L’avere forzato
la convergenza di economie diverse ha creato e mantenuto condizioni
di depressione
dell’attività
economica in vaste aree di Eurolandia, Italia compresa.
|
|
L’euro ha compiuto il suo primo anno di vita. I primi vagiti
non sono stati promettenti, e i secondi sono stati addirittura preoccupanti.
I governi e i banchieri centrali non hanno certo peccato di prudenza
continuando ad esaltare la nuova moneta e a ripetere che l’euro
era una valuta forte, proprio mentre continuava a deprezzarsi, commettendo
un errore abbastanza consueto tra i primi, ma non tra i secondi:
quello di ritenere che le dichiarazioni possano sostituire la realtà.
Essi si possono consolare affermando che gli esperti non sono stati
da meno, avendo sostenuto, ancora a fine anno, che l’euro sarebbe
tornato in breve tempo al suo valore iniziale e forse lo avrebbe
anche superato. Invece, dopo aver registrato una perdita prossima
al 15 per cento, l’euro si è messo a oscillare attorno
al valore di un dollaro.
La spiegazione che viene ripetuta è che ciò dipende
dalla bassa crescita di Eurolandia e quando questa eguaglierà
quella degli Stati Uniti l’euro si riprenderà e tornerà
al suo valore originario di 1,16 volte il dollaro. Il problema,
cioè, giace fuori e non dentro l’euro. Sotto accusa
sono ancora il mercato del lavoro e i bilanci pubblici, questi ultimi
dal lato della troppa spesa (soprattutto pensionistica) e da quello
dell’eccessiva pressione fiscale. Questi due fattori concorrono
certamente a spiegare la debolezza dell’euro, ma il terreno
di coltura della sua crescita conta altrettanto.
L’avere infatti forzato la convergenza di economie diverse
– e, quindi, divergenti – attraverso la rincorsa al rispetto
dei cinque parametri di Maastricht ha creato e mantenuto condizioni
di depressione dell’attività economica in vaste aree
di Eurolandia, Italia compresa. L’avere inoltre creato un’anomalia
istituzionale come la Banca Centrale europea di Francoforte, dotata
di poteri parziali, senza un riferimento politico forte e vincolata
a seguire una teoria dell’inflazione (che tale resta), invece
che adattarsi alla realtà delle cose (come fa il “governatore”
americano Greenspan) trasforma il problema in un fatto interno alla
gestione dell’euro.
Il mancato riconoscimento di questa insufficienza istituzionale,
testimonianza di miopia politica dell’Europa, ha creato le
condizioni per il deprezzamento della nuova moneta e i mercati internazionali
– grandi fiutatori e sfruttatori di debolezze – l’hanno
puntualmente registrato. Se insieme alla soluzione del problema
pensionistico e dell’eccessiva pressione fiscale, si ponesse
mano anche al miglioramento dell’istituzione monetaria europea
e si correggesse la sua politica, soprattutto l’atteggiamento
sconsiderato in materia di cambio estero, l’idea dell’euro
come elemento di riequilibrio del disordine monetario internazionale
(perché di disordine si tratta) riprenderebbe vigore ed emergerebbe
la validità della tesi di coloro i quali hanno sempre raccomandato
prudenza nell’avvio dell’importante esperimento politico:
perché fare male ciò che può essere fatto bene?
L’obiettivo è alla portata dell’Europa, ma come
insegna la storia monetaria del mondo, occorre passare attraverso
la comprensione di quali siano i veri aspetti del problema. Da questa
condizione siamo ancora molto lontani.
|