Tanti, troppi
gap da colmare. Sicché, nonostante la leggera brezza di ripresa
che si dice cominci finalmente a spirare nel nostro Paese, il sistema-Italia
stenta ancora a decollare, frenato com'è da un eccesso di zavorre.
Inefficienze diffuse in tutto il sistema nervoso dell'economia, costi
eccessivi, servizi e infrastrutture che scarseggiano di numero e di
qualità. Senza dimenticare l'altra tenaglia, quella del fisco:
nel nostro Paese in tasse, imposte e oneri vari, le imprese pagano
molto e male.
I numeri della scarsa competitività italiana rispetto ai principali
concorrenti europei - e non parliamo di Stati Uniti e Giappone - sono
tanti e fin troppo eloquenti. Secondo gli ultimi dati del World Economic
Forum (Wef) elaborati dal Censis, ad esempio, "l'Italia ha solo
l'11 per cento di chances nel competere rispetto agli Stati Uniti,
mentre il RegnoUnito ne ha l'84,9, e i Paesi Bassi ne hanno il 79,3".
L'International Agency delle Nazioni Unite ha stimato che le imprese
italiane sostengono un costo dell'energia che è di circa il
20 per cento superiore alla media degli altri Paesi dell'Uem. Un'altra
agenzia europea ha invece rilevato che il costo del gas è superiore
addirittura del 40 per cento rispetto alla media Ue. E le analisi
di un'altra agenzia ancora (la National utility service) ha segnalato
che le nostre aziende spendono oltre il 30 per cento in più
nel settore delle comunicazioni.
Della scarsa efficienza del nostro sistema creditizio si ritrovano
tracce nelle statistiche del Fondo monetario, quando si evidenzia
un divario del 15 per cento rispetto alla media Uem della forbice
tra tassi attivi e passivi. L'ultima classifica mondiale sull'incidenza
degli adempimenti burocratici, infine, colloca l'Italia al 44°
posto, a riprova del cattivo funzionamento dell'apparato, che si trasforma
in una sorta di tassazione occulta.
Un capitolo a parte merita il fisco. In Italia il carico contributivo
sulle retribuzioni, prima delle imposte, è al livello di primato:
arriva al 54 per cento, contro il 44 della Francia, il 24 degli Stati
Uniti e il 23 del Giappone. E non è tutto. L'enfasi degli elementi
quantitativi, riassunti nella determinazione dell'onere fiscale complessivo,
pare talvolta prevalere sui profili qualitativi del sistema, come
il rapporto tra fisco e contribuenti e l'efficienza dell'amministrazione
finanziaria. Il deficit qualitativo del sistema rappresenta un onere
implicito difficilmente enucleabile da modelli quantitativi, ma non
per questo non percepito dal contribuente. Si rileva, inoltre, che
un approccio equilibrato al tema della concorrenza fiscale fra Stati
dovrebbe prevedere una definizione del concetto di "tassazione
dannosa", che comprenda tutte quelle situazioni in cui i regimi
fiscali degli Stati membri comportino doppia imposizione, discriminazione
e disfunzioni nel mercato unico.
Alla fine, tutti questi fattori negativi producono effetti tangibili
sulle scelte di investimento. La scarsa forza di attrazione dell'Italia
emerge da un recente rapporto di Eurostat: su circa cento miliardi
di dollari affluiti in un anno nell'Unione europea, soltanto quattro
hanno varcato le nostre Alpi. E il solco esistente rispetto agli altri
Paesi lo si ritrova intatto anche quando ci si limita a confrontare
gli indici infrastrutturali dei principali comprensori industriali
europei. Dall'ultimo rapporto dell'Osservatorio sulla competitività
dell'impresa di Asso-lombarda-Bocconi emerge la posizione di grande
forza di Londra (soprattutto per i flussi e l'accessibilità
ad aeroporti e ferrovie), Francoforte, Amsterdam e Parigi. Persino
Bruxelles e Zurigo sopravanzano Milano, che si colloca più
o meno in linea con Madrid, Barcellona e Monaco.
E le aziende? Secondo l'Unione dei costruttori di macchine utensili,
il prodotto e le strategie delle imprese incidono sulla competitività
soltanto per il 30 per cento. Il resto dipende dal sistema-Italia.
