Ancora prima che
il Giornale uscisse se ne diceva,
nei salotti e nelle
redazioni, tutto il male possibile, se ne metteva addirittura in
dubbio il varo,
addebitandogli
padroni e propositi occulti.
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Per me l’avventura del Giornale cominciò un pomeriggio
del marzo 1974 attorno al tavolo di un antico caffè milanese
in compagnia di Biazzi e Bettiza. Fu lì che i due colleghi
mi proposero di guidare la cronaca del quotidiano di Montanelli.
Chiesi ventiquattr’ore per pensarci e la possibilità
di scegliermi gli uomini.
Biazzi era un vecchio amico, avevamo scritto insieme un libro, Battibecco
tra le due Italie, e Bettiza un caro collega con grande fascino
intellettuale, che mi convinse illustrandomi la linea che avrebbe
avuto il giornale: nessuna concessione al clima politico dominante,
serietà nell’informazione, tendenza liberale, contrarietà
verso le sbracature culturali di moda.
Sapevo che c’erano altri compagni di viaggio: Gianni Granzotto,
col quale avevo già convissuto al Tempo di Roma, lui uomo
maturo e io ragazzo (negli anni Sessanta era venuto a trovarmi al
Corriere Lombardo, che allora dirigevo, per propormi di seguirlo
in un’altra avventura, quella del progettato e mai nato quotidiano
di Rizzoli, Oggi, “il giornale di domani”); Guido Piovene,
sicura garanzia di una linea culturale solida; Cesare Zappulli,
il giornalista che come nessun altro sapeva scrivere di economia.
Una bella e magnifica squadra.
Montanelli mi assicurò la più completa autonomia:
«Farai un giornale nel giornale», mi disse, «si
tratta di svegliare Milano, di diventarne, culturalmente e giornalisticamente,
quel che sempre è stata la Madonnina in cima al Duomo, punto
di riferimento e stimolo in quest’epoca buia».
In aprile ero già al lavoro per reclutare gli uomini. Mi
scelsi una scrivania nella prima e provvisoria sede della redazione,
in un appartamento del civico 44 di via Manzoni. Ne volli pochi
ma ferrati e motivati: Paolo Cattaneo, ch’era stato con me
al Lombardo, corsivista nato, malmostoso come carattere ma di una
coerenza indomabile; Salvatore Scarpino, oggi corposo editorialista:
lo conobbi giovanissimo a Cosenza, dove collaborava ad un giornale
locale, durante uno dei miei viaggi al Sud quand’ero inviato
del Corriere; Fernando Mezzetti, un ragazzo viterbese che mi s’era
presentato al Lombardo con una gran voglia di fare il giornalista
(studiava l’inglese e il russo, sicuro che avrebbe viaggiato
per il mondo, come poi, da bravissimo inviato, gli è accaduto
veramente); Beppe Zaccaria, che veniva da Bari e oggi è tra
i migliori inviati della Stampa; Giampaolo Martelli, pescato in
una casa editrice torinese, sottratto ai libri e lanciato nella
cronaca; Beppe Gualazzini, un giovanotto di Parma che scalpitava
smanioso di arrivare finalmente a scrivere il “bel pezzo”,
tifoso per la pelle di Guareschi; Gianni Moncini, cronista di nera
assai immaginoso ma grande cacciatore di notizie; Roberto Gelmini,
cronista di bianca, estensore di note chiare, che si affidava sempre
ai fatti.
Otto più me, nove. Una “task-force” giornalistica
per un’impresa molto difficile, ardua: si trattava di ricavare
uno spazio tra la portaerei del Corriere e l’agile incrociatore
del Giorno, oltre le varie altre cronache, in un clima politico
bestiale, in una città divisa tra la paura, l’ipocrisia
e il conformismo. Ancora prima che il Giornale uscisse se ne diceva,
nei salotti e nelle redazioni, tutto il male possibile, se ne metteva
addirittura in dubbio il varo, si ricorreva a tutta la dietrologia
immaginabile per anatomizzarlo col pettegolezzo e le canagliate,
addebitandogli padroni e propositi occulti. La nostra piccola squadra
trovò subito un massimo comun denominatore d’intesa.
Il clima di ostilità che ci circondava ci faceva più
risoluti, il nostro compito ci appariva come una splendida e affascinante
sfida. Non fummo solo colleghi, tra noi in breve nacque un’amicizia
soda e profonda. Personalmente ce la misi tutta perché ciò
avvenisse. Quella fu la mia stagione giornalistica più bella.
Eppure ero stato già direttore, redattore capo, inviato di
grandi giornali. Sì, quegli anni iniziali del Giornale, prima
in piazza Cavour e poi in via Gaetano Negri, furono e rimangono
la parte più cara della mia storia personale.
