Si riformula
il carattere
tellurico-funerario
di certi segni della poesia di Moro,
geneticamente iscritta in una terra di prefiche, di maghi,
di stregonerie
ed esorcismi.
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Di un volume di versi il connotatore semantico per eccellenza è
il suo stesso titolo il quale rinserra le seminali ragioni della
poesia o, se si vuole, l’insorgenza del canto con la sua conseguenziale
organizzazione in un sistema poematico, strofico, metrico, prosodico
fino alla estrema ratio del versicolo o del frammento. Tale sistema,
o logos che dir si voglia, quando vi sia (latente o esplicito non
importa) conferisce unità alle singole membra e ne rappresenta
il catino strutturale che inalvea l’anima segreta e invisibile
dell’intero percorso creativo.
Spetta al lettore e, nella fattispecie, al critico, individuare
detta anima e farla emergere attraverso una lettura agonica del
testo che, inizialmente, si nega, poi si concede, quindi resiste,
infine cede e si rivela nella sua polisemia al detector dell’interpretazione.
Segni nostri (prefazione di O. Macrì, 33° vol. de “I
Testi”, collana di poesia contemporanea diretta da Giacinto
Spagnoletti, Lacaita editore, Manduria, 1993), il titolo che Donato
Moro scelse per etichettare la sua opera poetica più organica,
è fortemente allusivo, ossia è inequivocabilmente
semantico dell’intenzione creativa e focalizza il nucleo tematico
centrale dell’intera raccolta di versi. E’ tratto dalla
lirica che strategicamente chiude il volume, una sorta di “congedo”,
ma, in realtà, un manifesto di poetica, sicché l’ultimo
sintagma («tutti segni nostri. / Noi li cerchiamo / per crescere
nei punti / per ritrovare il centro fra spine e rami secchi / per
capire noi stessi a cui non basta / né l’acqua amara
né amore della madre») diventa eponimo della poesia
di Moro racchiusa nella circolarità, tra inizio e fine, di
una latente struttura poematica all’interno della quale è
possibile isolare cinque sezioni così classificabili: 1)
liriche di argomento tellurico-larico-esiodeo; 2) liriche magico-surreali;
3) d’amore; 4) esistenziali; 5) etico-sociali.
Dunque Segni nostri: non parole, ma segni che investono una sfera
esistenziale individuale e collettiva. In un mondo “acosmico”
in cui avviene che i caratteri della modernità hanno privato
l’uomo di quel rapporto viscerale con i simboli familiari,
Donato Moro ha riproposto una direttrice salvifica: il ritorno all’universo
segnico della memoria e della “appartenenza” «per
capire noi stessi». E questi segni sono nostri, ossia appartengono
a una terra e a un tempo “collettivi”: tempo mnestico
(e perciò acrono e assoluto), terra millenaria, segrege,
medesima nei suoi connotati animici, iconici, vitali: il Salento,
assolutizzato in simbolo («La nostra pelle scura si rinnova
/ dall’infame colore d’ogni sud»), similato, per
categoria, a qualsiasi Sud «terragno e feudale» (Quasimodo),
liofilizzato dalle empiriche coordinate geografiche, immobile nella
sua essenza mitica, magica, sacrale di ascendenza pitagorica e sostrato
magnogreco, iconizzato nei «vecchi abbandonati sulle porte
/ le mani lunghe fino ai piedi stanchi»; «Salento chiuso
palazzo / pietra sempre più vecchia / blasone consumato di
baroni / ed orgogliosa estate / a calcinare servi della gleba /
dentro nicchie di tufo». (Eterno, Agosto accovacciato nella
corte, Contadine del Capo, Lamento di contadino).