In particolare, si individuano diversi fattori critici di competitività,
anche se formazione (pesa per il 10 per cento sulla competitività
del settore), pubblica amministrazione (7 per cento), trasporti (5
per cento) e credito (5 per cento) sono i più cruciali. Sostiene
il rapporto: "In Germania, i Laender sopportano le aziende inserendo
nei programmi di formazione professionale stages di un anno nelle
fabbriche. Quanto alla flessibilità, in Francia i dipendenti
prestano fino a 400 ore di straordinario non retribuito da compensare,
eventualmente, in caso di calo della domanda".
Infine, per un settore con forte vocazione all'export (il 56 per cento
del fatturato) dilazioni e garanzie di credito sono fondamentali.
Per questo, oltre alla possibilità di ammortamenti in bilancio
più brevi, si sta negoziando con i ministri dell'Industria
e del Commercio estero una sorta di "legge Sabatini" per
l'estero, da finanziarsi con l'ex legge Ossola, che sul medio-lungo
periodo porterebbe benefici a tutti.

Il fisco, dicevamo.
Raggiunto, non senza fatica, il traguardo dei parametri di Maastricht
per entrare nell'Unione monetaria europea fin dall'inizio, le imprese
italiane si sono trovate a competere in un sistema economico allargato,
che non ha niente in comune col passato. Finita l'epoca dell'alta
inflazione e dell'alto costo del denaro, e fissati irrevocabilmente
i tassi di conversione intra-Uem, è finita contestualmente
l'epoca dell'autonomia e dell'interventismo delle autorità
monetarie nazionali e delle svalutazioni monetarie, spesso necessarie,
in Italia, per ridare competitività a un sistema imprenditoriale
che in questo modo chiedeva e otteneva riequilibri all'alterazione
della concorrenza indotta dalle diseconomie e dalle disfunzioni del
sistema.
Eliminato il ricorso alle leve del cambio, dell'inflazione e dei tassi
d'interesse per competere con il mondo esterno, l'unica leva rimasta
a disposizione delle imprese dell'Unione per primeggiare nel nuovo
grande mercato unico è il lavoro, la sua efficienza e la sua
produttività. E già su questo piano l'Italia si trova
a competere ad armi impari, dovendo scontare un costo complessivo
del lavoro gravato da un peso superiore ai migliori concorrenti, non
per le remunerazioni, che sono invece inferiori (a parità di
potere d'acquisto), ma per il peso più elevato dei contributi
che vi gravano.
Identificare, però, in questo elemento l'unico fattore discriminante
- e che necessita di correzione per porre le aziende italiane a parità
di condizioni con quelle degli altri Paesi - presupporrebbe un sistema
di concorrenza perfetto. Questo non è affatto il caso, avendo
i vari Paesi dell'Uem impostazioni dell'economia pubblica molto diverse.
Italia e Francia, per esempio, con una presenza pesante del pubblico
nell'economia, hanno alti costi di sistema, che impongono elevate
tassazioni sui redditi per poter garantire l'equilibrio delle finanze,
non più eludibile nel dopo-Uem.
E' ormai acquisito che la concorrenza fiscale è un fattore
competitivo a tutti gli effetti e che la politica fiscale è
una leva competitiva importante.
Le aspettative di euro-convergenza in questo campo hanno da tempo
lasciato spazio libero alla concorrenza, che fa dell'economia pubblica
più efficiente, o comunque a costo più basso dell'Unione,
il benchmark a cui gli altri debbono guardare.
Tra i Paesi del G-7, eccetto il Canada, la pressione fiscale attuale
comparata all'inizio del decennio conferma l'Italia come il Paese
più esoso fiscalmente nella dinamica dell'arco di tempo considerato,
secondo soltanto alla Francia in valori assoluti 1998, anno in cui
le sole imposte sul reddito societario eccedevano del 22 per cento
quelle della Gran Bretagna. Il '98 ha visto l'introduzione in Italia
della contestata Irap, imposta denominata sul reddito e che colpisce
tutt'altro (costo del lavoro e interessi passivi), figlia naturale
di un sistema fiscale degenerato che, invece di copiare dai sistemi
semplici, insiste nell'inventare cose che nessuno, in Italia e all'estero,
capisce.
