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            Il vero rischio è che, usciti dal tunnel 
               
              dellemergenza  
              dei conti pubblici,  
              si imbocchi quello della crisi  
              di competitività. 
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             Rallenta leconomia mondiale, dal 4,6 per cento del 2000 al 
              4 per cento del 2001. Rallenta leconomia europea, dal 3,3 
              per cento al 2,9 per cento, soprattutto per gli aumenti del greggio 
              e per la brusca frenata del gigante americano.  
              In questo scenario, il nostro Paese, ingabbiato da uneccessiva 
              rigidità del mercato del lavoro e da un fisco ancora troppo 
              vorace, continua a registrare tassi di crescita inferiori a quelli 
              degli altri Paesi, con un Prodotto interno lordo che dal 2,7 per 
              cento del 2000 si ridurrà al 2,5 per cento nel 2001 e al 
              2,4 per cento nel 2002. Ed è la competitività a farne 
              le spese, come mostra la caduta di quote di mercato allexport, 
              al 3,6 per cento nel 2000, contro il 4,6 per cento del 1995. Troppo 
              elevato il rapporto tra capitale e lavoro, eccessivi i costi dei 
              servizi pubblici, inefficienti i trasporti, eccessivamente frammentato 
              il sistema produttivo. E così, se si guarda alla redditività 
              del capitale netto, si scopre che nella media del decennio 1989-98 
              lItalia presenta un modesto 1,5 per cento, contro il 7 per 
              cento della Francia e della Germania e il 14 per cento degli Stati 
              Uniti. 
              Ecco perché è necessaria unautentica svolta, 
              per evitare quello che è stato giustamente definito il 
              rischio competitività. Rischio che trova conferma nelle 
              previsioni 2000-2002, che riservano unattenzione speciale 
              al sistema fiscale italiano; perché è vero che la 
              riforma Visco ha fortemente ridotto le aliquote marginali sugli 
              investimenti, che risultano ora tra le più basse di tutti 
              i Paesi industriali, ma è altrettanto vero che ai fini della 
              competitività è essenziale che siano basse le aliquote 
              medie effettive. Eccoci, dunque, a un passaggio nodale: le aliquote 
              marginali non sono adatte a cogliere le convenienze relative in 
              termini di localizzazione tra diversi Paesi e non tengono conto 
              del valore dellautofinanziamento rispetto alle fonti esterne. 
               
              In altre parole: nonostante la riforma Visco e gli annessi e connessi, 
              il carico fiscale sulle imprese con fatturato superiore a 40 milioni 
              di euro resta troppo elevato: è pari al 53,5 per cento in 
              Italia, contro il 49,5 per cento in Germania, il 33,8 in Francia, 
              il 40,5 negli Stati Uniti. Margini di forte incertezza sono individuabili 
              anche sul fronte dei conti pubblici, con il fabbisogno del settore 
              statale fuori linea per 18.000 miliardi almeno. 
              Temi, questi, di strettissima attualità, con una Finanziaria 
              ritenuta dagli imprenditori inadeguata ad affrontare le vere sfide 
              del Paese. La sensazione è che si stia in mezzo al guado, 
              mentre invece i tempi delleconomia impongono scelte immediate, 
              proprio al fine di recuperare competitività. I dati, del 
              resto, sono eloquenti: ci troviamo in una situazione di fortissimo 
              ritardo come sistema-Paese. Il vero rischio, se non si fanno le 
              riforme sociali, è che, usciti dal tunnel dellemergenza 
              dei conti pubblici, si imbocchi quello della crisi di competitività. 
              Con ogni probabilità, il 2000 è stato uno dei migliori 
              anni del ventennio trascorso. La parabola, ora, purtroppo, è 
              entrata in profilo calante, con le croniche difficoltà italiane 
              incontrate nel tenere il tempo al gran ballo delleconomia 
              mondiale. Proprio questo andare continuamente in affanno, questo 
              rimanere sempre un passo indietro, suggerisce lidea che la 
              sindrome di cui soffre leconomia italiana non è solo 
              la conseguenza dellaver dovuto tirare la cinghia per il risanamento 
              dei conti pubblici.  
              Ci sono anche inefficienze sul lato dellofferta che, sicuramente, 
              sono state aggravate dalla cura da cavallo imposta, ma che non spariscono 
              al momento in cui la politica di bilancio ritorna neutrale. 
              In altre parole, resta intatta anche in tempi di vacche relativamente 
              grasse la nota dolente della costituzione gracile della nostra economia, 
              riccamente documentata dalle numerose classifiche mondiali sulla 
              competitività, che vedono il nostro Paese costantemente situato 
              nei bassi ranghi. 
              Loccupazione non va del tutto male, anche se vi incidono le 
              cifre degli inutilissimi lavoratori socialmente utili. 
              Anche con costoro, si è cresciuti dell1-1,2 per cento. 
              Ma in Europa loccupazione (senza lombrello protettore 
              e assistenziale degli Stati) cresce a un ritmo medio dell1,7-1,9 
              per cento. Perché questa differenza? Conta principalmente 
              il fatto che il mercato del lavoro italiano rimane più rigido 
              degli altri. Non per niente uno studio dellOcse ricorda che, 
              quanto a grado di rigidità, il nostro Paese si colloca subito 
              al di sotto della Grecia e del Portogallo. 
              In sintesi: mentre leconomia mondiale scala la marcia, il 
              cambio non è sincronizzato e, come è stato scritto, 
              «manca la frizione». La manovra, perciò, è 
              sempre ad alto rischio. Scenari del 2001 incentrati su tre fronti: 
              quello delleconomia americana, in fase di incerto atterraggio 
              morbido; quello del prezzo del petrolio, che resterà alto; 
              lultimo delleuro, che potrebbe risalire rapidamente 
              con un dollaro in ritirata. Il barometro può segnare bello, 
              stabile o tempesta, ma la nota di fondo resta: il divario di competitività, 
              che fra laltro è duplice, tra lEuropa e gli Stati 
              Uniti, da un lato, e tra lItalia e lEuropa, dallaltro. 
              Questo divario si traduce in minore crescita economica, che vuol 
              dire minore capacità di sfruttare le opportunità della 
              nuova economia per creare benessere e occupazione. Così, 
              Eurolandia si attarda rispetto allAmerica, e lItalia 
              si attarda rispetto ad Eurolandia. 
              Queste differenze di competitività sistemiche e quindi di 
              performance macro-economica hanno un preciso riscontro micro-economico 
              nella minore redditività aziendale: in Italia è la 
              metà rispetto alla Francia e alla Germania, Paesi in cui 
              è già la metà rispetto agli Stati Uniti. 
              Chi non fa abbastanza profitti non può né vuole investire 
              di più, contiene lallargamento della capacità, 
              contribuisce meno alla crescita della domanda. In questo modo, minori 
              investimenti aggravano il divario competitivo. E finora gli imprenditori 
              italiani hanno continuato a credere nelle proprie aziende, mantenendovi 
              un impegno finanziario non ricompensato dal rendimento. Per interrompere 
              questo circolo vizioso il punto dattacco è la riduzione 
              del carico fiscale sulle imprese, ma anche sui privati, che non 
              costa poi tanto, può dare parecchio in termini di maggiore 
              sviluppo, e soprattutto fa riferimento (in via necessariamente preliminare) 
              alla riforma dello stato sociale, del mercato del lavoro, delle 
              persistenti vischiosità del sistema-Paese. 
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