite
verso di lui, tra l'altro con il richiamo alla dedica del libri di
cui prima ho detto.
Del mio lungo passato, sul quale ho poco da far vedere perché
su queste "memorie del secolo" riferisco solo i miei ricordi,
le testimonianze documentarie di cui dispongo sono solo pochissime.
Tra queste i due libri di de' Stefani, che anche rileggendoli mi fanno
scorgere sempre qualche cosa di nuovo. Nel caso specifico, pure di
doveroso incitamento, con un linguaggio che per i nostri politici
di oggi dovrebbe essere alfine anche il loro.
Nota a margine
Alla lettera di
Mussolini, riprodotta nella pagina a lato, de' Stefani replicò
il 30 maggio 1925 - sei giorni dopo - precisando che i buoni rapporti
coltivati con la finanza internazionale e la stabilità gli
avevano reso possibile fissare tra l'11 e il 14 aprile sempre del
1925 (e non già con le distanze temporali che la politica oggi
conosce) i termini generali dell'azione che lo stesso Mussolini prospettava.
E proprio il 24 maggio ogni accordo veniva concluso, mancando solo
lo scambio dei documenti. Così che pochissimo tempo dopo l'apertura
di credito di 50 milioni di dollari della Banca Morgan, 15 ne erano
già stati prelevati per la prevista azione italiana.
Aggiunge però de' Stefani che dovette adattarsi ad una politica
di non convinzione nel valore riequilibrante dei prestiti esteri.
De' Stefani infatti mirava a creare sulle scelte da lui predilette
e prescelte tutte le condizioni necessarie e sufficienti della stabilità
del potere d'acquisto della lira.
All'atto del suo commiato preventivato con l'approvazione del bilancio,
egli concludeva il suo mandato sottolineando i risultati conseguiti,
ed affermando: "Non sono un dilettante di imposte, non ho principi
dottrinali, non ho che criteri di giustizia e di moderazione. Politica
produttivistica la mia, quella che favorisce il risparmio con la legge,
ma non contro la legge. Politica di compiacenti immunità, no!
Con l'assestamento della complementare si compie il ciclo della nostra
attività tributaria". Completamento dunque, aggiungiamo
noi, e non stillicidi tardivi, insufficienti, contrastanti, di quelli
cui gli ultimi anni ci hanno posti di fronte.
Il complemento di questa nota riguarda una figura, la sua, che rifuggiva
dal discutere, perch la sua preferenza esclusiva era il fare.
Un fare che l'ha visto ideatore, promotore e motore in ogni fase e
scelta della sua vita. Anche quella finale, politica, al Gran Consiglio.
Egli è stato infatti il quarto firmatario dell'ordine del giorno
del Gran Consiglio del 25 luglio, dopo Grandi presentatore, presidente
della Camera - Grandi non vi aggiunse dei Fasci e delle corporazioni
- dopo due quadrumviri, i soli viventi, della marcia su Roma, De Bono
e De Vecchi, la firma di de' Stefani precede tutte le altre.
Ogni storia è un mosaico di fatti e di interpreti. E tante
versioni non riescono quasi mai a determinarne una sola. L'uomo singolarmente,
alla sua conclusione, sovente vi riesce. E' il caso di de' Stefani,
che pure si è ricercato in vari settori d'azione e di identità,
ma è riuscito ad essere sempre se stesso nel pensiero e pure
nei ricercati diversi campi d'azione. Come egli fa notare in uno dei
suoi scritti, "ha voluto e potuto essere allo stesso tempo maestro
e discepolo". Poter affermare nel vero ciò è difficile,
frequente invece è il vezzo di dirlo.
L'ho già ricordato prima. Ma è il suo suggello.