Fatto sta che oggi è praticamente impossibile stabilire l'aliquota
societaria effettiva, perché ognuno ha la propria. Una recente
ricerca sulla tassazione comparata nell'Unione europea applicata,
a titolo di esempio, alle aziende della grande distribuzione alimentare,
è stata costretta a dedurne la tassazione effettiva dai bilanci
di un'azienda-esempio per ciascun Paese.
Essa mostra che per un'azienda italiana il peso di imposte sul reddito
e contributi rispetto al fatturato netto è del 4,77 per cento,
quasi il doppio del 2,5 per cento della Germania.
Questa è la vera zavorra fiscale del nostro sistema rispetto
agli altri, più che il disquisire se oggi l'aliquota italiana
media, nell'era del dopo-Irap (nominalmente il 4,25 per cento, oltre
l'Irpeg del 37 per cento), è maggiore o minore del 53,2 per
cento dell'era precedente. L'aliquota resta in quell'intorno e questa
attuale maggior incidenza fiscale italiana è insostenibile.
Essa deve allinearsi ai Paesi più virtuosi per garantire la
sopravvivenza al sistema economico che lo sostiene.
L'obiettivo non può essere raggiunto che con il contenimento
della spesa pubblica. Considerando, però, impossibile e socialmente
inaccettabile un degrado dei livelli di servizio pubblico, già
scadenti nonostante il costo elevatissimo, l'unica soluzione è
nell'ottimizzazione dei costi (non toccando, per il momento, quelli
relativi al personale).
E il traguardo da raggiungere è mobile: il ministro tedesco
dell'Economia ha promesso una proposta di legge aggiuntiva al recente
piano di alleggerimento fiscale per 57 miliardi di marchi tra il 1999
e il 2002, per abbassare l'aliquota delle imprese, già dopo
il 2000, dal 45 al 35 per cento. Risulta evidente che da qui a qualche
anno un qualche governo, in qualche modo, deve realizzare in Italia
un vistoso taglio al peso fiscale e allinearlo ai concorrenti. Pena
il suicidio economico del sistema: non ci sarà più,
semplicemente, chi potrà pagare le tasse.
Diamo per scontato che lo scenario sia condiviso dagli investitori
internazionali, che magari oggi stanno ancora lontani dall'Italia,
un mercato fino ad oggi considerato poco stabile e altrettanto poco
prevedibile e ora probabilmente attratto, per la forza delle cose,
nel circolo virtuoso indotto dall'introduzione dell'euro. Ebbene,
per dei potenziali investitori interessati a comprare aziende in Italia,
questo è il momento ideale, perché tutto è acquistabile
con sconto. Un doppio peccato: per il minor valore appannaggio dei
venditori e per la pressione esercitabile sul mercato, sbilanciando
ancor più il rapporto tra investimenti in entrata e in uscita.
Ipotizziamo che il mercato riconosca ad un'azienda di un certo settore
un prezzo pari a venti volte l'utile (sempre più spesso, infatti,
il mercato sintetizza i prezzi delle aziende non quotate in questi
indicatori "acidi", desunti dai mercati borsistici) e che
tre aziende operanti in Stati Uniti, Regno Unito e Italia generino
un identico reddito "pre-tax". Teoricamente, dovrebbero
avere valori d'azienda coincidenti. Ma i prezzi sul mercato li fanno
gli investitori, che misurano il reddito netto disponibile, vale a
dire il cash flow dopo avere scontato le imposte. Applicando le indicazioni
delle imposte sul reddito comparato, è evidente che i redditi
netti di imposta divergono in modo molto significativo. L'applicazione
di moltiplicatori (come il P/E) amplifica queste divergenze, con la
conseguenza che un'azienda italiana - identica dal punto di vista
operativo, finanziario e industriale ad un'omologa operante in Gran
Bretagna o negli Stati Uniti - vale ben un terzo in meno.
L'accelerazione dell'indispensabile riduzione del carico fiscale italiano
deve, pertanto, poter chiudere il gap temporale di questo vistoso
"mispricing" delle nostre aziende. Anche, se non soprattutto,
a beneficio degli investimenti stranieri nelle regioni meno sviluppate
del nostro Paese.