Allora accade che il contingente, il concreto, il sociale siano
metabolizzati nella figuralità di un «paesaggio d’anima»
retrospettivo per continuità antropologica, etnica, larica,
generazionale, al cui interno si saldano due mondi: quello metastorico
dell’invisibile, dell’oltre, dei Mani, eterno e immutabile
(è presente nelle liriche magiche) e quello transeunte, fenomenico,
occasionale che accoglie nella sua sfera l’esistenza del poeta
e che del primo è appendice senza soluzione di continuità,
illuminazione, specola. In Segni nostri l’individuale esperienza
del poeta si copula con l’assoluto, e codesto percorso, interno
alla scrittura, ma, soprattutto, alla memoria evocante è
specifico della tensione verso quella che Hölderlin chiamava
«riva d’eternità». E’, in fondo, l’antico
spettro di Hegel che aleggia sulla cultura occidentale da circa
due secoli, solo che all’intelletto speculativo, ai processi
razionali, si è sostituita, da Hölderlin e Shelley a
Baudelaire e Campana (per citare solo i referenti più noti),
la forza della poesia che, attraverso la lettura simbolica e orfica
del reale, ha saldato l’esperienza e la vita del singolo, insomma
il suo esserci, hic et nunc, con un’altra più profonda
e immanente realtà: quella jenseits der Dinge. Una realtà
che, come il tempo interiore, bergsonianamente dura e si risolve
in archetipi.
Su questa linea, a partire da Pascoli, passando per Campana e Onofri,
per giungere alla poesia pura, al primo Montale e al primo Quasimodo,
nonché alla “terza generazione” (secondo il dimensionamento
applicato da Macrì alla poesia italiana dei primi cinquant’anni
del Novecento), si situa l’esperienza poetica di Donato Moro.
A ben guardare le date che sigillano i singoli componimenti (il
lettore potrà trovarle a piè di pagina), ci si accorge
che la scansione diacronica della sua attività ha come punto
di partenza il 1943: anno cruciale nella storia della poesia italiana
novecentesca e in quella del Salento in particolare. Non si può
comprendere a pieno il messaggio poetico di questo libro senza osservare
quelle stazioni temporali, ma, in realtà, esistenziali, che
l’autore ha posto come stigma, in sordina, ragionando da critico,
quasi ad offrire un filo d’Arianna al lettore perché
si muova con prudenza e con sicure coordinate in quel labirinto
che è lo spazio creativo di Moro-poeta. E quelle date (di
ciascuna, quando siano abbinate, la prima è la più
significativa in quanto coincide con l’anno della prima stesura)
sono la traccia del suo riflettere e ripiegarsi sulla propria poesia.
Assolvono a una funzione strutturale e documentale, nulla sottraendo
a quel processo di astrazione-simbolizzazione che assolutizza, come
dicevo, il temporale e l’empirico. Nulla tolgono alle essenze
delle cose per restituire alcunché di realistico alle cose
(perfino pulviscoli di vernacolo, diasporizzati nell’infratesto,
si risemantizzano in questa chiave), ma sono indicatori, anch’essi
semantici, di un percorso interiore che si snoda lungo l’arco
di più stagioni esistenziali, contrappuntando il canto, quasi
a documentare la proteiforme massa esperienziale della vita, il
relazionarsi di essa con l’assoluto rappresentato da un luogo
dell’anima circoscritto in uno spazio mediterraneo minimo eppure
universale: il Salento. Insomma, necessità di un radicamento
nel qui e nell’ora, nella storicità del tempo, dell’essere
«vivo con gli affetti, col sangue, la polis», come teorizzava
Macrì nel ‘41 polemizzando contro l’«assenza»
e il «golfo d’attesa metafisica» di Carlo Bo. Ed
è, questa, necessità specifica degli ermetici meridionali
o, se si vuole, dell’ermetismo sconfitto, ipallage che identifica
il canto neosimbolista di una terra materna e perduta e, con essa,
di una moltitudine subalterna sconfitta dalla storia e dalle dinamiche
del potere: penso al cosmo delle figure georgiche e domestiche,
in primo piano il padre e la madre, che pullulano nella poesia di
Moro, ad esempio nelle liriche A mio padre, Emigrazione, Sentieri
ad Acquarica, Lamento di contadino, Contadine del Capo, Braccianti,
Non è mai pieno il grido, Sudore e miseria, Agosto accovacciato
nella corte ed altre.