Rileggendo in questi giorni il primo numero del martedì 25
giugno del ‘74, un quarto di secolo dopo, ritrovo nell’editoriale
di Montanelli la motivazione di fondo che spinse me e gli altri
colleghi alla scelta di imbarcarci su un vascello che tutto il resto
del mondo considerava fragile e precario: «Noi non ci contentiamo
– scrisse Indro – di dar vita a un giornale: ce ne sono
troppi. Vogliamo creare o ricreare un certo costume giornalistico
di serietà e rigore». Certo bisognava essere un po’
idealisti e anche un po’ pazzi per fare quella scelta in quel
clima. Ma non si è buoni giornalisti se non si è un
po’ l’uno e un po’ l’altro. Altrimenti meglio
fare gli assistenti universitari, almeno si procede in carriera.
La nostra cronaca era davvero un piccolo giornale dentro il giornale:
ogni giorno un piccolo editoriale per registrare gli umori della
città, sferzare le viltà riscontrate, smascherare
l’ipocrisia, scrollare le ambiguità dei politici, dare
coraggio alla gente perbene; un corsivo per commentare i fatti di
rilievo; l’agopuntura (il “controcorrente” di cronaca)
ch’era quasi sempre di Cattaneo, e che, secondo la lezione
di Longanesi, ospitava ora un sorriso e ora un ghigno. Mai un buco
nelle notizie; nel darle, però, eravamo sempre attenti a
non trascurarne gli aspetti positivi. Nel “Diario”, che
era un grande taglio basso di pagina, c’era, in pillole, tutta
la vita milanese.
La nostra vera fatica consisteva nello scrivere e riscrivere, a
volte anche due-tre volte, le notizie, alla ricerca quasi parossistica
della sintesi, dell’equilibrio, della chiarezza, sempre attenti
a rispettare le individualità e le idee degli altri. Imparammo
ad autocriticarci, a confrontarci con franchezza, e a volerci bene:
uno per tutti, tutti per uno.
La nostra serietà professionale fu in qualche modo premiata:
ci guadagnammo la stima del nostro pubblico, ma naturalmente anche
l’ostilità dei nostri avversari, che non erano pochi.
Diventammo una sorta di “Croce Rossa” a cui si rivolgevano
i “deboli” di quegli anni duri e di grande confusione.
Anni bui, altroché: le sinistre primeggiavano, il mondo cattolico
covava il “compromesso storico”, s’andava configurando
concretamente il cattocomunismo, infuriava il terrorismo delle Brigate
Rosse, c’erano soprusi, sopraffazioni e violenze nelle scuole,
nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, il Giornale nelle
edicole veniva tenuto sotto il banco, i lettori non ne mostravano
la testata.
La borghesia milanese non fu davvero coraggiosa in quegli anni,
parte di essa era occupata a mostrare simpatia strumentale per il
nuovo corso: quando Montanelli venne ferito dalle Brigate Rosse,
in qualche salotto furono stappate bottiglie di champagne; il Corriere
diede la notizia omettendo di citare il suo nome nel titolo.
Il Giornale fu attaccato, una sera, da terroristi armati, mentre
una folla esagitata veniva arringata in piazza Cavour. Quella sera
mi trovai ad essere solo in tipografia: chiamai la questura, la
prefettura, il ministro dell’Interno e, con voce la più
ferma possibile e tutt’altro che emozionata, mentre un gruppo
di tipografi solidali mi si stringeva intorno, espressi lo sdegno
di un giornale libero, deciso a resistere nonostante la latitanza
delle istituzioni.
Scrissi, sul bancone di tipografia, il corsivo di prima pagina che
denunciava l’aggressione subita. Solo più tardi saltarono
il prefetto e il questore.
In quel clima irrespirabile tenemmo duro, tra minacce e ritorsioni
che non ci spaventarono mai. Giorno dopo giorno scoprivamo che la
nostra serietà, il nostro sereno coraggio ci andavano conquistando
considerazione e consensi. Lo percepimmo concretamente nel maggio
del 1976, quando per il terremoto del Friuli il Giornale prese l’iniziativa
di una sottoscrizione. Per giorni e giorni la nostra sede di piazza
Cavour vide una processione incessante di lettori e simpatizzanti
che venivano ad offrire il loro “obolo”, a volte di poche
migliaia di lire. Non andavano altrove, venivano al Giornale, perché,
dicevano, di noi si fidavano e volevano anche mostrarci la loro
solidarietà e il loro grazie per le battaglie che conducevamo.
Fu quello, decisamente, il momento in cui misurammo la concretezza
e l’importanza del rapporto stabilito con i lettori. Ma chi
pensava che il Giornale avrebbe superato il quarto di secolo?
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