Ma
quella che maggiormente rende comprensibile quale compito i critici
italiani degli anni 60 assegnassero al cinema è l'accoglienza
che fu riservata a "Rocco e i suoi fratelli", di Luchino Visconti.
Il film, come si è già detto, è sostanzialmente
chiuso. I meridionali sono fatti in un modo che nulla può cambiarli,
neppure il vivere in una moderna città come Milano. Tanto che
il personaggio principale del film, quello prediletto da Visconti, Rocco
non vive che per tornare nella sua terra, l'unica nella quale può
vivere. Questa interpretazione è suffragata dal comportamento
di Ciro, quello tra i fratelli di Rocco che sembra essersi più
degli altri ambientato a Milano. Ciro lavora in una grande fabbrica
del Nord, vuol frequentare le scuole serali per acquistare un titolo
di studio indispensabile a migliorare la sua condizione di lavoratore
dipendente, soprattutto è molto critico sia nei confronti di
Simone, che s'è reso colpevole d'un omicidio, sia verso la sua
famiglia che, nonostante tutto, accoglie e offre protezione a Simone,
sia, soprattutto, verso Rocco, che non esita ad abbracciare colui che
ha ucciso la donna amata dallo stesso Rocco e da quest'ultimo avviata
alla redenzione. Visconti convenne con Guido Aristarco che il personaggio
positivo del film è Ciro e non Rocco, come Aristarco aveva visto
fin da quando aveva letto la sceneggiatura del film non ancora girato.
Ma poi tradì i suoi veri sentimenti quando ricordò ad
Aristarco le parole dette da Ciro a Luca alla fine del film:
Nessuno ha voluto
bene a Simone come io gliene ho voluto. Quando siamo arrivati a Milano,
io ero un po' più grande di te, ed è stato Simone a
spiegarmi che noi al paese avevamo vissuto come bestie, e che bisognava
far valere certi diritti. Io l'ho capito, lui se n'è dimenticato.
Ecco che io sono l'erede di questa prima idea e così la applico.
Se queste parole
hanno un senso Ciro è l'erede di Simone, il quale ultimo è
il più meridionale dei fratelli di Rocco, quello che non si
fa portare via impunemente la donna dal fratello minore, che non rinuncia
alla "sua" donna se non attraverso l'assassinio. E' a partire
dalla miseria e dall'oppressione subìta nel meridione che Ciro,
seguendo Simone, ha maturato l'idea che occorre far valere i propri
diritti. Perciò è diventato un esponente della classe
operaia, di quella classe che, secondo l'ideologia professata da Visconti,
è destinata a prendere il posto della borghesia come classe
dominante.
Considerando "Rocco e i suoi fratelli" un capolavoro ("tutti
i film italiani presentati a Venezia erano di alta levatura artistica
e il "Rocco" di Visconti una spanna sopra gli altri",
scrisse l'anonimo autore d'un diario delle giornate della Mostra di
Venezia pubblicato su Cinema Nuovo) la critica di sinistra non fu
d'accordo con la giuria della Mostra che assegnò il Leone d'oro
a "Il passaggio del Reno" di Cayatte e si diede un gran
da fare per dare notizia dei dissensi espressi rumorosamente dal pubblico
nei confronti della giuria. Cinema Nuovo, per esempio pubblicò
ampi stralci di articoli apparsi su giornali di diverso orientamento
(dall'Avanti! al Corriere della Sera, da Il Giorno a Il Tempo, da
La Stampa a L'Unità) dai quali tutti risultava che il verdetto
della giuria era stato accolto "con fischi, ululati e schiamazzi".
Come è noto, il film fu anche colpito dalla censura e una parte
di esso, molto importante, la scena dello stupro di Nadia a opera
di Simone alla presenza di Rocco, fu mutilata da un taglio censorio.
Ciò accrebbe il convincimento che il film fosse preso di mira
per ragioni politiche e sul Resto del Carlino del 19 ottobre 1960
Enrico Mattei scrisse a chiare lettere che "Visconti è
un comunista", per cui aveva fatto un film nel quale si rappresentavano
"le peggiori brutture della società nazionale". Per
questa ragione l'intervento della magistratura milanese, che aveva
ordinato il sequestro del film, era stato ben accolto, secondo Mattei
da "una buona metà degli italiani", mentre a favore
del film s'era schierato "tutto il sinistrismo e il sinistrume
italiano". Parole molto significative, non solo perché
espressamente offensive nei confronti della cultura di sinistra, giudicata
antinazionale, ma anche perché dimostrano - se è vero
quel che scrisse Mattei - che la cultura di sinistra non teneva alcun
conto, se non in termini dispregiativi, dell'orientamento di gran
parte degli italiani.