Nella poesia di Moro, come in quella del Bodini della Luna o di
Scotellaro, è possibile rintracciare una via “mediana”
o “terza” (la formula è di Renato Aymone e di Lucio
Giannone) capace, cioè, di conciliare ermetismo e neorealismo,
ossia «esigenze di natura etica e sociale con esigenze di
carattere più squisitamente letterario», secondo la
lezione esemplata dai Maestri del Novecento.
Delle radici novecentesche di questa lirica, oltre agli strumenti
retorici sopra cennati, offriamo a segno Naufragio che apre il volume.
Il titolo, di ascendenza ungarettiana, etichetta tre strofe tetrastiche
di prevalenti decasillabi e rari endecasillabi. Si coglierà
il timbro melodico, di gattiana misura, nelle rime (vita-smarrita,
vuotezze-ebrezze, greve-breve) che legano i versi dispari, sciolti
i versi pari. Questo carattere melico via via si attnuerà
fino a scomparire nell’essenzialità di un verso carsico
e frantumato, speculare alla tensione emotiva, ma sempre intriso
di intime e misteriose risonanze.
La realtà del Sud irrompe soprattutto nel secondo dopoguerra
e a partire dal ‘43 (ma già era presente nel decennio
precedente con Quasimodo, Gatto, Sinisgalli) nelle pagine del neorealismo,
precedentemente incubato, per altro, nel primo Vittorini. Negli
ermetici meridionali della “terza generazione” si “aggrega”
alla poesia quella che Contini chiamava «una terra anteriore
alla storia [...] da cui si va in esilio», luogo della memoria
edenica e primeva. In Moro, come in Bodini e Scotellaro, palpita
una terra «viva e dolorosamente concreta», in cui la
religione dei Mani istituisce un’ ideale continuità
fra destini di uomini e stagioni esistenziali che il confine fra
la vita e la morte non distanzia, ma agglutina in un misterioso
ciclo biologico in cui convergono magia (es. Cantilena di S. Giovanni
Battista, S. Pantaleo senza robe, Annata di scongiuri) e larismo,
saghe e riti folcloristici, compaginati indissolubilmente dal simbolo
nella realtà dell’invisibile.
Dicevo del 1943: è l’anno in cui, per scolastica, empirica,
ma non esaustiva convenzione, si indica il discrimine fra la poesia
dell’anteguerra (orfica, pura, neosimbolista) e la poesia del
dopoguerra (engagée, eteronoma, neorealista). Scriveva Vittorio
Bodini, su “Libera Voce”, il 16 novembre di quell’anno:
«Non possiamo nascondere il nostro fastidio se ci avviene
di leggere uno scritto [...] da cui non trapeli il più minuto
indizio che qualcosa è accaduto, che qualcosa non è
più come prima». Forse senza saperlo, Moro rispondeva
all’appello di Bodini con i suoi versi composti fra il ‘43
e il ‘69, traendo ispirazione dal concreto, domestico epos
georgico del quale si fa cantore esiodeo: «Mia madre ebbe
quattro fratelli», lirica che chiude, con Agosto accovacciato
nella corte, il primo e più lungo ciclo dell’attività
di Moro. Lirica (Epos familiare) costruita per antifone e anafore;
identico, è, infatti, l’incipit perentorio, secondo
l’andamento tema-rema, che apre le prime due strofe («mia
madre ebbe quattro fratelli») con agoghé trocaico-dattilica
intrinseca alla prosodia dell’epica.
Fortemente iconico, sempre all’interno dello stesso schema,
il distico «Nicola fu padre di undici figli / portava lunghi
baffi il cappello alto sul capo», reiterandosi il precedente
effetto iconizzante la madre «chiusa ed assorta nelle vesti
nere». Figli di Sisifo «avevano zappato terre incolte
/ di sole in sole / arato / generato per anni» e qui, nel
ricorrente asindeto, si emblematizza la continuità regolare
e secolare della fatica di generazioni medesime nel loro destino.
Il tono pencola fra il lirico e il discorsivo come è proprio
dell’epica: di quest’ultimo carattere (narrativo-colloquiale)
ecco in anafora l’incipit della quarta strofa: «Mia madre
amava molto Vata e Nino / i fratelli più piccoli di lei».
