Un buon osservatore, il più oggettivo
possibile, registrerebbe tra i governi più conflitti che
cooperazione.
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Senza dubbio aveva ragione Churchill quando sosteneva che i trattati
servono a risolvere i problemi del passato ma anche ad originare
quelli del futuro. Lo statista che aveva disegnato col proprio dito
molti confini (nel medio Oriente, ma anche in Africa) sapeva per
esperienza che per rimettere in moto un processo storico era sufficiente
non applicare più, ma interpretare un trattato, spostando
nel tempo e rinnovando nei contenuti norme, obblighi, condizioni.
Qualche cosa del genere è capitata con Trattato di Maastricht,
poi rinforzato ad Amsterdam, che ha avviato l’Unione monetaria
e l’euro. La moneta unica ha un valore che corre lungo metaforiche
montagne russe: è salita ed è discesa per il prezzo
del petrolio, per l’elezione del presidente degli Stati Uniti
o per gli scossoni nel bacino mediterraneo, più che per gli
interventi della Banca centrale europea sul mercato dei cambi. Ma
non sono soltanto questi indizi di sovranità limitata a preoccupare.
Perché resta da appurare se l’euro servirà effettivamente
agli scopi per cui è stato varato.
Il giudizio positivo sulla moneta unica europea si basa, dal punto
di vista italiano, sulla nostra attuale modesta inflazione. Il giudizio
negativo, invece, considera la perdita di valore che l’euro
ha registrato sul mercato dei cambi nei suoi primi due anni di vita.
L’uno e l’altro degli indicatori e dei giudizi ad essi
collegati non colgono il problema principale dell’Unione europea,
che è all’origine del progetto euro: grazie alla moneta
unica migliora la qualità del mercato comune e vi è
quindi una crescita del reddito e del benessere. Un miglioramento
che riguarda soltanto i Paesi che condividono l’euro.
Il Trattato di Maastricht è giustamente (e lo diciamo senza
alcuna ironia) preoccupato della stabilità finanziaria e
monetaria, perché quelli erano i nostri problemi negli anni
Settanta e Ottanta, che coloro i quali hanno disegnato Maastricht
volevano evitare a tutti i costi. Ma oggi, in un mondo in cui tanti
bilanci pubblici stanno andando in surplus e in cui nemmeno il triplicarsi
dei prezzi del petrolio riescono a fare alzare l’inflazione
(come è possibile vedere dai tassi d’interesse a lunga
che incorporano aspettative inflazionistiche immutate), le preoccupazioni
che stanno alla base di maastricht e dell’azione della Banca
centrale europea sembrano appartenere ad un’altra epoca.
E’ più che mai palese che il problema che abbiamo oramai
da anni di fronte, perché ci viene imposto dalla competizione
con gli Stati Uniti, è la crescita, mentre la stabilità
ha senso come obiettivo soltanto se ne è condizione necessaria.
Negli anni Novanta, abbiamo dato la priorità al recupero
della stabilità, perché era importante che l’euro
partisse con il piede giusto. Ma restare prigionieri del passato
è il difetto principale della politica (anche se è
ciò che vediamo tutti i giorni nel nostro Paese; tant’è
che non siamo ritenuti, in questo campo, un buon modello!).
Più che al valore dell’euro, dovremmo guardare a un
altro tipo più significativo termometro: quanta integrazione
europea stiamo creando. Vale a dire, quanto mercato comune, quante
imprese europee, e, ancor prima, quante norme che consentano tutto
questo. Un buon osservatore, il più oggettivo possibile,
registrerebbe tra i governi più conflitti (dal caso Heider
alla cosiddetta “mucca pazza”) che cooperazione; e tra
le imprese, più dipendenza dagli Stati Uniti che unioni europee.
L’avvio dell’euro, cioè, non sta producendo quello
sforzo “a fare l’ “Europa” che ci era stato
promesso. E tutto questo in modo particolare perché:
1) il “governo” dell’Europa è quanto mai carente;
2) non prosegue l’impegno a creare mercati contendibili, che
è l’unico mezzo per ottenere i benefici dell’integrazione.
In altre parole: si perde un gran tempo con progetti di consolidamento
dei mercati attuali, per esempio di fusione tra le Borse, quasi
nel tentativo di creare un bel “monopolio europeo”, quando
invece la crescita e la qualità della competizione richiede
semmai un’articolazione di tanti mercati, senza che l’esito
della concorrenza sia già deciso da differenziali di regole.
La cultura della stabilità è senza alcun dubbio importante,
ma va detto esplicitamente che la crescita è tutt’altra
cosa. E’ cambiamento, è innovazione, è assunzione
di rischi. E’ flessibilità, ed è mobilità.
La fortissima crescita degli Stati Uniti negli anni Novanta ha due
cause principali fondanti: università meritocratiche e mercati
finanziari efficienti e completi. I nostri ritardi non si stanno
affatto riducendo. In modo particolare nel nostro Paese, stiamo
ancora facendo o tentando di fare riforme che vanno in direzione
opposta: per le università, si moltiplicano le sedi invece
di favorire la mobilità, e quindi la scelta, degli studenti
migliori. per la finanza, si discute molto di poltrone, ma non si
registra altrettanto impegno nella crescita di quegli intermediari
che favoriscono lo sviluppo delle imprese innovative. Nel frattempo,
fisco e diritto non sono stati certo adeguati a compiti così
risolutivi.