Ma fu Baldelli a mettere in rilievo il ruolo e il peso dell'ideologia
nel film di Visconti. L'articolo, intitolato appunto Ideologia e stile
in "Rocco e i suoi fratelli", apparve nel dicembre 1960
su Mondo Operaio. In esso Baldelli rigettava tutte le interpretazioni
del film in chiave sociale. Sia quelle di coloro che, come il sottosegretario
allo spettacolo Gabriele Semeraro, consideravano lo stupro di Nadia
un'aperta offesa ai meridionali, perché "in una famiglia
meridionale si può arrivare anche a commettere un delitto per
ragioni di interesse: ma non accade mai che un fratello tolga la donna
al fratello valendosi di un aiuto degli altri"; sia quelle di
coloro che, come Antonello Trombadori su Vie Nuove, esaltavano del
film "lo stimolo di rivolta e di liberazione [...] storicamente
determinato nell'Italia d'oggi e fervidamente motivato dall'ansia
di radicale rinnovamento che si respira nel nostro tempo". A
Baldelli sia gli uni sia gli altri giudizi apparivano mossi da una
metodologia interpretativa grossolanamente marxista.
Per conto suo Baldelli considerava il film espressione d'uno stato
d'animo di natura "borghese", quale era appunto quello di
Visconti, perché metteva in rilievo il carattere "borghese"
del comportamento di Rocco e dei suoi fratelli. A questo proposito
Baldelli ricordava minutamente la scena dello stupro e dello scontro
fisico tra Simone e Rocco, rilevando come essa sia lunga e insistita
proprio perché la cultura dei due personaggi principali è
tale che non possono agire diversamente: Simone non può che
colpire ripetutamente Rocco, dal quale si sente tradito, e Rocco non
può che subire passivamente la punizione che il fratello gli
infligge per avergli portato via la donna. Ma poi, quando passa a
enucleare l'ideologia del film, Baldelli non può far altro
che vedere in esso un conflitto tra vecchio e nuovo, collocando quasi
tutti i personaggi del film (da Rosaria a Nadia, da Simone a Rocco)
dalla parte del vecchio e limitandosi a ritrovare il nuovo solo in
Ciro, che però considera un personaggio di "storia"
contrapposto agli altri che considera invece personaggi di "natura".
Ma appunto in questo sta il limite fondamentale della posizione critica
di Baldelli, nel contrapporre nettamente Ciro ai suoi familiari fino
a considerare l'uno estraneo agli altri. Tra Ciro e Rocco, tra Ciro
e la sua famiglia non c'è alcun rapporto. Se Ciro è
proiettato verso il futuro, gli altri invece sono tutti prigionieri
d'un passato dal quale non sanno e non possono liberarsi.
Allora viene da chiedersi: Ciro è un meridionale? Ed è
difficile rispondere affermativamente. Ma è lo stesso Ciro
a mantenere vivo il legame con la famiglia d'origine e promette a
Luca che, una volta smesso di lavorare, andrà a casa da Rosaria
e dalla sua famiglia meridionale. Una affermazione, questa, che non
trova adeguati riscontri formali nel film.
Alcuni dubbi su Visconti sono espressi da La Rivista del Cinematografo
che in un articolo di Paolo Valmarana apparso nel numero 2 del 1961
riconosce che "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti
e "La dolce vita" di Federico Fellini sono stati i film
che hanno dato "il tono alla stagione cinematografica italiana",
ma "non sempre per motivi cinematografici", con evidente
riferimento alle polemiche suscitate dagli interventi censori e da
considerazioni non propriamente estetiche, e in un articolo di Liliana
Cavani del dicembre 1961, che considera con molte riserve il comportamento
di Aristarco, il quale ha, in modo risibile, invitato gli scrittori
italiani a esprimersi a favore di Visconti, ma, comportandosi da "ingenuo"
e da "sprovveduto", ha impostato la sua inchiesta su Cinema
Nuovo dicendo loro "Visconti è il più bravo, rispondetemi
che è vero".
Sulla stessa linea si sarebbe mosso di lì a un anno Luciano
Vaccari scrivendo di "Le quattro giornate di Napoli" (1962)
che egli non esitava a definire un "capolavoro". Ma Vaccari
spiegava subito che considerava tale il film di Nanni Loy perché
conteneva "i valori umani della Resistenza" e perché
era capace di indirizzare verso quei valori gli spettatori italiani:
L'opera del nostro
giovane regista ha avuto nel nostro paese un caloroso successo di
critica e pubblico, ravvivato da dibattiti che hanno stabilito un
vero dialogo tra l'autore del film e gli spettatori, che hanno manifestato
in molte città d'Italia il loro consenso sui valori umani che
il film ha espresso.