Dominano i luoghi chiusi della memoria semantici del nido: la casa,
la corte, il focolare, la cerchia degli affetti domestici, compresi
gli animali umanizzati come in Saba (es. «le pecore che hanno
stanchezza d’uomini», cane, capra, mulo e, soprattutto,
legato ai ricordi della fanciullezza del poeta, il cavallo, «un
giorno, caduto», stramazzato per la fatica). Anche il cavallo
è partecipe dello stesso destino di biblica condanna che
grava sugli uomini dei campi, tema esiodeo per quel senso aspro
della vita, concepita come fatica e dolore, e del lavoro avvertito
come espiazione di chissà quale aborigena condanna.
Temi e figure consueti, in quegli anni, a Guttuso, a Migneco, a
Levi, ai salentini Geremia Re e Lionello Mandorino per «l’espressione
casta ed estatica dell’uomo nel suo lavoro» come scrive
Macrì in prefazione.
L’esemplarità di Saba risulta da quest’epos del
quotidiano diseroico, in cui uomini, animali e cose sono affratellati
nello stesso destino: «Domani insieme / per sempre il vecchio
la capra finiranno / ad un tramonto», oppure «i vecchi
fichidindia immoti, / stirpe d’esseri incisi / da mille punte
di coltello». Ma in Moro questi stessi elementi (uomini, animali,
cose e, in più, gli elfi larici) diventano Segni, stimmate
impresse nell’anima e nel sangue («per capire noi stessi»).
Dunque il ‘43 e il biennio immediatamente a ridosso di questa
data segnano il nascere della nuova poesia salentina, finalmente
immune da certo retorico e vizzo carduccianesimo, grazie anche alla
fronda futurista che Delle Site, il giovane Bodini, Elèmo
d’Avila, Alvino avevano orchestrato negli anni Trenta.
Moro è subito fra i nuovi, forte delle sue letture ungarettiane,
quasimodiane, montaliane che convergono nel bacino dei modelli culturali
cui guardava il nostro autore. Annessa alla nuova poesia salentina
è la tipologia della “dimora vitale” arcaica, più
volte identificata da Macrì, a partire dalla sua edizione
mondadoriana di Tutte le poesie di Bodini, per giungere alla prefazione
che impreziosisce e lumeggia, in Segni nostri, la poesia di Moro,
poeta fino a questo momento insospettato, ma subito assurto nella
«costellazione», come scrive Valli, della poesia meridionale.
Ed essa dimora è distintivo, quindi segno per eccellenza
della poesia di Moro. Ne diamo i connotati: «case di pietra»,
tufi, pagliari, «pianure magre», «la pietrafitta
nella grotta», «muro crepato», «carrare
polverose», «muri sciroccati», «absidi dorate»,
«cripte basiliane», «nudi santi scheletrici»,
«ulivi saraceni», «specchie», «petraie
scontrose». Case che sono «tombe tra fichi» e
«greche voci» (s’allude alle prefiche) e ancora
«tombe» in Lamento di contadino.
I paesi bianco-calce del Salento sono omologhi di mediterranei
sepolcreti: «Sta l’anima mia dentro le tombe / che ritrovo
zappando nel Salento / e non ha voce. / Invano cerco segni nei tramonti
/ per nuovi giorni, per speranze nuove, / il cielo resta quello
della gazza / che salta in mezzo ai culti / o rauca irride / all’ombra
dell’ulivo saraceno. / Ho sopra il petto il peso della terra
/ e batte il vento nei miei occhi vuoti». Accanto alla quasimodiana
reminiscenza («ride la gazza nera fra gli aranci») noteremo
solidificarsi nella gazza una presenza animica che allegorizza metamorfosi
(è ben nota la leggenda ovidiana) e metempsicosi. E’
il magico, magnogreco segno della continuità e relazione,
cui accennavo prima, fra il mondo ctonio dei Mani e quello visibile
e occiduo dei vivi. Si riformula, in questa zona tematica, il carattere
tellurico-funerario (“la dinamica della metamorfosi” e
“la qualità del sacro”, seconda e terza radice
della poesia come teorizza Macrì) di certi segni della poesia
di Moro, geneticamente iscritta in una terra di prefiche, di maghi,
di stregonerie ed esorcismi («le ragazze chiedono sorte»,
«fattura è l’aria salsa», «fattura
di malasorte») lungo l’asse Galatina-Soleto, interno
al più ampio raggio apulo-lucano-campano dove si aggirano
fra i vivi «monachicchi» e «scazzamurrieddi»,
umili elfi buoni, attestati nella scrittura di Levi, Gatto, Scotellaro,
Nigro ed altri.