Ma non è soltanto in Italia che registriamo questo arretramento
dell’impegno “a fare l’Europa”; anche negli
altri Paesi il panorama non sembra essere dei migliori. Il documento
della Commissione Ue, del settembre 2000, sulle innovazioni in Europa,
meriterebbe di essere letto con maggiore attenzione. Presenta infatti
un bilancio deprimente del poco che abbiamo fino a questo momento
saputo fare, soprattutto nel confronto con gli Stati Uniti. Ma molti
dei rimedi (per esempio, insegnare l’imprenditorialità
nelle scuole) sembrano né più né meno che la
caricatura di ciò che realisticamente serve per far riprendere
la crescita in Europa. Una crescita che dovrebbe essere soprattutto
qualitativa, vale a dire rivolta a migliorare la qualità
del capitale umano, in modo di aumentare la produttività
e le capacità creative, i livelli d’iniziativa, l’ampliamento
del parco tecnologico moderno e futuribile, l'approfondimento della
ricerca, e via di seguito.
Non occorrono grandissime capacità produttive per capire
quel che accadrà. “Lo scenario dell’economia mondiale
per il prossimo anno sarà determinato dalla battaglia fra
il prezzo del petrolio e gli investimento in tecnologia. E le due
forze spingeranno in direzione opposta rispetto a ciò che
hanno fatto nel corso di quest’anno. Nel 2000 il petrolio ha
esercitato una pressione per la contrazione dell’economia e
la spesa tecnologica per la sua espansione. Nel 2001 il petrolio
scenderà, e quindi cesserà di frenare l’economia,
mentre la spesa in tecnologia informatica e delle telecomunicazioni,
che quest’anno, almeno negli Stati Uniti, è cresciuta
a ritmo rapidissimo, rallenterà”. Gavyn Davies, capo
economista della Goldman Sachs, la banca d’investimento americana,
è uno dei grandi guru della City la cui competenza mette
d’accordo tutti, o quasi tutti, sia negli ambienti della finanza
sia in quelli della politica londinese. I mercati finanziari, sostiene
Davies, sono guidati in questo momento da espettative di una recessione
dietro l’angolo. Includono un premio di rischio per una recessione
che non crediamo che ci sarà: l’economia americana non
avrà un atterraggio hard, la crescita in Europa continuerà,
in Giappone assisteremo a un’accelerazione, anche se complessivamente
la crescita sarà meno robusta rispetto a quella del 2000.
I fattori che hanno provocato il rallentamento sono temporanei:
il petrolio, l’aumento dei tassi d’interesse, la caduta
del Nasdaq, la scomparsa dell’ “effetto Millennio”
che in precedenza aveva gonfiato scorte e spesa per investimenti.
Davies ricorda che tutte le recessioni del dopoguerra sono state
causate da shock petroliferi e che quello del 1999-2000 è
delle identiche dimensioni dell’altro, seguito alla guerra
del Golfo. Questa volta, però, non si prelude a una recessione
perché, a differenza di allora, quando i tassi d’interesse
reale toccarono il 5% per i timori d’inflazione, la stretta
delle condizioni finanziarie (tenuto conto dei tassi, dell’andamento
dei mercati azionari e del dollaro, oltre che dell’aumento
degli spread sul debito delle imprese) è molto più
modesta. Quello che potrebbe provocare un atterraggio brusco dell’economia
americana potrebbe essere una violenta frenata della spesa per investimenti,
soprattutto in tecnologia. Ma rischi del genere non si profilano
all’orizzonte. Un rallentamento è cosa molto diversa
da una caduta a vite. L’Europa ne tenga conto.
Conclude l’economista: “In confronto agli anni Novanta,
tutti i Paesi hanno varato una serie di riforme, le più significative
delle quali sono quelle tedesche. Sembra che ci si muova nella direzione
giusta, ma a un passo troppo lento, non sufficiente per generare
i guadagni di produttività che abbiamo visto e continuiamo
a vedere negli Stati Uniti. L’Europa è in condizioni
migliori dal punto di vista ciclico, ha ancora capacità inutilizzata
e la Banca centrale questa volta non “ucciderà”
la ripresa; inoltre, la situazione finanziaria nel Vecchio Continente
è più equilibrata. Ma nella nostra analisi del perché
gli Stati Unii abbiano acquisito un così forte vantaggio
alla fine degli anni Novanta, uno degli elementi principali è
l’assenza, in Europa, di guadagni di produttività derivanti
dalla produzione e dall’uso di tecnologia informatica. Inoltre,
i Paesi che hanno il maggior grado di regolamentazione amministrativa
(e fra questi c’è l’Italia) sono anche quelli che
registrano i minori guadagni di produttività e che rispondono
meno alla nuova sfida della tecnologia”.
I sostenitori delle concertazioni a tutti i costi, che hanno generato
un clima da basso impero, sono avvertiti.
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