A Vaccari non
importava accertare quanto di vero c'è nel film a proposito
delle "Quattro giornate", se quanto Loy aveva raccontato
nel film fosse realmente accaduto come veniva raccontato o fosse stato
in qualche modo falsificato e se ciò avesse una giustificazione
artistica. Anzi premetteva che era "superfluo attardarmi in un
giudizio critico sui valori artistici del film". Lui prendeva
senz'altro posizione a favore dell'"amico Loy" e nel riferire
delle proteste della "stampa di Bonn", ovvero della stampa
tedesco-occidentale, contro il film e il cinema italiano, che quella
stampa accusava di falso, non faceva nessun controllo e si limitava
a riportare brani tratti da articoli di quei giornali che a suo avviso
avrebbero dovuto essere sufficienti a dimostrare la loro falsità,
riportando le risposte di Loy e di altri a quelle dichiarazioni. Un
grande merito del film, invece, era, per l'autore dell'articolo, l'aver,
semplicemente, rievocato le Quattro giornate, con le quali erano state
aperte le ostilità da parte del popolo italiano nei confronti
dei tedeschi. Né diceva molto del film, riportando ampi brani
di dichiarazioni di Loy, dimostrando così di essere attratto
dai film a tesi, perché di Loy riportava soprattutto le tesi
che con il film aveva voluto affermare. Dopo aver dichiarato che "la
verità storica è stata scrupolosamente rispettata",
Vaccari si soffermava sulle parole del professor Alfredo Parente,
"uno degli allievi prediletti di Benedetto Croce", secondo
il quale da Napoli sarebbe partita la scintilla che avrebbe condotto
in seguito alla lotta di tutto il popolo italiano contro i tedeschi.
Circa dieci anni dopo, nel 1972, Gaetano Arfè sulla stessa
rivista prendeva le difese di "Bronte - Cronaca di un massacro",
di Florestano Vancini, un film che alcuni considerano il capolavoro
di Vancini, ma del quale ormai nessuno parla più (a meno che
non se ne torni a parlare ora che il film è stato restaurato).
Secondo Arfè - che parlava da storico - il film "rievoca,
sulla base di una seria e ampia documentazione, un episodio tra i
meno puliti e tra i più significativi del Risorgimento italiano".
La ragione per cui si esprimeva in modo così entusiastico,
più ancora che nella completezza della documentazione, che
nell'articolo resta affermata ma non dimostrata, stava nel fatto che
il film metteva in luce "i conflitti e le antinomie politiche
che contrappongono i vari personaggi e le idee che incarnano",
in sostanza perché era una dimostrazione filmica della tesi
gramsciana secondo la quale il Risorgimento era stato una "rivoluzione
tradita". L'aspetto più interessante del film era proprio
l'aver assunto come punto di riferimento la spedizione di Garibaldi
in Sicilia, soffermandosi su una pagina illuminante di quella rivoluzione.
Particolarmente interessante ai nostri fini è quanto ebbe a
scrivere Sandro Zampetti nel 1962 a proposito di "Il mafioso",
il film di Alberto Lattuada uscito in quell'anno. Dopo aver rilevato
che ne "Il mafioso", come negli altri film di Lattuada che
lo avevano preceduto ("I dolci inganni", del 1960, "Lettere
di una novizia", del 1960, "L'imprevisto", del 1961),
si rilevava "una sostanziale evasione dai temi più vivi
e scottanti offerti dalla realtà italiana", Zampetti rilevava
che quella stessa evasione era passata per coraggio e anticonformismo
nei film precedenti e così concludeva:
Poi qualcosa è
cambiato: un'opera non proprio eccelsa di Rossellini è bastata
per riportare alcuni giovani ai temi della Resistenza. Visconti si
è occupato delle migrazioni interne, Fellini e Antonioni hanno
affrontato alla radice il disagio del nostro tempo, Olmi ha parlato
di neocapitalismo, De Seta e Rosi, infine, hanno riproposto il problema
meridionale. Ed ecco che anche Lattuada riscopre quest'ultimo tema:
ma ancora una volta dà l'impressione di aver fiutato l'aria,
più che di essere mosso da ragioni profonde, un'impressione
avvalorata non già dal fatto che il suo film venga dopo gli
altri [...] ma dal bilancio piuttosto negativo dell'opera.
Ma quando poi
passa a fare questo bilancio Zampetti trascura il fatto che il film
esprima un giudizio del tutto pessimistico sulla modernizzazione italiana.
Antonio Badalamenti, il personaggio di Alberto Sordi, sembra passare
attraverso l'Italia più moderna, l'Italia del Nord, Milano,
senza perdere nulla, assolutamente nulla della sua immobile identità
di meridionale. E' un aspetto del film molto importante, che sta a
indicare come la critica cinematografica e il cinema prodotto negli
anni 60 procedessero di pari passo. Se il cinema non credeva che la
modernizzazione potesse in qualche modo influire sulla cultura del
Mezzogiorno e contribuire a trasformarla, ancora meno lo credeva la
critica, che o non si poneva il problema degli effetti della modernizzazione
sulla cultura meridionale, anche nel caso di emigranti, oppure era
convinta che nulla potesse mutare fino a un mutamento del modello
di sviluppo italiano.
La critica cinematografica diede dunque il suo contributo attivo a
quella visione chiusa del Mezzogiorno e della sua cultura che prevalse
nel dopoguerra e che negli anni 60 si accentuò. Dopo l'immediato
dopoguerra, che fu l'epoca del neorealismo, il cinema smise di vedere
nel Sud aperture verso il resto dell'Italia e il mondo moderno in
generale. E la critica cinematografica non mancò di fare la
sua parte.
(2 - fine)