Segni di questa terra misterica sono le creature animiche simbologicamente
legate alla sfera dell’oltre: il gatto, goethiano archetipo
inferomefistofelico, e il gufo. Inoltre le «pecore irsute»
che si muovono fra «cave folte d’ombra» sono «greggi
d’uomini» in transumanza dai «secoli corrosi»
in mezzo a «rocce [tombe] sbiancate dall’arsura»
e «vecchie madri nere» iconizzano «senza pupille
/ isole di silenzi». Come nel primo Bodini, così in
Moro la poesia spesso si risolve in nékyia, in trenodia intrisa
di surrealismo (es. in Le nubi divorano la luna, la città
ha «occhi di cavalla» e la luce è «ferita
a morte» fra un sortilegio di dadi rotolanti «a scegliere
cammini sconosciuti» nell’incubo di una notte «scavata
fra le tane», ma si veda anche Per i novant’anni di Pablo
Picasso), insistente, come rileva Macrì, l’archetipo
lorchiano e, più estensivamente, ispanico-lusitano-barocco
cui si somma paradossalmente (ed è qui l’originalita
di Moro) un’esigenza di realismo radicata nell’istinto
e nel sangue del poeta che rifiuta il canto asettico degli ermetici
settentrionali inattinti dalle concrete, “feudali” sofferenze
di una umanità storica umile e subalterna. Citiamo, ad esempio,
la bellissima lirica A mio padre. Come in Bodini e in uno dei suoi
migliori epigoni, Franco Ventura, il Sud di Moro è senile
e paterno. Ancora una volta indichiamo come specifico dei maggiori
poeti meridionali del Novecento il radicamento della poesia nell’humus
antropologico e storico, sicché il concluso orto della provincia
si slarga a simbolo di una condizione esistenziale segnata da perdite
e da lutti, contro l’iperuranio di un io (mi riferisco alla
teoresi di Carlo Bo) che sprofonda agostinianamente in se stesso
per attingere un’«esperienza assoluta di verità
e di linguaggio». L’originalità di Moro sta nel
suo rifiutare il patetico, il melodico, l’arcadico, nell’opporre
al lamento il canto dolente, ma virile della terra genesiaca. In
questa convergenza di ermetismo e engagement, di simboli (segni)
e realtà, di assoluto e di contingente, di razionale e di
irrazionale, di trascendente e immanente, di pietas e di cruda coscienza
storica, sta l’anima segreta che in sé compone i disiecta
membra del canto. L’itinerario spirituale di Moro si compie
a ritroso verso le radici «per ritrovare il centro fra spine
e rami secchi / per capire noi stessi», procedimento «salvifico»
(quarta radice) trascritto in semantemi che iconizzano una terra
aspra e forte, scarna e rugosa come i volti dei padri arsi dal sole
e bruni come santi bizantini. A quest’area semantica appartengono
i segni verbali arsa, sale, nero, secca, muri crepati, pietraie
di levante, foglie bruciate, rocce, sterpi, pietra, croce, ecc.
L’innesto, poi, fra realismo e surrealismo, che ricorda certe
liriche di Carrieri o il Bodini “spagnolo” di Capodanno
a Puerta del Sol, si compie, ad esempio, in San Pantaleo senza robe,
in Cantilena di S. Giovanni Battista, in Annata di scongiuri, dove
«i gatti innamorati hanno pianto di bimbi», la «torre
[ha] occhio di gufo» e «muove ritratti la lampada impaurita»,
emergenti i segni canonici della magia, del sortilegio, dell’esorcismo:
olio e crocicchio, tanto che «i muri hanno rizzato il pelo».
Così in Cantilena di S.Giovanni Battista si legge: «Alzati
San Giovanni non dormire / io vedo il bene mio lontano andare. /
Gli ho legato con spaghi tre scongiuri / per la febbre la fatica
/ contro donne forestiere».
Un altro carattere della poesia di Moro è la dialettica fra
una parola mitica, analogica, ermetica (diamo solo qualche scampolo
di procedimenti sinestetici dell’uso dei genitivi metaforici:
terrazze di luna, carnevale di neve, rassegnazione di fichi, gridi
di falò, stupore di terrazze, stupore di pietra, tosse di
becchi a carburo, bonacce di donne) e messaggio morale veicolato
da tematiche umane, storiche, sociali, ma sempre depurate, è
bene ribadirlo, da ogni scoria di irredentismo, fatta eccezione
per la lirica A James Meredith dove l’impeto della rivolta
contro l’ingiustizia sormonta la pietas in versi come questi
«Mississippi / sacro fiume / cresci e inonda / travolgi le
vergogne di cinque continenti» (qui rimbalza l’eco della
dantesca invettiva contro Pisa di Inf. XXXIII, 82-84 «muovasi
la Capraia e la Gorgona / e faccian siepe ad Arno in su la foce
/ sì ch’elli annieghi in te ogni persona») e si
similano tutti i Sud fraternamente uniti nella sconfitta: «La
nostra pelle scura si rinnova / dall’infame colore d’ogni
Sud [...] siamo pronti, fratello».
Non abbiamo proceduto, se non per cenni, in questo nostro esame,
all’analisi stilistica della poesia di Moro, impareggiabilmente
già condotta per archetipi e campi semantici da Macrì,
nella citata prefazione al volume, e da Valli. Individuati, da entrambi
gli studiosi, gli esemplari e le fonti letterarie (Montale, Ungaretti,
Quasimodo e, aggiugiamo, Saba per quell’epos del quotidiano
diseroico cui abbiamo fatto cenno), non ci rimane che collocare
storicamente, all’interno della vita culturale del Salento,
la poesia di Moro. Sia per i temi che l’attraversano, incluse
le scelte stilistiche, sia per gli anni di stesura, essa ci sembra
iscrivibile nel quadro di quel processo storico-letterario compreso
fra il 1941 (anno di fondazione dell’ermetica “Vedetta
mediterranea”, l’aggettivo attiene, ovviamente, alla sola
pagina letteraria della rivista) e il 1966, anno di estinzione del
“Critone”. Il termine ad quem della poesia di Moro si
fissa, osservando le date, al 1973. Ma solo cinque liriche (Rinfrescano
i treni, 1970; Per i novant’anni di Pablo Picasso, 1971; S.
Pantaleo senza robe, 1971; Santa Lucia, 1972; Annata di scongiuri,
1973) eccedono il confine degli anni Sessanta. Si tratta, direi
quasi, di un’appendice che inerzialmente, pur nella sua autonomia
tematica e stilistica, prosegue, completa e suggella la dorsale
del volume (88 componimenti) arginabile fra il ‘43 e il ‘69.
Ma nel concludere questa nostra lettura “geografica” della
produzione poetica di Moro ci è di giovamento quanto scriveva
Quasimodo nel suo Discorso sulla poesia e sui poeti che le assicurano
la “permanenza”: «Sono uomini del Sud [...]; della
Lucania, degli Abbruzzi, delle Puglie [...] che avuta una eredità
terragna e feudale aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro
sorte.[...] Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitando,
invece, i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie
contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa
se toccherà la Magna Grecia ancora il suo cielo sopra immagini
imperturbabili di innocenza e di sensi accecanti».
Fra questi uomini del Sud deve essere oggi ricordato Donato Moro.
(2 - Fine. La precedente puntata è stata pubblicata
sul N. 2, giugno 2000)
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